Guido Catalano: domani il suo reading fa sold out al Colosseo. Significa che 1300 persone pagano un biglietto per ascoltare poesie |
Ricordo che Allen Ginsberg, quando venne a Torino, dovette accontentarsi di riempire il Piccolo Regio. E lui cantava pure.
A memoria mia, di poeti che hanno fatto più incasso a Torino c'è soltanto Bob Dylan: però non aveva ancora vinto il Nobel per la Letteratura, quindi direi che non vale come poeta.
Per festeggiare l'exploit di Guido Catalano - l'unico Ewok che scriva poesie - recupero una vecchia intervista che gli feci per l'introduzione di una sua raccolta poetica. L'intervista è imbarazzante per intervistatore e intervistato. Ma né Catalano, né io, siamo troppo gelosi del nostro buon nome.
Gabo intervista Guido Catalano, ottobre 2013
Signore e signori, benvenuti in questo
libro. Il valoroso editore ha voluto presentare ai lettori curiosi
l’autore di questa raccolta poetica con un’intervista. L’incontro
con Guido Catalano – il Poeta – si svolge nella cucina della casa
dell’intervistatore, in un grigio pomeriggio d’ottobre. Il Poeta
indossa un maglione rosso e parla camminando su e giù per la cucina.
Ogni tanto getta uno sguardo dalla finestra che s’affaccia sul
giardino dell’intervistatore dove fiorisce l’ultima rosa
d’ottobre. Ciò lo conferma Poeta. L’intervistatore lo richiama
al dovere, e esordisce con una proposta artistico-operativa.
Facciamo così, quando diciamo
un’idiozia la scriviamo.
Questa mi pare già un’idiozia.
Scriviamola.
Perché vuoi un’intervista idiota?
Prendersi troppo sul serio è una noia
mortale.
Perfetto, questa è un’altra buona
idiozia. Vuoi un caffè? Comunque, se hai di meglio da fare, puoi
anche andartene, a scrivere idiozie ci riesco benissimo da solo.
Non importa, ho il pomeriggio libero.
Devo soltanto fare la spesa. Non riesco più a trovare il tempo per
la spesa intelligente.
Che cosa intendi per “spesa
intelligente”?
Avere le cose che servono in frigo. Non
ci riesco più, mi manca il tempo. Quindi mi nutro di roba in
scatola.
Ok, cominciamo. Quand’è che ti
sei sentito poeta?
E’ tema delicato: lo dico sempre, e
so benissimo che può sembrare una posa. Ma non mi sono mai sentito
poeta. Una dozzina d’anni fa ho cominciato a chiamare poesie le
cose che scrivevo. Così sono diventato poeta. Allora stavo in un
gruppo rock e scrivevo le canzoni. Le canzoni sono come le poesie:
roba che va a capo. Certo, essere poeti ti dà delle belle
soddisfazioni: c’è gente che mi scrive e mi dice “Prima non
avevo mai letto poesie, e grazie a te ora le leggo”. Insomma, sono
gli altri che dicono che sono un poeta. C’è pure chi sostiene che
la mia è nient’altro che prosa con tanti a capo. Alcuni mi
definiscono un cabarettista. Altri, semplicemente un cretino.
Questione di punti di vista. Però, secondo me, a volte scrivo cose
che sembrano proprio poesie: è inutile che ce lo meniamo. Quindi, mi
sento autorizzato a qualificarmi come poeta professionista vivente.
Non sarà che stai cominciando a
prenderti sul serio?
No, mai. Il giorno che comincerò a
prendermi sul serio potrò appendere il computer al chiodo e darmi al
golf. Però ammetto che il rischio c’è, sempre. E se accade, alla
fine cominci a scrivere male. In realtà io prendo sul serio quello
che faccio, lo considero la cosa più importante della vita. Ma cerco
di non prendermi sul serio come persona: non vorrei mai diventare
uno di quei poeti tristi, noiosi e vestiti di nero.
Comunque fare il poeta è meglio di
lavorare.
Assolutamente sì.
Se non avessi fatto il non poeta,
che cosa saresti stato?
Un avvocato penalista. Io vengo da una
famiglia di penalisti, penalista mio padre, penalista mio nonno…
Sono anche stato iscritto a Legge per un anno. Per questo mi piace
dire che non sono un poeta civile, ma un poeta penale. La battuta è
più profonda di quanto sembri. E il lavoro del penalista è più
interessante di quello del civilista.
Una famiglia di penalisti come l’ha
presa, quando hai deciso di diventare un poeta?
Quando ho lasciato Legge per Lettere in
casa si è avvertita un po’ di tristezza: ma mio papà è stato
molto sportivo, se n’è fatto una ragione. Adesso in famiglia la
mia carriera di poeta professionista vivente è accettata, anche perché vedono che la cosa funziona. A mia madre in realtà le mie
poesie non piacciono, però non me lo dice in faccia. A mio padre sì,
mi sembra che le apprezzi. L’ironia devo averla presa da mio padre.
E prima dell’università, dove hai
studiato? Liceo?
Classico. Al D’Azeglio. I sei
peggiori anni della mia vita.
Sei anni?
Mi hanno bocciato in tronco in quarta,
e sono uscito alla matura con 36. Umiliante. Poi mi sono preso una
bella rivincita: qualche anno fa mi hanno invitato proprio al
D’Azeglio a leggere le mie poesie, ed è stata una catarsi. Da
asino a poeta. E, soddisfazione delle soddisfazioni, ho scoperto che
nella biblioteca del D’Azeglio c’è un quadro con le copertine
dei libri scritti dagli allievi del liceo che sono diventati famosi
scrittori: e c’è pure un libro mio. Non so se rendo l’idea. Un
mio libro accanto a quelli di Pavese. Il fatto è che io volevo fare
l’alberghiero. Al classico proprio non mi trovavo. Non studiavo.
Una delle mie prime poesie fu un’invettiva contro il D’Azeglio.
Adesso, se cerchi “D’Azeglio” con Google, quella poesia appare
tra i primi risultati. Mi immagino un ragazzino che va in rete per
informarsi sulla sua futura scuola e trova quella roba lì. Cosa puoi
fare contro lo strapotere internettiano?
Nelle tue poesie parli molto di
sesso. Sei un maniaco?
No. Almeno, non credo. Però ho avuto
un inizio di attività sessuale difficile. Faticoso. Sono partito
tardi, e solo adesso che sono diventato un sex symbol le cose mi
vanno decentemente. Di conseguenza ne abuso. Sono come quelli che
hanno sofferto la fame e poi trovano tanto cibo. Il fatto che scriva
molto di sesso e di amore dipende dal fatto che mi piace molto e l’ho
scoperto tardi. Almeno, credo che mi piaccia molto: anche se non ho
ancora capito bene.
Ma quand’è stata la tua prima
volta?
La prima fidanzata l’ho avuta a 24
anni.
Epperò! Un diesel. Lento in
partenza.
Già. Un diesel. Che stenta a partire,
ma quando parte non lo fermi più. Da ragazzo, quando tutti
cominciano a fare le cose, io ero lì, fermo. Forse avevo una paura
fottuta della figa. Nel mio primo libro c’è una poesia intitolata
“La grande vagina cannibale”. Gran parte delle poesie di quel
libro parlano di quella prima fase della mia vita, e della mia
grandissima depressione da mancanza di amore e di sesso. Se le
rileggo, vedo la mia psiche di quando avevo vent’anni: era un po’
sdrummata.
Sdrummata?
Sì, sdrummata. Con la erre. Io in
realtà riesco a dirla, io, la erre. Insomma, vedi di capire: io ho
cominciato a 24 anni a fare sesso, e le cose hanno preso ad andarmi
decentemente a 30, bene a 35 e ottimamente a 40. Insomma, sono pochi
anni che godo di una vita sentimentale appagante. Credo che questo
spieghi tutto. Però immagino di non essere l’unico: tanta gente ha
problemi, per questo si identifica in quello che scrivo.
Adesso sei fidanzato?
Non più, per l’appunto da due anni.
Per questo dico che da due anni le cose mi vanno ottimamente. Ho
avuto delle fidanzate, prima: anche fisse, anche di lunga durata. Ma
adesso non riesco più a vedermi fidanzato. Mi piacerebbe innamorarmi
di nuovo, in teoria. In concreto no… non so.
Sbadigli? L’argomento ti annoia?
No, tutt’altro. E’ che ho dormito
pochissimo, stanotte: soffro di insonnia da cambio di stagione e da
ansia per le cose che ho da fare. Adesso anche il lavoro ha
cominciato ad andarmi bene, e ho grossi problemi di gestione.
Il lavoro di poeta?
Beh, è diventato un lavoro. La
primavera scorsa mi sono pure aperto la partita Iva. Sono una micro
azienda, insomma. Scrivo le mie cose e poi le vendo in giro per
l’Italia. E nonostante la crisi funziona. Strano, no? Credo ci sia
un collegamento, tra la crisi e la voglia di poesia: ma non so quale.
In compenso adesso sono incasinato con l’organizzazione del mio
tempo. Dovrei scrivere, e invece perdo le giornate per promuovere il
mio lavoro, mandare mail, cercare ingaggi. Avrei bisogno di una
segretaria. E commetto anche errori marchiani: il più classico è
fissare due serate consecutive in due città a mille chilometri di
distanza una dall’altra
Non ho capito se in questo periodo
stai scrivendo o no.
Ho un contratto con una importante casa
editrice per scrivere un romanzo. Questo è il mio grosso problema,
adesso: in realtà io non sono strutturato per un romanzo, sono come
uno che ha sempre fatto i cento metri, e gli tocca di correre la
maratona. Parte per maratona correndo come per i cento metri. Così
dopo 600 metri crolla. E’ un’impresa che mi costa sangue e
sudore, e onestamente non so come affrontarla. Il metodo per scrivere
poesie è diverso dal metodo per scrivere romanzi. Forse dovrei
iscrivermi a un corso da romanziere.
Perché hai accettato la proposta?
Semplice: perché mi hanno dato dei
soldi. E’ la prima volta che mi pagano in anticipo per scrivere
qualcosa. Di solito mi pagano dopo, o non mi pagano e basta. Poi è
anche una questione di ego. C’è chi darebbe una mano per avere la
fiducia di una grande casa editrice che gli propone di pubblicare un
romanzo. Terzo, sono uno che dice sì facilmente. Mi piace
sperimentare cose nuove. Ad ogni modo, ci proverò. Conto sull’aiuto
della giovane editor che mi hanno affiancato.
Che tipo è?
La giovane editor? Incoraggiante.
Brava, direi. Sembra un elfo. L’ho anche scritto nella prime pagine
del romanzo. Ma loro non vogliono un romanzo su come scrivere un
romanzo.
Ad ogni modo, anche questo è un
segno tangibile del successo.
Beh, successo è una parola grossa. Di
sicuro, la mia è stata una lunga marcia. Ho cominciato dodici anni
fa con “I cani hanno sempre ragione” e in dodici anni ho
pubblicato solo sei libri. Sono uno che crede nei piccoli passi. Ora
però sento che non è più il momento di attendere. Ho scoperto che
se uno preme sull’acceleratore, i risultati arrivano. Io ho sempre
adottato la tecnica di fare le cose e aspettare, senza andare in giro
a chiedere. Questo forse mi ha rallentato.
La tivù ti ha aiutato?
Parecchio. Da quando ho partecipato a
“Celi mio marito” su Raitre mi chiamano di più a fare
spettacoli, è aumentato il pubblico, e aumentano le visite su
internet. Direi che la tv vale un 30 per cento in più di pubblico.
Se vai in tivù, a prescindere dal successo della trasmissione, sei
comunque più figo. Cresce il tuo tasso di figaggine, ti considerano
di più. Sei come uno che prima giocava magari in serie A, ma per non
retrocedere, mentre adesso può puntare alla Champions. Non oso
immaginare che cosa significhi essere in una trasmissione che
funziona moltissimo, che cosa significhi spaccare davvero in
televisione.
Così ora sei sempre su e giù per
l’Italia per i tuoi reading.
Credo di essere stato in tutte le
regioni tranne Molise e la Calabria. Non ci sono grosse differenze,
tra Nord, Centro e Sud: ho trovato bei pubblici da Aosta alla
Sicilia. Al limite la differenza la trovo nella gente: al Centro-Sud
è più calorosa. E si mangia meglio. Almeno, a gusto mio.
Mangiare in giro ha nuociuto alla
tua linea?
Assolutamente sì. Quando sarò ricco e
potente, oltre a una segretaria che mi spicci le faccende
burocratiche, avrò anche un cuoco che mi seguirà ovunque e mi
preparerà pranzi dietetici. Nell’attesa, mi abboffo di delizie
regionali saporitissime, e al diavolo la dieta. La settimana scorsa
sono stato in Abruzzo e ho impazzato senza freni inibitori
dall’arrosticino al pesce. La gente è ospitale, te l’ho detto, e
quindi non vede l’ora di farmi assaggiare le specialità del posto.
Stiamo avviandoci all’esaurimento
dello spazio che ci ha messo a disposizione l’editore. Hai ancora
qualche messaggio che vorresti consegnare alla posterità?
Direi che i temi fondamentali li
abbiamo toccati tutti: amore, sesso, cibo. Ecco, resta da parlare di
morte. Un mio libro si intitola “Piuttosto che morire mi ammazzo”
e vorrei dire che ho una dannata paura di morire. Preferirei non
morire almeno per i prossimi trent’anni. Per questo ho smesso di
fumare. Voglio dire alla posterità che fumare nuoce gravemente alla
salute. Soprattutto alla salute di uno come me, che se prende un
vizio diventa subito un dipendente smodato. Sono cintura nera di
dipendenza.
Come ti poni con i funerali?
Non ci vado mai. Neanche a quelli di
famiglia. Una cosa da non fare è invitarmi a un funerale.
E ai matrimoni?
Dipende. Alcuni sono noiosi da spararsi
nei coglioni, ma mi è capitato di andare a matrimoni divertenti... Consiglierei però alla gente di non sposarsi d’estate, quando fa
un caldo da impazzire, e bardati come si va di solito ai matrimoni è
una sofferenza infinita. Non c’è niente di male a sposarsi a
febbraio o novembre, e il clima è più accettabile.
Sei soddisfatto di questa
intervista?
Quando faranno le tesi di laurea di
sicuro la leggeranno. Mi domando quando faranno la prima tesi di
laurea su di me: chi la farà, e leggerà questa intervista, sappia
che ha tutta la mia stima. Per il momento mi basta essere stato
materia d’esame alla maturità. La professoressa di un liceo
torinese mi ha invitato a un incontro con le sue classi, dopo aver
regalato a tutti i ragazzi un mio libro, e così sono diventato parte
del programma, pur non essendo morto da cinquant’anni, e anzi
piuttosto in salute. In compenso, a Verona, a un convegno sulla
poesia, c’era un professorone dell’università che quando ci
siamo incontrati mi ha stretto la mano senza neanche guardarmi in
faccia, se n’è andato a metà del mio reading, e il giorno dopo ha
scritto un post feroce sulla pagina degli organizzatori dicendo che
era uno scandalo aver invitato un “cabarettista di second’ordine”.
Penso si riferisse a me. Ma in questi casi io non replico: vorrebbe
dire che comincio a prendermi sul serio. Non sia mai.
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