Gabriele Vacis |
L'altro giorno ho ripreso e pubblicato un post di Francesca Lonardelli che commentava con originale intelligenza i provvedimenti della giunta in materia di "sicurezza" della notte, e le loro conseguenze.
Suscita immediata condivisione.
Gli argomenti sono ineccepibili.
E io vorrei prima di tutto partecipare alla sua preoccupazione e a tutte le eventuali iniziative che partiranno da questo appello.
Però non posso posso fare a meno di notare che le ragioni profonde della progressiva chiusura di Torino sono ormai introiettate anche da chi la chiusura la contrasta (me compreso, naturalmente).
Dice Francesca che La chiusura di tutti questi spazi ha “sacrosantissimi” motivi.
Non è così.
Dice Francesca che I locali non sono a norma e va bene, ce ne siamo accorti solo ora e va bene.
No, non va bene. Non va bene per niente. E' proprio questo che non va bene. E non è che ce ne siamo accorti solo ora: è che progressivamente si sono intensificate le restrizioni.
Le misure di “sicurezza”, da tempo, non servono a garantire l’incolumità delle persone ma lo scarico delle responsabilità di chi dovrebbe garantirla, l’incolumità.
Se cambi il significato delle parole, se l’incolumità delle persone diventa “sicurezza”, vale tutto... vale mettere transenne in piazza San Carlo, che sono la causa ultima degli incidenti. Le transenne garantiscono la “sicurezza” dei funzionari che non devono avere responsabilità, ma non garantiscono l’incolumità delle persone. Anzi, sono la causa degli infortuni.
Si potrebbe dire che siamo vittime della sicurezza.
Perché se chiamiamo l’incolumità “sicurezza” vale tutto?
Perché la sicurezza non è un obiettivo perseguibile.
La sicurezza è un sentimento privato, intimo. Porsela come obiettivo è come porsi l’obiettivo dell’amore, dell’onestà, della legalità...
L’incolumitá e la prevenzione degli infortuni non sono sentimenti privati: sono obiettivi socialmente concreti.
Se l’obiettivo è una parola astratta come “sicurezza” si finirà, come dice Francesca giustamente, per proibire in attesa di pianificare, e quindi l’unica possibilità sarà emettere ordinanze coprifuoco.
Quindi faccio una proposta: torniamo a chiamare le cose con il loro nome.
Chiamare le cose con il loro nome costringe alla concretezza.
Chiamare le cose con il loro nome è una pratica che va perseguita con pazienza e consapevolezza, e permetterà di articolare obiettivi astratti in risultati perseguibili.
Così, piano piano, forse, si smetterà di aspirare alla produzione di carte che non servono a limitare gli incidenti, ma a distribuire parcelle. Si smetterà di chiamare le persone sbagliate a risolvere problemi che non esistono. Un esempio per capirci: l’altra sera al TG regionale hanno detto che a Torino i crimini sono in netta diminuzione, ma i cittadini hanno sempre più paura. Quindi hanno chiamato il capo della polizia, Franco Gabrielli, per affrontare la questione. Cosa c’entra la polizia? Se i crimini diminuiscono la polizia sta già facendo il suo dovere. Il capo della polizia potrà assicurare che ce la metteranno tutta perché diminuiscano ancora. Ma questo non servirà a far passare la paura ai cittadini, perché, dato che i crimini sono già meno, la paura dovrebbe essere già passata! Il problema é che se chiamiamo, guarda caso, anche la protezione dei cittadini, “sicurezza”, continueremo a fare ordinanze restrittive fino al coprifuoco.
Proviamo a tornare a chiamare le cose con il loro nome.
Un grande scrittore, Luigi Meneghello, diceva che morendo una lingua non muoiono solo certi modi di indicare le cose, muoiono le cose.
Quando non usiamo le parole per quello che significano, le parole muoiono. E insieme a loro muoiono le cose.
Ora, mentre prosegue la mia "vacanza" pre-Salone, Gabriele Vacis - autore e regista teatrale di grande valore che in questi giorni lavora a "Cuore/Tenebre", lo spettacolo che chiuderà la stagione dello Stabile - mi invia una sua riflessione sui temi affrontati dalla Lonardelli. E' un bel testo, acuto e stimolante come sempre gli scritti di Vacis. Lo pubblico con estremo piacere:
Vacis: di cosa parliamo quando parliamo di sicurezza
Il tono di Francesca Lonardelli è accorato e sincero.Suscita immediata condivisione.
Gli argomenti sono ineccepibili.
E io vorrei prima di tutto partecipare alla sua preoccupazione e a tutte le eventuali iniziative che partiranno da questo appello.
Però non posso posso fare a meno di notare che le ragioni profonde della progressiva chiusura di Torino sono ormai introiettate anche da chi la chiusura la contrasta (me compreso, naturalmente).
Dice Francesca che La chiusura di tutti questi spazi ha “sacrosantissimi” motivi.
Non è così.
Dice Francesca che I locali non sono a norma e va bene, ce ne siamo accorti solo ora e va bene.
No, non va bene. Non va bene per niente. E' proprio questo che non va bene. E non è che ce ne siamo accorti solo ora: è che progressivamente si sono intensificate le restrizioni.
Le misure di “sicurezza”, da tempo, non servono a garantire l’incolumità delle persone ma lo scarico delle responsabilità di chi dovrebbe garantirla, l’incolumità.
Se cambi il significato delle parole, se l’incolumità delle persone diventa “sicurezza”, vale tutto... vale mettere transenne in piazza San Carlo, che sono la causa ultima degli incidenti. Le transenne garantiscono la “sicurezza” dei funzionari che non devono avere responsabilità, ma non garantiscono l’incolumità delle persone. Anzi, sono la causa degli infortuni.
Si potrebbe dire che siamo vittime della sicurezza.
Perché se chiamiamo l’incolumità “sicurezza” vale tutto?
Perché la sicurezza non è un obiettivo perseguibile.
La sicurezza è un sentimento privato, intimo. Porsela come obiettivo è come porsi l’obiettivo dell’amore, dell’onestà, della legalità...
L’incolumitá e la prevenzione degli infortuni non sono sentimenti privati: sono obiettivi socialmente concreti.
Se l’obiettivo è una parola astratta come “sicurezza” si finirà, come dice Francesca giustamente, per proibire in attesa di pianificare, e quindi l’unica possibilità sarà emettere ordinanze coprifuoco.
Quindi faccio una proposta: torniamo a chiamare le cose con il loro nome.
Chiamare le cose con il loro nome costringe alla concretezza.
Chiamare le cose con il loro nome è una pratica che va perseguita con pazienza e consapevolezza, e permetterà di articolare obiettivi astratti in risultati perseguibili.
Così, piano piano, forse, si smetterà di aspirare alla produzione di carte che non servono a limitare gli incidenti, ma a distribuire parcelle. Si smetterà di chiamare le persone sbagliate a risolvere problemi che non esistono. Un esempio per capirci: l’altra sera al TG regionale hanno detto che a Torino i crimini sono in netta diminuzione, ma i cittadini hanno sempre più paura. Quindi hanno chiamato il capo della polizia, Franco Gabrielli, per affrontare la questione. Cosa c’entra la polizia? Se i crimini diminuiscono la polizia sta già facendo il suo dovere. Il capo della polizia potrà assicurare che ce la metteranno tutta perché diminuiscano ancora. Ma questo non servirà a far passare la paura ai cittadini, perché, dato che i crimini sono già meno, la paura dovrebbe essere già passata! Il problema é che se chiamiamo, guarda caso, anche la protezione dei cittadini, “sicurezza”, continueremo a fare ordinanze restrittive fino al coprifuoco.
Proviamo a tornare a chiamare le cose con il loro nome.
Un grande scrittore, Luigi Meneghello, diceva che morendo una lingua non muoiono solo certi modi di indicare le cose, muoiono le cose.
Quando non usiamo le parole per quello che significano, le parole muoiono. E insieme a loro muoiono le cose.
Gabriele Vacis
Ottima cosa pubblicare questo testo. Grazie mario fatibene TST
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