Ieri, sul Corriere, ho voluto richiamare l'attenzione su un piccolo grande tesoro di Torino, la sala danze Le Roi opera del geniale Carlo Mollino. Un capolavoro segreto della nostra architettura novecentesca che di rado i turisti (e pure i torinesi) hanno modo di ammirare, ammesso e non concesso che ne conoscano l'esistenza.
Purtroppo l'articolo al momento non è on line, e poiché la valorizzazione delle risorse artistiche della città è un tema che mi appassiona, mi permetto di ripubblicare qui il mio scritto a beneficio degli eventuali interessati che ieri non abbiano avuto occasione di leggerlo sul giornale.
Adesso Le Roi è tristemente chiuso in ossequio alle misure anti-covid che penalizzano le sale da ballo: l'altro giorno io ci sono tornato per seguire una manifestazione elettorale in cui si discuteva di cultura. Ma rivedere Le Roi mi ha risvegliato il dolore antico per la segreta bellezza dei tanti gioielli che questa città trascura e abbandona all'oblio, tesori sepolti dietro portoni sbarrati e burocratiche trascuratezze.
Il “music hall Le Roi”, per i vecchi torinesi semplicemente “danze Lutrario” dal nome degli antichi proprietari, non è infatti soltanto un monumento del costume e della memoria di questa città. E' un capolavoro che ogni città d'occidente ci invidierebbe, se solo sapesse che esiste; ma non si vede come potrebbe saperlo, considerato che perfino Torino sembra ignorarlo. Mi permetto pertanto di ricordarglielo qui.
Fra le pieghe della vecchia e nuova periferia attorno alla Stazione Dora si annida una delle opere più straordinarie di un artista straordinario, l'architetto designer e fotografo Carlo Mollino, che nel 1959 progettò la sala immaginandola come un bosco colorato di vetri e ceramiche, con un'illuminazione a soffitto che anticipa quella del Regio: una visione pre-lisergica che toglie il fiato e minaccia estemporanee sindromi di Stendhal.
E' probabile che a questo punto qualche lettore sarà colto dal desiderio di ammirare tanta occulta meraviglia. Beh, in teoria si può: il signor Toni Campa, attuale patron del Le Roi, non chiede altro che di spalancare le porte non solo ai ballerini serali (se e quando i Dpcm lo consentiranno), ma anche ai diurni visitatori, studiosi, ammiratori del più eclettico e affascinante genio creativo del Novecento torinese.
Ad oggi, però, Le Roi non rientra nelle “venues” consuete dell'offerta turistica torinese: entrarci è un'avventura. I più tenaci ci riescono seguendo accidentati iter fai-da-te, ad esempio rivolgendosi agli uffici della Fondazione Musei dove qualche gentile impiegato, su base del tutto volontaria, si prende la briga di contattare il signor Campa affinché accolga il viandante nella sua personale grotta di Aladino. Lui si presta volentieri: ma suvvìa, vi pare che una città civile possa gestire così un luogo d'arte di tale valore?
Ok, Torino è matrigna con i suoi artisti, e non ha fatto eccezione con Mollino fin dal remoto 1960, quando l'incosciente barbarie urbanistica dell'epoca consentì la demolizione della palazzina della Società Ippica Torinese, a giudizio dei più vertice assoluto dell'opera mollinana. Ma oggi dove sta il problema? Qualcuno mi sveli, di grazia, gli insormontabili ostacoli che si frappongono alla restituzione del Le Roi alla Torino della cultura (e del turismo, se non vi dispiace).
Giusto l'altro ieri ho incontrato il presidente della Fondazione Musei Maurizio Cibrario e gli ho fatto notare che non sarebbe uno sforzo titanico predisporre almeno un regolare servizio di prenotazioni: bastano un numero di telefono dedicato e qualcuno che formi i gruppi e – soluzione minimale, se proprio non ce la fanno a mandare un addetto fino in via Stradella – avverta il signor Campa il quale, nei limiti delle umane forze, manterrebbe il ruolo estemporaneo di padrone di casa-cicerone.
Cibrario ha convenuto che l'idea è interessante e fattibile. Ma poiché a Torino di idee interessanti e fattibili sono piene le fosse, provo a rilanciare con un modesto suggerimento al prossimo sindaco: appena eletto trovi lui una soluzione rapida, semplice, sostenibile. Senza farsi cascare l'ernia, darebbe un bel segnale di volere (e sapere) restituire un po' di bellezza alla nostra mortificata città.
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