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LA PREVALENZA DELL'IDRAULICO. BREVE SAGGIO SUL DISCORSO POLITICO A PROPOSITO DI CULTURA

Il ruvido scambio di letterine a mezzo Gabo fra il presidente del Circolo dei Lettori Luca Beatrice e il capogruppo in Comune della Lega Nord Fabrizio Ricca mi ha indotto a dare ordine compiuto ad alcune riflessioni che mi ballonzolavano in mente da un bel po'. E dunque, a espiazione dei vostri peccati, le scrivo qui. Sappiate che si tratta di un post senza notizie, per cui se non lo leggete non vi perdete nulla di importante.
Preciso inoltre che io mi sono molto divertito a scrivere il presente post. Non è detto però che voi vi divertiate a leggerlo. Scrivendo non mi sono imposto limiti, e alla fine mi ritrovo un piccolo saggio di 180 righe, un'enormità per il web. Machissenefrega, io mi sono divertito a scriverlo e voi potete non leggerlo, e quindi nessuno si farà male.

Il Circolo dei Lettori: come lo immagina Ricca e com'è sul piano di realtà


La prima considerazione nasce dalla caricaturale visione che Fabrizio Ricca ha del Circolo dei Lettori quando parla di “cultura salottiera monopolizzata e frequentata dai soliti amici degli amici miracolati dalla politica”. Da questa frase deduco che Fabrizio Ricca non ha mai messo piede al Circolo dei Lettori, o ci è entrato con i paraocchi. 
Qui sta l'errore: non si dovrebbe mai giudicare e sentenziare a scatola chiusa o per partito preso o sentito dire. Verificare di persona è una regola di prudenza non soltanto per il buon giornalista, ma per chiunque voglia evitare il maggior numero possibile di figure dimmerda.
Io vado talora al Circolo dei Lettori. Mi capita di incontrarci persone interessanti, scrittori bravi e meno bravi, artisti che non conoscevo: e spesso imparo qualcosa. Mi imbatto pure in alcuni miracolati della politica: ma quelli li frequento, controvoglia, principalmente il lunedì pomeriggio in Consiglio comunale.
Soprattutto, però, al Circolo io incontro gente comune. Incontro anziani che vi trascorrono socializzando e tenendo attiva la mente pomeriggi che altrimenti sarebbero di solitudine e tristezza; incontro liceali e universitari che hanno trovato nelle sale del Circolo un ambiente di studio ben più accogliente e comodo di qualsiasi biblioteca; incontro uomini e donne di ogni età ed estrazione che rubano qualche ora alle quotidiane occupazioni per ascoltare una conferenza, seguire un dibattito, assistere a uno spettacolo, insomma allargare il proprio orizzonte in una sorta di “educazione permanente” che dovrebbe essere l'orgoglio di una città civile, e non qualcosa da considerare – senza conoscerla – un inutile orpello o un covo di chissà quali privilegiati. Direi che l'unico privilegio che scorgo in quelle sale è l'intelligenza. Privilegio che nessun miracolo (men che meno politico) può dare.

Chi può parlare di cultura


Sed de hoc satis. Passiamo alla seconda riflessione, che riguarda una frase di Beatrice, in effetti piuttosto “tranchante”: “Parli di cultura chi ne ha titolo”. Frase che ha suscitato alcune reazioni infastidite soprattutto su Facebook, la patria dei senza titolo.
Una premessa di metodo: è chiaro che chiunque può parlare di cultura come può parlare di calcio, di pesca con la mosca o di viaggi spaziali. Godiamo ancora, per fortuna, della libertà di parola. Io qui mi occupo del "parlare politico" di cultura: ovvero dei discorsi sulla cultura che fanno i "decisori pubblici", gli amministratori, i governanti, insomma i nostri dipendenti che paghiamo gestire il cocuzzaro, se possibile senza far troppo danno.
Ho spesso il sospetto che costoro considerino anche il "parlare politico di cultura" un diritto inalienabile di ogni essere umano - e di sicuro dei politici - come il diritto alla libertà, alla sicurezza, all'istruzione, alla salute e alla ricerca della felicità. Ciò è frutto di un equivoco che tenterò di spiegare con parole semplici ed esempi calzanti.

Che cosa sono le "competenze"


E' fuori discussione che chiunque ha il diritto a istruirsi e a elevarsi culturalmente. Non ne ha l'obbligo, certo: e si vede. Ma qui non si discute dell'accesso alla cultura, che dovrebbe essere alla portata di tutti, compatibilmente con la volontà e le capacità dell'individuo. Né del diritto ad avere un'opinione su qualsivoglia argomento.
Qui si discute di competenze specifiche. Le competenze specifiche sono ciò che i greci antichi definivano “techné”, e gli anglofoni d'accatto chiamano “know how”. E' quel patrimonio intellettuale e pratico, frutto di studio e/o esperienze professionali, che dopo anni di serio impegno autorizzano alcuni a considerarsi – ed essere considerati - “esperti” in una daterminata materia.

Un aereo pilotato dall'idraulico


Ora, nessuno arriverebbe alle Molinette brandendo un bisturi e dicendo “fatemi operare a cuore aperto, so come si fa perché ho affettato salame per tutta la vita e ho pure letto il manuale del chirurgo su Internet”. Chi lo facesse si beccherebbe seduta stante un Tso.
Non lascerebbero entrare in camera operatoria neppure un veterinario; e manco un dentista: con tutto che veterinari e dentisti posseggono alcune nozioni professionali per certi versi analoghe a quelle di un cardiochirurgo. D'altronde nessuno si farebbe otturare una carie da un cardiochirurgo; e neppure da un veterinario; né porterebbe l'amato Bobi incimurrito da un dentista.
Questo è ovvio fino alla banalità nella stragrande maggioranza delle professioni: vi fareste ripare lo sciacquone da un pilota d'aereo? Non vi chiedo neppure se salireste a bordo di un aereo pilotato da un idraulico, o se vi lascereste operare al cuore da un docente di storia medievale: so bene che non siete matti.
Ciò che autorizza taluni a pilotare un aereo, e altri a riparare uno scarico, è la conoscenza della materia, meglio se certificata da appositi documenti. Addirittura, per legge chi s'ostina ad esercitare determinate professioni non avendone titolo finisce al gabbio.

La maledizione del "lavoro culturale"


Eppure, allorché si parla di cultura nel senso di “lavoro culturale”, o “industria culturale”, l'intera faccenda non appare più così ovvia. Il lavoro culturale rientra nell'ambito disgraziato di quelle attività professionali che molti, specie in Italia, ritengono alla portata di chiunque, purché dotato di parlantina sciolta, idee balzane e faccia di tolla. Gli italiani, avendola storicamente frequentata poco e male, considerano la cultura come il gioco del pallone: una dote innata nell'individuo, per cui ogni individuo può impancarsi ad esperto e sentenziare nel merito.
Questo atteggiamento è nefasto per la cultura, mentre nel mondo del pallone è un'opportunità preziosa per certe radio sportive che danno voce ai tifosi, istigando i cinquanta milioni di allenatori residenti nella Penisola a esprimere liberamente le loro personali visioni calcistiche.
La differenza tra calcio e cultura sta proprio nell'ambiente in cui si muovono le legioni di autonominati esperti.

La kasta degli allenatori

L'ambiente del calcio è purtroppo scarsamente democratico, per cui le società s'ostinano a ingaggiare a botte di milioni soltanto gli appartenenti a una ristretta kasta di esperti, i cosiddetti “allenatori”. Costoro non hanno nessun merito, rispetto a Giggetto er Fenomeno del Bar dello Sport: a parte, s'intende, l'aver giocato professionalmente a pallone, talora vincendo scudetti e trofei internazionali; quindi frequentato un apposito “corso per allenatori” e conseguito un regolamentare “patentino”; e infine affrontato una faticosa trafila partendo da squadre giovanili e minori fino ad arrivare alle panchine più prestigiose. Inspiegabilmente questa banale successione di eventi fa sì che gli adepti della kasta allenatoriale siano gli unici autorizzati (e pagati) dalle società per decidere chi mandare in campo, e dire a Dybala che deve arretrare o a Gagliardini di cominciare a scaldarsi. 
Inutile sottolineare come ciò costituisca una lampante ingiustizia ai danni dei milioni di “esclusi” e “non ascoltati”, che ben saprebbero come far vincere la Champions all'Atalanta, ma lo possono spiegare, gratis, soltanto agli amici del bar o di Facebook; semmai ai microfoni di qualche radio misericordiosa, se riescono a prendere la linea.

La cultura, una scienza infusa dallo Spirito Santo

Con la cultura ciò non accade. Almeno, non accade quando della cultura si occupa la politica; la quale è, per definizione, democratica (e tanto meglio se è mediocratica) e dunque presume che chiunque sia stato prescelto dal popolo per rappresentarlo riceva, con l'investitura all'alto mandato, la visita dello Spirito Santo paraclito, come gli apostoli nel giorno della Pentecoste (Atti 2,1-11).
Da quel momento l'eletto (eletto in tutti i sensi) diventa esperto e competente nella qualunque, proprio come gli apostoli dopo la discesa paraclita cominciarono a intendere ogni favella. In virtù di quella Pentecoste mediocratica il politico assurge anche all'autorità di giudice ultimo della cultura ed è quindi autorizzato – anzi, tenuto – a dettare piani di marketing e palinsesti; valutare artisti, operatori, persino scienziati e docenti; discettare sulla qualità di mostre, spettacoli, festival e balletti; promulgare anatemi e distribuire prebende. E in ultima analisi decidere quale cultura vale, e quale no.
Stranamente, in forza della medesima Pentecoste nessun politico – con l'ovvia eccezione dei cardiochirurghi prestati alla politica - s'è mai azzardato ad operare a cuore aperto un elettore, foss'anche di un altro partito. Né si ha notizia di consiglieri comunali che abbiano tenuto lezioni sul calcolo infinitesimale, a meno che nella vita “civile” non fossero, in grazia di pregressi studi, professori di matematica.
Sospetto che essi, i politici, sotto sotto sappiano benissimo che la Pentecoste politica è soltanto un mito, per cui non s'azzardano in attività come tagliuzzare il prossimo, che potrebbero portarli in gattabuia più rapidamente del solito; si limitano a esibirsi in materie che considerano innocue. In fondo hanno ragione: se fai una cazzata col bisturi ammazzi un cristiano, mentre se spari una cazzata sulla cultura nessuno rischia la vita (a parte la cultura) e magari trovi pure un buon seguito di fessi che ti danno ragione.
Da simili considerazioni, credo, nasce l'apodittica richiesta di Beatrice acciocché “di cultura parli chi ne ha titolo”. Altro non è se non l'antico e saggio proverbio “offelee fa el tò mestee”. E non c'è nulla di sprezzante in tale ragionevole istanza. Non esistono professioni nobili e altre ignobili: sono tutte belle e dignitose, se esercitate a regola d'arte e senza arrogarsi campetenze che non si possiedono.

Elogio del signor Q, idraulico

Una delle persone che maggiormente stimo e apprezzo è il signor Q. Il signor Q, oltre a essere una persona intelligente, gioviale e onesta, è anche il mio idraulico e elettricista di fiducia. Mi ha salvato più di una volta volando a casa mia anche la domenica mattina in pieno inverno quando mi sono svegliato con 15 gradi e la caldaia in blocco.
Il signor Q è un uomo moderno e civile, pieno d'interessi. Con lui parliamo di molti argomenti, mentre armeggia con gli scarichi, e anche argomenti non banali. Ma non gli è mai venuto in mente di suggerirmi come scrivere un articolo di giornale, così come io mi prenderei ben guardia dal dirgli quale chiave inglese deve adoperare. Ci rispettiamo. Ciascuno ha le sue competenze, e ne va orgoglioso.
Credo quindi che il signor Q non si offenderà se dichiaro pubblicamente quanto segue: il signor Q sa tutto sulle caldaie a condensazione e le sue conoscenze mi hanno arrecato grandi vantaggi economici e climatici; tuttavia, se desidero un'opinione qualificata su una mostra di pittura, tendo a dare maggior credito a un critico d'arte.
Uno dei motivi per cui stimo il signor Q è questo. Esprime con successo la sua brillante intelligenza nel suo mestiere, e non pretende di possedere la scienza infusa e la verità rivelata in ambiti che non conosce quanto gli impianti idraulici ed elettrici.
Non vedo in ciò nulla di strano, repressivo o antidemocratico.

Un patto di non aggressione

Alla luce di quanto scritto finora non mi sembra dunque eccessivo, né tantomeno sprezzante, chiedere che idraulici, piloti d'aereo e cardiochirurghi prestati alla politica (per non dire dei politici senz'altra arte né parte) contengano la loro naturale esuberanza e non pretendano d'insegnare il mestiere agli operatori culturali, così come gli operatori culturali non vanno a casa dei politici pentecostati pretendendo di sturargli il lavandino, operarli al cuore o portarli in volo a Nairobi.
Ma se qualcuno considera comunque sintomo d'imperdonabile spocchia intellettuale esigere che si parli di cultura con cognizione di causa, mi chiami quando avrà - dio non voglia - bisogno di un chirurgo: verrò ad operarlo io di persona personalmente, sbandierandogli sotto il naso il mio tesserino di giornalista e la mia laurea in Giurisprudenza.
Garantisco l'esito: da bambino giocavo sempre all'Allegro Chirurgo.

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