Un tè coi Savoia in un dipinto di Guttenbrunn del 1787, alla vigilia della Rivoluzione |
Non posso tacere della mostra "Sovrani a tavola", inaugurata alla Reggia di Venaria; né d'altronde sono disposto a tradire la mia vocazione di scansafatiche con un lavoro altrimenti evitabile. Per cui me la cavo ripubblicando qui il piccolo commento uscito ieri sul Corriere, che non è reperibile on line. Non parlo della mostra in sé, ampiamente illustrata su giornali e siti, ma mi limito a evidenziarne alcuni aspetti curiosi trascurati dai media.
È da vedere, la mostra “Sovrani a tavola” alla Venaria: perché è bella, perché è interessante, perché è scientificamente ineccepibile, ben curata, esauriente e ottimamente allestita. E anche perché solo un robusto afflusso di pubblico consentirà al Consorzio delle Residenze Sabaude di recuperare l'ingente investimento: oltre un milione di euro, infatti, fa di “Sovrani a tavola” la mostra più costosa della direzione di Guido Curto, e a memoria mia una delle più costose nella storia della Reggia. Per tentare un confronto a caso, basti dire che nel 2015 per la mostra sugli Este si spesero 350 mila euro. Attenzione, però. Non è, per restare in tema, “il solito magna magna”. Non è scialo, bensì segno dei tempi: il budget inizialmente previsto per “Sovrani a tavola” si aggirava su più ragionevoli 700 mila euro, ma l'inflazione scatenata ha fatto impennare i costi e temo che d'ora in poi per le attività espositive dovremo ragionare su quest'ordine di spesa.
Curto, comunque, ha ogni motivo d'essere soddisfatto del risultato; e, aggiungo a margine, immagino che l'abbia alquanto consolato la presenza all'inaugurazione – assente la Vittoria Poggio – del celeberrimo “assessore vicario alla Cultura” Maurizio Marrone, uno che sui direttori pare la sappia lunga e quindi potrà presto tornar comodo al buon Curto, il cui mandato scade l'anno prossimo.
Presumo che della mostra il buon Marrone, assai festeggiato da Curto, avrà particolarmente gradito la targhetta che riporta una citazione dalle “Variae” di Cassiodoro. Costui, senatore romano e fido portaborse del re goto Teodorico, scriveva già nel VI secolo che a tavola “è proprio del semplice cittadino disporre di ciò che offre il territorio; nel convitto del principe, invece, conviene che si richieda in più ciò che deve suscitare meraviglia a vedersi”. Precursore in ciò della mistica del “chilometro zero”, per non dire della “sovranità alimentare”, Cassiodoro dava ragione con quindici secoli d'anticipo al fratello Lollobrigida, quello che “in Italia i poveri mangiano meglio dei ricchi”.
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