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LA FAVOLA DEI BAMBINI AMBIZIOSI

United Colors of Pomodorini: alcuni dei partecipanti alla presentazione di "Metti in piazza la cultura"
Per strada, una madre prende a scapaccioni il figlio piangente urlandogli "sei ambizioso e sporcaccione!", e slaf!, giù uno schiaffo, "sei ambizioso e sporcaccione!" e slaf! un altro schiaffo, tanto che un passante indignato interviene: "Signora, si fermi! Ma che fa? Perché picchia il bambino?". "Se lo merita - ringhia l'assatanata - se lo merita perché è ambizioso e sporcaccione!". Al che il brav'uomo insorge: "Non si picchiano così i bambini! E poi che vuol dire, ambizioso e sporcaccione?". E la madre furente: "E' ambizioso perché vuole scorreggiare come suo padre, e sporcaccione perché non è capace e se la fa nelle mutande".

Lo spettacolo deve continuare. Così ieri sono uscito, dopo due settimane; e sperando di ritrovare le ragioni di questo assurdo mestiere sono andato a una conferenza stampa al teatro Carignano. Presentavano un "festival" intitolato "Metti in piazza la cultura" - di cui m'importava come del mio primo dentino - ma c'era un po' di sole, e la piazza era piena di scolaresche vocianti, e uno strimpellatore di strada cantava "The sound of silence" e si stava bene e la vita sembrava accettabile.
Dentro il Carignano, i pomodorini (cfr. il post "I pomodorini e lo stronzo") come al solito trillavano giulivi e magnificavano il "festival" che è "un momento di festa e di grande energia" e "mette insieme tantissime istituzioni culturali" e "si rivolge a famiglie e cittadini" ed è "attento a diversi tipi di pubblico" e porta la cultura in piazza "perché se la gente non entra nei teatri dobbiamo uscire noi" - e bravo te, purché non piova... 
Insomma, le solite storie.
Io guardo il volantino con il programma del "festival" e apprendo, fuor di retorica pomodorinica, che il 27 e il 28 maggio in piazza Carignano e nel cortile dell'antistante Palazzo, nonché il 28 nella piazza del Duomo di Alba (in virtù del fondamentale accordo fra Torino e i langhetti), si terranno "70 eventi con 300 ospiti". Gli "eventi" vanno dal "laboratorio didattico sull'energia dell'arte" al "concerto dal balcone monumentale", dalla presentazione di "un progetto letterario" alla "esibizione pianistica" di due giovani a me ignoti. A dire il vero, tra i "trecento ospiti" annunciati non riesco a trovarne di noti alla mia ignoranza, con l'eccezione di Mauro Berruto. Gli altri rientrano - per me, s'intende! - nella vasta categoria dei muy conocidos en su casa a la hora de comer.
Fuori, sulla piazza, lo strimpellatore di strada ha riattaccato "The sound of silence" e non la canta neppur male, così io mi domando se per caso fa parte anche lui del "festival", magari è una specie di anteprima, che so, tipo "Aspettando Metti in piazza la cultura"...
Avverto un certo disagio. Il disagio che provo quando sento usare le parole a muzzo.
Lì, al tavolo della conferenza stampa, i pomodorini trillanti continuano a parlare di "eventi", di "festival"... Ma di questi "eventi", di questi "festival", le piazze delle grandi città d'Europa son piene tutti i giorni. Di fronte al Centre Pompidou di "festival" così ce n'è uno ogni ora. Quelli che il volantino definisce "eventi" si chiamano in realtà "spettacoli di strada" e sono una cosa molto simpatica, molto piacevole, molto turistica; se volete, anche culturale; ma gli "eventi" sono altro. Altro sono i "festival". 
Guardo i miei pomodorini con tenerezza. Gli voglio bene, in fondo. Sono lì, due assessori comunali e un assessore regionale e un presidente dello Stabile e una soprintendente - schieramento, questo sì, da "grande evento" - per raccontarci e raccontarsi la favola bella di un ennesimo festival di questa Torino capitale di cultura. E a me torna alla mente la scena di "Amici miei" - comica e amara insieme -  con il conte Mascetti che illustra allo stronzissimo figlio del Perozzi le magnificenze dell'orrido seminterrato in cui sopravvive in squallida povertà, e definisce "castello" il loculo dove dorme la famiglia.
A questo siamo ridotti. A esaltarci per gli spettacoli di strada. A ripetere all'infinito la stanca pratica di infiocchettare scatoloni di piccole cose appiccicandogli su nomi pomposi.
Finito champagne, finito amore. Soldi non ce ne sono più. Brancichiamo parole e numeri, discettiamo su bilanci e finanziamenti che verranno, risorse che magicamente troveremo, non si sa quando, non si sa dove. Anzi, si sa, si sa benissimo - mai e da nessuna parte sono le risposte - ma non vogliamo dircelo.
 Come un generale sconfitto che sposta sulle mappe armate che non esistono più, noi infelici viventi di questo tempo sbandato spostiamo voci di bilancio e cespiti improbabili pur di non guardare in faccia la realtà. E ci rimpalliamo le responsabilità di una catastrofe più grande di noi, che ha infiniti padri e ancor più infinite vittime. 
Cambiare il nome alle cose - definire "festival" due giorni di spettacolini di strada, ed "eventi" gli spettacolini di strada - non ci salverà. Ci salverebbero, forse, le grandi visioni, i progetti innovativi, gli orizzonti diversi. Ci salverebbero le idee lungimiranti, i pensieri laterali, gli sguardi non omologati. L'Europa postbellica risorse dalle sue macerie non perché definì "palazzi" le macerie; ma perché ebbe, a guidarla, statisti che seppero immaginarle un diverso destino. 
Però quelli erano, per l'appunto, statisti. Pensavano alle generazioni future, non alle elezioni imminenti.
Noi statisti non ne abbiamo. Abbiamo gente come noi - buoni o cattivi, furbi o cretini, moderatamente capaci o moderatamente incapaci. Per una serie di fortuite circostanze, alcuni governano, altri fanno opposizione. Come possono. E possono poco, possono per quel che valgono, e valgono come chiunque altro. Un decimale. Uno zero virgola. Non sono migliori, né peggiori di me. La differenza sta soltanto nel fatto che loro sono "eletti". Attenzione, però. "Eletto" ha due significati: vuol dire "designato a una carica o a un ufficio mediante votazione" oppure "chiamato o destinato a una grande missione" e quindi speciale, unico, superiore. Purtroppo i nostri "eletti" lo sono soltanto nel primo significato. Come me, come chiunque, si rendono conto benissimo dell'inadeguatezza delle loro ricette. Ma non ne hanno altre: come me, come chiunque. Io però non ho avuto mai e mai avrò l'orgoglio luciferino di fingermi depositario di ricette salvifiche; e quindi non ho preteso di farmi "eletto" (nel secondo significato) candidandomi a essere "eletto" (nel primo significato).
Non vengano dunque - non venite - a dirmi "tu che critichi tanto, che cosa faresti di meglio?": quando ho avuto il cancro, sono andato da un medico che sapeva curarmi e mi ha curato. Se invece mi avesse prescritto un'Aspirina, avrei obiettato che mi sembrava una cura inadeguata; e sarebbe stato davvero grottesco se lui, il medico, mi avesse rimbeccato dicendomi "ah, sì? E allora dimmi tu qual è la cura giusta". No, carino: tu hai voluto fare il medico; e tu, adesso, devi darmi la cura, se ce l'hai. Non io, che sono un inutile giocoliere di parole.
La mia debole intelligenza mi consente soltanto di vedere che questa strada porta al nulla. Ma non sono un "eletto" (in entrambi i significati) e dunque non so sognare altre strade. 
La cattiva notizia è che neppure gli "eletti" (nel primo significato) di cui disponiamo sanno sognare.
E così procediamo verso il nulla, circondati da bambini ambiziosi e mamme schiaffeggiatrici.

Commenti

  1. Lo spettacolo continua e la vita continua. Bentornato a scrivere

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  2. stupendo esempio di CULTURA DELLE EFFIMERE CAZZATE.. solo un metodo per BRUCIARE FONDI PUBBLICI IN CAZZATE neanche tanto mascherate di "cultura"....

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    Risposte
    1. Egregio anonimo: da nessuna parte, nel post, sta scritto che "Metti in piazza la cultura" è finanziato con fondi pubblici. Per il semplice motivo che "Metti in piazza la cultura" non riceve un centesimo di fondi pubblici. Lei ha scritto una solenne minchiata. Prima di banfare occorre documentarsi. Le sconsiglio di proseguire la lettura del mio blog: non fa per lei. Troverà in rete numerosi siti di fake news, disinformazione e bufale che meglio potranno soddisfarla. Lasciamoci così, senza rancore.

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