Com'è nella migliore tradizione
dell'avanspettacolo, si parte con lo sketch comico: Chiarabella e
Maiunagioia vengono bardate con sassofono e tromba (Chiarabella ha il
sassofono e Maiunagioia la tromba) e spedite sul palco a divertire il
pubblico. Il siparietto chiude il cerchio della vita dello sventurato
Torino Jazz Festival, che nel 2012 fu tenuto a battesimo dal Filura e
dal povero Braccialarghe di cara memoria travestiti da Blues Brothers.
Ieri alla Mole la solita compagnia di giro ha presentato in
pompa magna il nuovo logo del vecchio Tjf, e l'enfasi era quella del
quinquennio fassiniano. Perché il Tjf è come l'araba fenice:
risorge dalle ceneri del ridicolo, acclamato con vibrante giubilo da chi per cinque anni
ne invocò l'abolizione e nel 2017, finalmente al potere, tentò
l'operazione gattopardesca di cambiargli il nome fingendo di cambiare
tutto.
E così ci beccammo "Narrazioni Jazz", che passerà
alla storia come il festival jazz più sfortunato - e con il nome più
grottesco - dell'intera storia dei jazz festival a Torino. Una catastrofe epocale che dopo essere stata definita "un'esperienza" (da 600 mila euro) a distanza di un anno è rimossa dagli annali e dalla prosopopea del potere torinese. Cancellata come i volti dei gerarchi
sovietici in disgrazia dalle fotografie della parata sulla Piazza
Rossa. E come il mitico post dell'allora consigliera d'opposizione Chiara Appendino (http://www.beppegrillo.it/listeciviche/liste/torino/2013/05/torino-jazz-festival-perche-non-rifarlo.html), adesso opportunamente sparito.
E difatti. Nei fervorini ufficiali che seguono l'esibizione comico-musicale dell'Appe&Leon Duo, la Mole viene definita "un luogo simbolo per iniziare questo racconto del Tfj". Lo so, in questi casi la frase che ti aspetti sarebbe "iniziare questa narrazione del Tjf": ormai tutto è "narrazione", per i Signori della Fuffa. Ma la parola "narrazione" è bandita dalla narrazione ufficiale di Torino. Almeno se si tratta di una narrazione jazz. Meglio quindi "racconto": non evoca brutti ricordi.
E difatti. Nei fervorini ufficiali che seguono l'esibizione comico-musicale dell'Appe&Leon Duo, la Mole viene definita "un luogo simbolo per iniziare questo racconto del Tfj". Lo so, in questi casi la frase che ti aspetti sarebbe "iniziare questa narrazione del Tjf": ormai tutto è "narrazione", per i Signori della Fuffa. Ma la parola "narrazione" è bandita dalla narrazione ufficiale di Torino. Almeno se si tratta di una narrazione jazz. Meglio quindi "racconto": non evoca brutti ricordi.
Il mistero dei due direttori
Bando alle ciance, lo spettacolo
continua. Chiarabella, deposto il sax, s'eclissa lasciando la
trombettista a promettere un festival più grande e più bello che
pria. Segue colpo di scena. Conduce lo show Angela Larotella,
garanzia di continuità: segretaria generale della Fondazione Cultura
con Fassino, segretaria generale della Fondazione Cultura con
Appendino, braccio esecutivo del Torino Jazz Festival, braccio
esecutivo di Narrazioni Jazz, e adesso di nuovo braccio esecutivo del
Torino Jazz Festival. In versione brava presentatrice, Angela lancia il numero
successivo: "E adesso do la parola ai due direttori del Torino
Jazz Festival!".
Due?
Due.
Giorgio Li Calzi e (a destra) Diego Borotti |
Scesa dal palco, a mia precisa domanda Angela dà una spiegazione più vaga: dice che Borotti affianca Li Calzi, ma non è proprio proprio direttore, "però non mi andava di dirlo così, per semplificare li ho chiamati tutti e due direttori". Un po' confuso, chiedo poi lumi a Li Calzi. Lui mi dice che "Diego fa cose che io so fare meno, segue molti aspetti...". Ah, ecco. Adesso capisco.
I due-direttori-due sono bravi
musicisti ma l'oratoria non è il loro forte, quindi si spicciano con qualche parola di circostanza e annunciano l'attrazione seguente, un
video nel quale alcuni noti scrittori e musicisti italiani
magnificano le qualità del Festival prossimo venturo, premurandosi
di precisare che loro, però, non ci saranno. A parte Culicchia, che
dice che il Tjf lo hanno organizzato per festeggiare il suo
compleanno, il 30 aprile. Almeno lui, deduco, ci sarà. E' brutto
dare buca alla propria festa di compleanno.
Che cos'è un logo "internazionale"
Logo internazionale sulla Mole locale |
Così lo spettacolo si chiude come
s'era iniziato, con una bella risata. E' durato esattamente 21
minuti, un record di concinnitas: niente domande - "è una
presentazione, non una conferenza stampa" - e la compagnia di
scioglie in un baleno, appuntamento a fine marzo per il disvelamento
del programma del Festival che si terrà dal 23 al 30 aprile. Dunque,
noto, si torna all'antico: durerà otto giorni (era arrivato a dieci
al culmine dell'era fassiniana) anziché i cinque di Narrazioni Jazz. Il budget, in compenso, dovrebbe restare più o meno lo stesso. Magari qualcosina di meno. Però i concerti grossi, quelli a pagamento alle Ogr, ci saranno
soltanto dal 26 al 30: prima, immagino, avrà ampio spazio la
creatività dei jazzisti locali. Vabbè. Staremo a vedere.
Lunga dissertazione sul mestiere di direttore
Ma adesso parliamo di cose serie.
L'assessore Leon anche ieri sera ha magnificato "la scelta di
due direttori che vengono dalla musica". Manco quello di prima fosse un ex metalmeccanico. Però la narrazione (pardon, il racconto)
del potere comunale è lampante: abbiamo affidato il Festival Jazz ai
musicisti. Ciò è indiscutibile. Li Calzi e Borotti sono musicisti. Certo, Li Calzi dirige da anni il piacevole Chamoisic, piccolo ma interessante festival di musica sperimentale che si tiene nell'alpestre località di Chamois; mentre il curriculum di Borotti come organizzatore è più ampio e specifico, anche se non vi abbondano le rassegne equiparabili al Tjf, almeno come ambizioni (qui c'è da gestire un budget attorno i 550 mila euro). Penso comunque che siano quelle le credenziali per cui l'hanno "affiancato" a Li Calzi.
Poiché entrambi sono bravi musicisti, e li
conosco da una vita, spero che si
rivelino anche bravi direttori del Tfj. Ma essere un bravo
musicista professionista non implica automaticamente essere anche un bravo direttore
di festival professionista. Come un bravo giornalista non è per ciò stesso un bravo romanziere (lo constatiamo di continuo...), o
l'aver guidato per tutta la vita non ci autorizza a immaginarci
piloti di Formula Uno. Dirò di più: un grande pittore può essere
un mediocre critico d'arte, e un esperto macellaio sbagliare
clamorosamente la cottura di una fiorentina.
Aggiungo: un ottimo regista può deragliare come direttore di un festival cinematografico. Abbiamo sotto gli occhi un esempio recente. E non venitemi a dire sì però
Moretti, si però Amelio, si però Virzì... Al Tff il direttore vero
- quello che faceva il festival quando i direttori ufficiali erano
registi famosi - era Emanuela Martini, lo sanno tutti: i registi
famosi davano il loro tocco, la loro personalità, ma le beghe e i
casini e la dura quotidianità e le scelte che poi decretano il
successo o il fallimento di un festival se li spupazzava la coriacea
Emanuela. Che difatti era, è e resta un'ottima direttrice di
festival cinematografici, anche se non risulta che abbia mai girato neppure un filmino della prima comunione.
E' questo l'equivoco oggi trionfante. Equivoco dettato
da approssimazione, leggerezza, o convinzione (consolatoria per gli incapaci) che chiunque possa fare qualunque cosa. Eppure chi
sostiene tale stramba teoria non si farebbe mai operare a cuore
aperto da suo cugggino che taglia tanto bene il prosciutto. O forse sì: con i cretini non si può mai dire.
Ad ogni modo: fare il direttore di festival è un
mestiere, come fare l'idraulico, il conducente d'autobus, il musicista o l'avvocato.
Richiede tecniche specifiche, esperienza, conoscenza. Non si
improvvisa. Nulla si improvvisa. Nulla si possiede per scienza
infusa.
Mi auguro quindi che Li Calzi e Borotti siano adeguatamente attrezzati.
Mi auguro quindi che Li Calzi e Borotti siano adeguatamente attrezzati.
Volevo una missione, e per scontare i miei peccati me ne assegnarono una
Ieri sera, dopo lo spettacolino alla
Mole, ho incrociato Giorgio Li Calzi. Gli ho domandato come stava.
"Più vegeto che vivo", mi ha risposto. E in quella
risposta ci ho visto un mondo. Un mondo difficile. Poi Giorgio mi ha
parlato dei suoi progetti, del festival che vuole fare. Un festival
diverso, un festival con tante produzioni originali, con musicisti
torinesi che incontrano i grandi del jazz italiano e mondiale, un
festival aperto alle contaminazioni. Un vasto e ambizioso programma.
Giorgio ci crede. "Ma è così difficile, non immaginavo
tanto..." ha aggiunto. Eh già. Visti da fuori certi mestieri
sembrano un gioco da ragazzi. Poi entri nel
gioco, e ti accorgi che niente è facile. Hai grandi sogni,
grandi orizzonti; e ti scontri con un mondo piccolo e rapace che ti tira per la giacchetta, e peperoni ficcati in ogni
dove, e mendicanti che invocano una pagnotta e un palchetto, e
lestofanti che cercano di fregarti, e
mille compromessi; e giorno dopo giorno ti spegni, e l'avvenire è
ormai quasi passato, e ti piomba addosso la fatica del desengaño, e va a finire che ti senti più vegeto che vivo.
Ok, c'è un altro direttore, quello che
risolve i problemi. Ma anche così i tormenti continuano, e accontenti uno e ne scontenti mille, e tutt'attorno è un ribollire di invidie, maldicenze, gelosie, rivalità, indignazioni, aspettative, e quello è
amico di quell'altro e nemico di questo e favorisce caio e fotte sempronio e tu intanto devi vedertela con il budget, e con le mille
incombenze e i mille cazzimazzi, e ogni sì e ogni no diventano un
affare di stato, e man mano l'angoscia cresce e i tuoi sì e i tuoi
no sono sempre più svogliati, e svapora l'entusiasmo e perdi
l'allegria, ed era così bello suonare e fare il mestiere per il
quale sei nato e che ti piace talmente da non sembrare neppure un
mestiere, ma un regalo del cielo.
Capita quasi a tutti, almeno una volta nella vita. Accetti un incarico che non hai nel Dna. Accetti per curiosità, per
gusto della sfida, per spirito di servizio. O magari per ambizione. Non c'è nulla di male a essere ambiziosi. Accetti, e ti ritrovi a piangere e a
urlare solo in mezzo al mare. Come dice il capitano Willard in
Apocalypse Now? "Volevo una missione, e per scontare i miei
peccati me ne assegnarono una".
Finale beneaugurante, per quanto possibile
La simpatia umana
e la stima che nutro per Giorgio Li Calzi mi inducono però a sperare
che sopravviva alla tempesta. Lo auguro anche a Borotti, naturalmente. E per il bene di Torino vorrei che il Tjf funzionasse. Mi sforzo di essere moderatamente fiducioso sulla
parte del Festival - quella davvero importante - che si terrà alla
Ogr, la cui struttura direttiva sta fattivamente collaborando. E la Fondazione Crt spenderà anche di tasca propria per arricchire il cartellone. Il resto - il
contorno, i concerti e concertini in giro per la città - nel
peggiore dei casì andrà come vanno in genere queste faccende: senza
infamia e senza lode, con gli immancabili entusiasti (quelli invitati
a suonare) e gli altrettanto immancabili scontenti (quelli tagliati
fuori). O magari, chessò, i due direttori s'inventeranno qualcosa di
straordinario e mai visto, e trasformeranno Torino in New Orleans. Io
non ci credo, ma non pongo limiti alla provvidenza. E ad ogni modo
peggio dell'anno scorso non può andare - così, a lume di logica...
- e quindi comunque vada sarà un successo.
clap clap
RispondiEliminaGrazie, ancora una volta siamo arrivati alle stesse (prevedibili) conclusioni.
RispondiEliminaAmmetto di capirne poco di loghi e personalmente rimpiango quello colorato e folle, esattamente come il jazz, ideato dal Laboratorio Zanzara. D'altra parte c'era da aspettarselo dopo il plagio semi tarocco di "Torino Eventi 2018", che ricorda più un triste Barbapapà senza volto che la genialità della Zanzara.
RispondiEliminaNon so cosa voglia esattamente dire "logo internazionale", anche se il nuovo logo del TJF appena presentato rimanda a quello serioso e monocromatico della Juve, e oggi più che mai a va nen bin..