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IL TJF HA FATTO CENTRO. E LI CALZI HA TROVATO LA SUA FORMULA

Giorgio Li Calzi, direttore e musicista
La sesta edizione del Torino Jazz Festival, la prima della nuova serie dopo la sfortunata parentesi di Narrazioni Jazz, si chiude con un evidente successo. La comunicazione municipale dichiara "oltre 22 mila presenze" totali, fra concerti a pagamento e appuntamenti gratuiti nei locali e altri spazi.
La cifra potrebbe essere enfatizzata, come sempre quando si tratta di calcolare a spanne gli spettatori dei concerti a ingresso libero: ma gli show a biglietteria - i pomeriggi al Piccolo Regio e al Conservatorio, e le serate alle Ogr - hanno collezionato un tale filotto di sold out da certificare da soli, a borderò, la riuscita del progetto, e il gradimento del pubblico. 

Le scelte di Li Calzi: non il solito festival

Si sa: una piazza in gratuito la riempi pure con un artista qualsiasi, mentre non è mai facile riempire un teatro a pagamento, persino con un fuoriclasse. Servono intuito, gusto, fiuto. E un pizzico di fortuna. Serve una proposta non banale, però neppure troppo ostica. Il merito della riuscita - tutt'altro che scontata - del rinato Tjf è dunque del direttore: Giorgio Li Calzi ha assemblato un cartellone non soltanto dignitoso, con punte di notevole qualità, ma soprattutto originale. Ha intercettato pubblici diversi, suscitato curiosità, cavalcato tendenze. Prendendosi anche qualche rischio calcolato. Quindi sì, Li Calzi al primo tentativo ha fatto centro, e per riuscirci non ha cercato le vie più ovvie. Forse proprio per questo motivo ha vinto: perché - come d'altronde aveva promesso - il suo Tjf non è stato "il solito festival". 
In nessun senso. Neppure come se lo immaginavano.

La ricerca della continuità

Il Tjf 2018 è stato una sorpresa. E un brillante esempio di eterogenesi dei fini. L'obiettivo dichiarato dalla politica era stabilire un "legame con il territorio" per creare un "festival diffuso" e promuovere "le eccellenze locali" facendole "dialogare con le star internazionali", e ovviamente "portare la musica" nei soliti posti dove "la musica normalmente non entra". E dunque nella miriade di appuntamenti a ingresso libero c'era un po' di tutto, e al pubblico è piaciuto un po' tutto. Questo però accadeva anche con il "vecchio" Tjf. Il Fringe e l'Off avevano quelle funzioni, e bene o male ci provavano. 
Mancava invece, al Tjf di Fassino, la capacità di costruire un ambiente, di gettare i semi per una attività jazzistica importante nell'intero arco dell'anno. Quell'obiettivo per il Tjf di Appendino resta, al momento, un wishful thinking. Per dare continuità a quanto seminato in questi giorni serviranno altri investimenti, ha dichiarato il direttore Li Calzi in una recente intervista al Giornale della Musica: "Dal budget del Tjf ne abbiamo accantonato uno piccolissimo per 3-4 attività che intendiamo fare tra settembre e dicembre in collaborazione con altri festival cittadini e non. A parte ciò, è da ottobre che dichiaro la volontà di fare una stagione di eventi durante il corso dell'anno, ora lo sta dichiarando anche l'assessora, e subito dopo il festival è intenzione mia e di Diego Borotti di richiedere un nuovo, anche piccolo, budget da spalmare durante il corso dell'anno". Vasto e ambizioso programma, di questi tempi. Mi auguro gli riesca. 

L'obiettivo di Fassino: il richiamo turistico

Quella del "legame con il territorio" è stata fin dall'inizio la magnifica ossessione del nuovo Tjf, fino a indurre i portavoce del Comune a riscriverne la storia. Era infatti giusto e doveroso dedicare il concerto di Carla Bley, sabato scorso, alla memoria di Maurizio Braccialarghe, ma dichiarare che egli "aveva inteso restituire visibilità al fermento musicale locale ideando il Torino Jazz Festival" mi pare quantomeno una forzatura. E contraddice la Chiarabella d'opposizione che bollava il festival fassiniano come qualcosa "nella pura logica del grande evento". Aveva ragione l'oppositrice Appendino: Fassino voleva il "grande evento" per attrarre turismo. Il "grande evento" come "volano per il turismo" fu una costante della passata amministrazione. E non a caso il Tjf fu piazzato nel periodo - infelice, per organizzare un jazz festival - a cavallo fra il 25 aprile e il Primo maggio: era pensato per sfruttare i "ponti". 
Del "fermento musicale locale" Filura poco s'interessava. E per quel motivo Chiarabella lo attaccò con un mitico post sul blog di Beppe Grillo (http://www.beppegrillo.it/listeciviche/liste/torino/2013/05/torino-jazz-festival-perche-non-rifarlo.html) che adesso, purtroppo, è stato rimosso.

Di enfasi in enfasi

Ciò che più mi infastidiva nel Tjf di Fassino era però l'enfasi da "opere del regime" che lo circondava, fino a indurre due persone assennate come Filura e Braccialarghe a esibirsi in conferenza stampa con tragici cappellini alla Blues Brothers. Manco se i destini politici della giunta, e quelli economici della città, dipendessero da qualche assolo di clarinetto. 
Lo stesso clima, purtroppo, ha accompagnato la rinascita del Festival nell'era appendiniana, con cori ultrà e la scivolata grottesca - speculare ai cappellini di Filura&Braccia - che ha portato Chiarabella & Maiunagioia a esibirsi con sax e tromba. Per finta, grazie al cielo.

Un caso di serendipity

Ma l'aspetto più interessante della questione è un altro.
Il Tjf di Fassino non riuscì a diventare davvero un forte volano per il turismo, con buona pace degli affannosi tentativi della propaganda comunale di dimostrare il contrario. E invece quest'anno - quando, prudentemente, nessuno più accenna al ROI o altre ricadute economiche del festival - pare che pubblico da fuori Torino ne sia arrivato. Magari non tanto, però ho empiricamente raccolto segnali positivi.
E qui la politica non c'entra. C'entra, credo, ciò di cui parlavo all'inizio: l'intuito di un buon direttore, quale si è rivelato Giorgio Li Calzi. 
Essendo prima di tutto un musicista, Li Calzi ha ragionato più da musicista che da direttore. E ha fatto scelte personali che a un direttore "classico" non sarebbero venute in mente.
L'Italia pullula di jazz festival che propongono sempre gli stessi nomi. Anche grandi nomi. Ma non è il grande nome che fa dieci date in Italia ad attirare gente da fuori città. Il pubblico del jazz - e non solo quello - si muove, semmai, per le produzioni originali, che se non le ascolti lì non le ascolti mai più; oppure per l'artista in esclusiva, meglio ancora se è un artista in fase di decollo, ma di cui già si dice un gran bene; e piacciono i cartelloni non manichei, le contaminazioni che non siano fini a se stesse o stucchevoli, magari qualche strizzatina d'occhio al pop ma senza svaccare. E' una ricetta complessa, e pare che Li Calzi l'abbia azzeccata. 
Trattasi di serendipity. Cercando il festival "condiviso, partecipato, inclusivo e legato al territorio", il trombettista prestato alla direzione Giorgio Li Calzi ha trovato la formula dell'Evento Unico e Originale che Fassino e i suoi direttori hanno inseguito invano per cinque lunghi anni. Quanto ai "fermenti locali", che dire? Invidie, risentimenti, rivalità e malcontenti non sono mancati stavolta, come non mancavano nel Tjf fassiniano. Ciascuno si batte per la sua pagnotta, e non tento neppure di individuare torti e ragioni.  

Bando o non bando? Una postilla sul metodo

Infine, un'osservazione d'ordine metodologico. Com'è noto, Li Calzi non è stato selezionato tramite un bando pubblico. La sua nomina è frutto di una "segnalazione" in perfetto stile ancien régime. Eppure si è dimostrato nei fatti all'altezza dell'incarico che gli è stato affidato. Questo mi conferma nella mia opinione: non è vero che soltanto il bando assicura la selezione dei migliori; e non sempre la nomina politica premia gli amichetti incompetenti.
Tuttavia sarebbe gradita un po' di chiarezza da parte di lorsignori. L'atteggiamento ondivago in materia che Appendino ha tenuto come sindaco contraddice quanto ha sosteneva dai banchi dell'opposizione. E non mi sembra coerente che Francesca Leon, interpellata sui criteri per le nomine, risponda che anche in futuro si deciderà "a seconda dei casi".
Voglio ripeterlo ancora una volta, casomai non si fosse capito: personalmente detesto i bandi. Li considero il rifugio dei politicanti cacasotto, ipocriti e maneggioni, che li usano per salvare la faccia e non prendersi dei rischi, e poi gabolano per arrangiarli come gli comoda. Quindi non sono mai stato un paladino del bando ad ogni costo, né lo considero garanzia di trasparenza. Tutt'altro. Io vorrei che i politici si assumessero sempre la responsabilità politica delle loro scelte.
Però mi disturba la vaghezza con cui gli attuali governanti gestiscono la questione. E' come se dicessero: "Il bando serve con gli altri, perché sono disonesti. Noi siamo onesti, dunque il bando non serve". Come criterio mi sembra un po' rozzo. La trasparenza passa anche dal rispetto, almeno formale, di regole certe e uniformi: per quanto possano risultare scomode o imperfette, sono pur sempre meglio dell'arbitrio. Lo scrivevo ai tempi di Fassino, mi tocca di ripeterlo oggi. Nihil novi sub sole.



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