L'altro ieri ho pubblicato sul Corriere qualche considerazione sull'uso e abuso della parola fundraising, ultimo rifugio dei nostri conti Mascetti. Preciso - a beneficio di quanti hanno mosso giuste osservazioni - che nel pezzo, per semplificare, mi riferisco a fundraising e sponsorizzazioni quasi fossero la stessa cosa: purtroppo le esigenze di spazio di un giornale spesso sono d'ostacolo a spiegazioni dettagliate. Ad ogni modo, coloro che definisco "dilettanti del fundraising" - dai politici agli operatori ai generici sprovveduti - usano beatamente i due termini come se fossero sinonimi: e quindi, se lo fanno loro, tanto vale che lo faccia anch'io, parlando delle loro imprese. Oggi l'articolo è disponibile anche on line e lo linko qui nel caso interessi a qualcuno. Incomincia così:
Fundraising è una parola come resilienza o gentrificazione: in tanti la usano perché fa figo; non tutti ne saprebbero spiegare l’esatto significato; e ciascuno le attribuisce il significato che meglio gli conviene.
Fundraising è una parola come resilienza o gentrificazione: in tanti la usano perché fa figo; non tutti ne saprebbero spiegare l’esatto significato; e ciascuno le attribuisce il significato che meglio gli conviene.
I politici ci marciano per autoassolversi quando tagliano i finanziamenti: «Se i fondi pubblici non vi bastano, vi salverà il fundraising».
I direttori artistici per paracularsi: «Ah, che grandi cose farei se avessi il fundraising...».
Gli organizzatori per meditare sul declino: «So organizzare un festival ma non so fare fundraising».
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