Per chi se lo fosse perso (e beninteso fosse interessato a leggerlo), ripubblico qui il commento - non disponibile on line - uscito ieri sul Corriere cartaceo.“Una volta c'erano i soldi e c'erano le visioni. Oggi soldi ce ne sono meno, e non c'è nessuna visione”. Frase triste ma vera, che ben descrive i tempi difficili che abbiamo attraversato e quelli ancora più difficili che ci attendono. Potrebbe sottoscriverla chiunque, oggi: l'imprenditore e il lavoratore, il dipendente e il pensionato, il disoccupato e il commerciante. Però è stata pronunciata, qualche giorno fa, a un convegno in cui si discuteva delle difficoltà ormai perenni che strangolano gli operatori culturali torinesi. Per loro non c'è pace: dopo il covid già incombe l'incubo dell'inflazione e delle bollette che quest'inverno destabilizzeranno i bilanci di teatri e club, centri culturali e musei. Come quelli delle famiglie, certo, e delle imprese, sicuro, e degli enti pubblici, inevitabilmente.
Secondo Jean Paul Sartre “ci sono due specie di poveri, quelli che sono poveri insieme e quelli che sono poveri da soli: i primi sono i poveri veri, gli altri sono soltanto dei ricchi che non hanno avuto fortuna”. Se Sartre aveva ragione, siamo tutti poveri veri. Chi più, chi meno. Ma anche i “meno” stavolta se la vedranno brutta.
Gli operatori culturali, in verità, se la vedono brutta da anni, e verrebbe da immaginare che ormai ci abbiano fatto il callo, e alla fin fine riescano comunque a sfangarla.
I diretti interessati non ne sembrano così convinti. Mai come negli ultimi mesi ci si è interrogati su dove va la cultura a Torino, verso quali destini o disastri; si susseguono i convegni, i panel, le tavole rotonde; cambiano i relatori, gli esperti, gli stakeholder; ma lo stato d'animo non cambia, e sta tutto in quella frase a mezzo fra senso d'impotenza e nostalgia di una mitizzata “età dell'oro”, quando la cultura era importante e tutto sembrava andasse bene. “Quando c'erano Leo e Alfieri...” è l'incipit di ogni lamentazione. Nel ricordo incrudelito dalle odierne ristrettezze, gli assessori alla Cultura Giampiero Leo e Fiorenzo Alfieri assurgono a benigni numi tutelari che tutto potevano e tutto concedevano. Le cose, naturalmente, non stavano proprio così, le lamentazioni si levavano pure ai tempi di Leo e Alfieri. Ma è innegabile che, loro, i soldi li avevano, perché a quei tempi i soldi nelle casse pubbliche c'erano, e semmai venivano spesi con fin troppa noncuranza; così come è innegabile che quegli assessori avevano una visione, un progetto. Per loro la Cultura era davvero un asset strategico.
Adesso invece gli operatori del settore si sentono fuori dai pensieri della politica. La totale scomparsa della Cultura dal dibattito elettorale è un macro fenomeno da non sottovalutare. Però non è una novità: stento a ricordare un partito che in passato abbia fatto della Cultura il proprio vessillo in vista delle urne. E chi ci ha provato ci ha lasciato le penne. La Cultura non porta voti, è un dato di fatto.
Ma il desengaño degli operatori torinesi nei confronti della politica – o per meglio dire di Comune e Regione, che della politica sono l'incarnazione territoriale - ha ragioni più vaghe, forse più difficili da cogliere. Rispetto al passato, infatti, il rapporto con le istituzioni in apparenza è migliorato: il dialogo, almeno formale, c'è. Rosanna Purchia e Vittoria Poggio sono persone garbate e affabili. Gli incontri con gli operatori culturali sono frequenti, l'assessore ascolta le proposte, si complimenta, si impegna ad approfondire, offre anche un caffè, congeda gli ospiti con sorrisi e strette di mano... “E poi non succede niente”, raccontano scoraggiati i reduci dai cordiali incontri.
Questo non è del tutto esatto: Purchia e Poggio, ciascuna nel suo, cose ne hanno fatte, ad esempio intervenendo sul meccanismo dei bandi. Ed è anche vero che i grandi progetti non si realizzano in un giorno. Semmai, ci si domanda quali siano di preciso i progetti: l'assessore Purchia a suo tempo dichiarò di non volere inventare nulla, “chi è venuto prima di noi ha già inventato tutto, noi dobbiamo solo tutelare, perfezionare, incrementare”. Anche Poggio, insediandosi, si impegnò a conservare quanto di valido avevano lasciato le amministrazioni precedenti. Dichiarazioni sensate e tranquillizzanti, dopo gli anni grillini del “tutto sbagliato, tutto da rifare”. Ma sufficienti a fronte delle nuove crisi e delle nuove sfide che anche la Cultura si trova ad affrontare? Servono, per l'appunto, “visioni”: o quantomeno “una” visione.
Nel frattempo, in attesa delle grandi visioni, gli operatori culturali torinesi si accontenterebbero di piccole risposte alle urgenze del momento. Perché l'inverno che viene sarà durissimo, e nelle attuali condizioni molti non ce la faranno: sopravvissuti al terremoto dei lockdown, associazioni e club e circoli culturali potrebbero soccombere all'uragano delle bollette.
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