Ieri, per la prima volta in un quarto di secolo, non sono andato alla conferenza stampa di presentazione del Torino Film Festival. Vi ho assistito davanti allo schermo del pc. Ho rivisto i volti di sempre, ho ascoltato le parole consuete: eppure mi sentivo a disagio, Eravamo in una dimensione diversa, la dimensione della vita virtuale, di un Festival virtuale dove i film sono proiettati in sale virtuali e ogni azione e ogni interazione si svolge in uno spazio indefinibile abitato da voci e parole scritte, nel quale i corpi non esistono, non possono entrare, non sono previsti.
Nel tempo del covid ciò non è una notizia. E' la normalità. Una normalità anormale, l'unica che il momento ci concede. Necessaria e insieme innaturale per chi ha vissuto decine di Festival come un giorno di marca, una ricorrenza della vita quale potrebbe essere il pranzo di Natale, la fine della scuola, il compleanno, le tappe consuete del nostro annuale cammino.
Così, dal 20 al 28 novembre non andremo al trentottesimo Torino Film Festival, il Festival Che Non C'è. Ci saranno i film, come sempre, e i programmi speciali, e i dibattiti, le masterclass, persino le conferenze stampa e i biglietti per assistere alle proiezioni sulla piattaforma MyMovies. Ma non ci sarà il Festival. Non ci saranno le chiacchiere al baretto di fianco al Massimo, le corse a perdifiato da un cinema all'altro, le code davanti alle sale che si trasformavano in pre-dibattiti fra gli spettatori, il passaparola meraviglioso dell'hai visto il film Tale no non ancora ma lo vedo domani mattina alle 10 poi vado al Reposi per la retrospettiva del regista Talaltro e hai visto Tizio no non ancora forse viene per l'incontro con Caio...
Anche quello è il Torino Film Festival.
Dal 20 al 28 novembre verranno presentati sulla piattaforma MyMovies 138 film, e dalla Mole - come da uno studio televisivo - andranno in rete eventi, incontri, dibatti, cose da festival. Ma non esisterà una comunità del Festival; se non virtuale, in remoto e dunque remota.
L'altro giorno, ascoltando on line il direttore Stefano Francia di Celle descrivere il suo primo, emergenziale Tff, dolorosamente pensavo al Festival di Sanremo, all'oscena finzione di perfetto e algido e prevedibile show televisivo in cui l'ho visto trasformarsi negli anni, dal baraccone sgangherato ma vero che era un tempo, specchio certo dell'Italia peggiore, però specchio di una realtà, parte di una realtà, e dunque vitale nella sua ruspante cialtroneria.
Il Tff è invece, per nostro vanto e fortuna, lo specchio della Torino migliore; ma proprio per questo è ancor più doloroso pensarlo svuotato della sua natura intima di “festival di popolo”, amato e partecipato da una città che lo sente suo, patrimonio di famiglia anche per i tanti, i più, che al cinema non ci vanno, però “sentono” nell'aria che a Torino c'è il “nostro” Festival e sono contenti. E' lo stesso affetto che lega i torinesi al Salone del Libro, che li ha spinti ad insorgere compatti – pure quelli che al Salone non c'erano mai entrati – contro le trame dello scippo milanese. E', quello del Salone e del Tff con Torino, il rapporto speciale, carnale, che si è creato fra chi vive in questa città e due istituzioni che hanno saputo – pur fra mille traversie, errori e cadute - farsi simboli culturali e, insieme, presenze domestiche irrinunciabili.
La “non presenza” quest'anno del Tff, così come del Salone, è un dolore. Piccolo, certo, a confronto con i dolori immani che ci infligge l'infame 2020. Un sottile dolore: lo stesso che proveremo a Natale per l'assenza di uno zio buono che il lockdown terrà confinato altrove. Né ci consolerà la videochiamata di mezzanotte, perché non è la stessa cosa.
E così sia del Tff numero trentotto: quello che ricorderemo come il Festival di Consolazione.
Si poteva far diversamente? No. Unica alternativa era la rinuncia totale. Si salta un anno e arrivederci nel 2021, se va bene. Arrendersi e lasciar perdere sarebbe stata, a mio avviso, una scelta razionale. Ma inaccettabile sul piano umano per tanti: per chi nel Tff ci crede, per chi lo ama, per chi ci lavora.
Penso a Stefano Francia di Celle e alla sua squadra: per questo impalpabile festival da tempo di guerra hanno gettato il cuore oltre l'ostacolo, impegnandosi come se un domani ci fosse, mettendoci passione e sudore e intelligenza per costruire un festival degno e bello. E invece se lo son visto dissolvere a poco a poco fra le mani mentre la data fatidica s'avvicinava e i contagi crescevano e sfumava il progetto del festival in presenza, e quindi pure quello del festival ibrido. Finché la realtà dei numeri e dei morti e dei Dpcm a raffica ha imposto la dura ineluttabilità di una vita virtuale per una creatura, il Festival, che è sì della sostanza dei sogni – di sogni sono fatti i film – ma è anche concreta materialità di persone, di voci, di volti, di storie, di esistenze.
Il Tff del 2020 è il frutto di una decisione difficile. Non so se giusta. Certo comprensibile e coraggiosa.
Però non riesco a esultare perché “il Festival si fa comunque”. Sono e resto un uomo del Novecento, di quelli che i ragazzi definiscono sprezzantemente boomer, e non ho voglia, né motivo, per oppormi a un futuro che non vivrò. Ma ogni passo verso la smaterializzazione del contatto umano fa crescere in me un senso d'inquietudine che non mi piace; non saprei dire che cosa esattamente mi spaventi, però spero proprio di non esserci se e quando accadrà.
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