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SALONE: IL SOLITO, INEVITABILE SUCCESSO

La trentaseiesima edizione del Salone Internazionale del Libro ha chiuso ieri con un record di 222.000 visitatori (furono 215 mila l'anno passato). L'appuntamento è per la prossima primavera: la trentasettesima edizione si terrà dal 15 al 19 maggio del 2025 (lo specifico per chi è stramazzato leggendo la "nota stampa conclusiva" del Salone dove stava scritto testualmente "L'appuntamento è per la prossima primavera: la XXXVII edizione si terrà a Torino dal 15 al 19 maggio 2024", cioè domani. Don't panic, è solo un errore di battitura. 
L'anno prossimo il paese ospite sarà l'Olanda, la regiorne ospite la Campania.
Sul Corriere di oggi c'è il mio commento finale, Intanto ripubblico qui due degli articoli dei giorni scorsi, non reperibili on line:

Venerdì 11 maggio. We don't need another hero, non ci serve un altro eroe, cantava Tina Turner. Sta lì la cifra del Salone di Annalena Benini
(foto): non è il Salone “di” Annalena Benini, né di nessun altro. È il Salone di tutti e di nessuno, un Salone multipolare, senza un capo carismatico. È della direttrice Benini, e della sua squadra di curatori; ma pure del Circolo dei Lettori in quota Regione, della Fondazione Cultura in quota Comune, e dei privati della Salone del Libro srl; e delle donne e degli uomini – più donne che uomini - che lo fanno giorno dopo giorno.
Un meccanismo complesso, l'ha definito Giulio Biino presidente del Circolo: ma pare funzioni, anche se manca il frontman, il Mick Jagger degli Stones, l'uomo-immagine com'era Nicola Lagioia, direttore onnipresente che parlava, dichiarava, buttava il cuore oltre l'ostacolo. Nic aveva soccorso un Salone allo sbando, rinfrancato le truppe avvilite, chiamato a raccolta con la sua oratoria appassionata e appassionante la “comunità del Salone”: autori, editori, librai, lettori e, ciò che più conta, i torinesi tutti. Coraggioso, Nic, senza timore di apparire a volte divisivo.
Annalena non è una front-woman; non lo è per indole, la cantilena del suo parlar corsivo non scalda i cuori. Non è una capopopolo. Tantomeno divisiva. E in fondo va bene così perché al Salone del Libro, affidato nei tempi duri al focoso Nicola Lagioia, oggi non servono più eroi. Basta una guida sommessa e sensata per far funzionare un meccanismo ben oliato e al sicuro (per ora...) dai cataclismi del passato, quando soltanto un eroe - infelice il Salone che ha bisogno di eroi - poteva scongiurare il naufragio. Lagioia s'è preso dei rischi, è incappato in ogni possibile burrasca, ci ha messo la faccia quando nessuno era disposto a farlo, ha combattuto le sue guerre uscendone vincitore quando la sconfitta non era esclusa. Annalena al posto Lagioia non ce la vedo, in momenti così. Ma quei momenti appartengono al passato, al tempo delle guerre. Oggi – in felice controtendenza rispetto al mondo fuori – al Lingotto c'è la pace. O almeno una ragionevole tregua. Ci sono direttori per il tempo di guerra, e direttori per il tempo di pace. Annalena Benini è una direttrice per il tempo di pace. E spero che la pace duri, almeno al Salone.

Domenica 13 maggio. Quando si dice l'autoinverarsi (all'incontrario) della profezia. Faccio appena in tempo a scrivere che il Salone non ha più bisogno di direttori di guerra, e che Annalena è una direttrice di pace, ed eccola lì, di sabato pomeriggio, la guerra che preme alle porte del Lingotto con i tafferugli fra dimostranti pro-Palestina e forze dell'ordine.
È l'immancabile “crisi del Salone” che, puntuale, si materializza quando tutto sembra filar liscio. Come l'anno scorso con la contestazione contro la ministra Roccella. Allora il focoso direttore Lagioia si buttò a capofitto nel bailamme, si dannò l'anima per riportare la calma, con il risultato – destino comune a tanti pacieri – di prendersi bastonate (per fortuna solo verbali) da destra e da sinistra.
Ieri, invece, Annalena Benini l’ha presa bassa. Senza sussulti di protagonismo. A ciascuno il suo mestiere, avrà pensato. Il suo è dirigere il Salone, e il Salone è andato avanti senza risentire di quanto accadeva alle porte. Quel che è fuori dal Salone resta fuori dal Salone: magari cinico, certo realistico. A placare gli animi è andato, di propria iniziativa, Zerocalcare: che in quanto Zerocalcare non rischiava bastonate né fisiche né verbali. Alla fine una delegazione di manifestanti è potuta entrare a dire la sua. La causa palestinese ha avuto comunque visibilità e i tafferugli sono rimasti tali, fatto di cronaca e non pretesto per intemerate politiche con vista sul voto.
Ok, è la filosofia del “tout passe, tout lasse, tout casse”, ovvero “mo' je passa”. Può non piacere, ma ha funzionato. Almeno dal punto di vista di chi voleva un Salone normalizzato: anestetizzato – se visto da sinistra – oppure, dicono a destra, “non divisivo”.
Sta di fatto che alle masse che affollano il Lingotto poco sembra importare degli opposti maldipancia: in concreto il Salone è quello di sempre, parla Saviano e parla Pezzana, ogni visitatore sceglie chi ascoltare, chi gradisce resta e chi non gradisce esce. Sfilate in camicia nera non se ne vedono così come in passato non s'eran viste assemblee dei soviet. L'amico Luca Beatrice scriveva che quest'anno “si respira un'aria di maggior democrazia”. A me non pare che prima imperversasse Pol Pot. È il solito Salone, bello perché vario. Ma se a destra adesso sono convinti che ci sia maggior democrazia, sono felice per loro: smetteranno di sturbarsi. E sono felice per la direttrice, che chiotta chiotta ha fatto il suo ottimo Salone senza alzare i toni, con il suo parlar corsivo e il suo tranquillo non protagonismo. Degna allieva del magister Morandi: si può dare di più senza essere eroi. E visto il risultato va bene così.


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