Paolo Lucà del Folk Club |
Per celebrare i trent'anni del club fondato da suo padre Franco, Paolo Lucà ha infatti chiamato a raccolta un cast all stars che farebbe invidia a qualsiasi grande teatro, e che è straniante per una cave con una capienza nell'ordine del centinaio di posti. Devo dire che ascoltare certi artisti vis-à-vis, come nel salotto di casa, è un'esperienza impagabile: come ben sanno gli scaltri e rapidi che nel giro di tre ore e mezza si sono accaparrati i biglietti per il concerto inaugurale di Vinicio Capossela, la sera del 1° ottobre.
Per fortuna l'instancabile Vinico ha accettato di raddoppiare: sempre quella domenica, ma alle 17,30, prevendite dal 26 settembre, biglietti con prezzi per nulla inavvicinabili: 40 euro, più o meno (più meno che più) quello che lo paghi a teatro, con la differenza che Vinicio lo hai lì davanti, a due spanne, e suona proprio per te.
Ciò è possibile perché Vinicio Capossela - come altri fuoriclasse che si susseguiranno sul palco del Folk Club fino a maggio - ha rispetto per il Folk Club. E considera un onore esibirsi in quel tempio della musica popolare, per cui non solo è tanto disponibile, ma si accontenta di un compenso di gran lunga inferiore a quello normale. E che diamine: il Folk Club merita un regalo di compleanno.
Ad ogni modo. Nel 2008 il Comune, mentre la crisi economica dava i primi morsi, chiuse i rubinetti e abbandonò il Folk Club al solo buon cuore (meglio, buon senso) della Regione, che pur senza scialare ha continuato a sganciargli, in virtù di una saggia convenzione, l'indispensabile per sopravvivere: nel 2016 il contributo regionale è salito a 42 mila euro, ed è l'unico cespite che, insieme a biglietteria e bar, un po' di fundraising e il tesseramento, consente a Paolo Lucà di tenere in piedi la baracca senza abbassare il livello della programmazione. Sotto il profilo finanziario l'handicap del Folk Club sta in quello che è al tempo stesso il suo fascino: in quella sotterranea saletta minuscola si crea un'atmosfera magica ma la capienza è minima, e gli incassi, di conseguenza, pure. A volte neppure il sold out è sufficiente a coprire i costi. Ma spostati in una sede più ampia quei concerti sarebbero un'altra cosa. Resterebbe la qualità, si perderebbe la magia. E nella musica, come nella vita, ogni tanto abbiamo tutti diritto a qualche piccolissima magia.
Adesso, a dio piacendo, Lucà ha quanto meno ottenuto udienza: con lui la Leon è stata prodiga di complimenti e manifestazioni d'interesse, ma per il momento s'è limitata a suggerirgli di partecipare al celebre bando per "la selezione di proposte e l'assegnazione di contributi economici a sostegno di progetti e iniziative in ambito culturale", il povero strumento col quale il Comune, se riesci a dimostrare che vali qualcosa, ti allunga qualche migliaio di euro: quest'anno, per dire, alle "arti performative", quindi ai concerti, destina in totale circa 95 mila euro da dividere fra dieci progetti. Figuratevi che abbondanza.
Lucà, lui, mi è sembrato felice e speranzoso: sentirsi riconosciuti, dopo dieci anni di solitudine, è pur sempre una soddisfazione. E poi confida nella cabala: quando suo padre Franco creò il Folk Club, attese dieci anni prima di ricevere finalmente un contributo comunale; dopo altri dieci anni il contributo venne cancellato; ora sono dieci anni che dal Comune non arriva un soldo: fosse mai che l'incontro con l'assessore possa aprire un nuovo ciclo almeno decennale di tangibile sostegno.
Per ora il Folk Club sembra aver superato la grande crisi dell'inverno scorso, quando rischiò di chiudere i battenti. In quella crisi Paolo ha ottenuto tanti segnali concreti di solidarietà, ma ha perso il complice di sempre Davide Valfrè, che dopo anni di sacrifici e fatiche ha gettato la spugna e si è ritirato dall'impari battaglia per cercarsi un reddito dignitoso.
Risparmi all'osso, scelte oculate e la stima che Paolo, e prima di lui suo padre, hanno saputo conquistarsi fra i musicisti, permettono adesso al Folk Club di sciorinare una stagione da urlo: trenta concerti (uno per ogni anno di vita) e una sfilata di campioni che comprende, per limitarsi al jazz, il 19 ottobre Enrico Rava con il suo quintetto originale (è verò che è venuto anche a Narrazioni Jazz, però lì è costato molto di più), e a seguire altre stelle come Uri Caine, Trilok Gurtu, Ralph Towner, Peter Bernstein con tre italiani eccellenti (Moroni, Zirilli e Deidda), o ancora l'australiano Adrian Mears con la voce di John De Leo, o il pianista brasiliano Malcom Braff con il nostro impareggiabile Flavio Boltro. Non so se mi spiego.
Poi c'è tutto il resto: e il resto va dalla voce cult della catalana Maria del Mar Bonet (segnatevelo, è il 27 ottobre e chi manca è un autolesionista) alla kora di Ballakè Sissoko, dall'organetto diatonico di Riccardo Tesi alla canzone d'autore di Piers Faccini, Steve Forbert, Pippo Pollina, alla world mediterranea di Redi Hasa e Maria Mazzotta. Più un paio di nostri artisti che seguono percorsi tortuosi e affascinanti: il 6 aprile Fabio Concato reinterpreta in chiave jazz i suoi successi con il lussuoso accompagnamento della tastiera di Paolo Di Sabatino, mentre il 13 gennaio Antonella Ruggiero si fa affiancare dal pianoforte da Mark Harris.
E c'è una sorpresa finale, che per il momento non sono autorizzato a rivelare: dico soltanto che a maggio la chiusura di stagione vedrà sul palco di via Perrone 3 un cantautore che oggi richiama migliaia di spettatori, e che tornerà a esibirsi lì dove tutto cominciò, dieci anni fa. Ovviamente per un cachet suppergiù come dieci anni fa. E' una cosa che si chiama gratitudine. E non ha prezzo.
Vinicio Capossela raddoppia |
Una speranza chiamata Leon
Un altro regalo Paolo Lucà lo ha già ricevuto: è riuscito a farsi ricevere dall'assessore Leon. La cosa di per sé non è scontata, ma in questo caso è quasi un evento storico. Da dieci anni ormai il Folk Club non riceve nemmeno un centesimo di contributo dal Comune. Ora, mi sembra difficile sostenere che il Folk Club non svolga da sempre un'importante funzione culturale per la città: non solo presenta nomi eccellenti del jazz e della world internazionali e artisti famosi con progetti spesso unici e originali, ma ha lanciato e lancia decine di talenti, molti torinesi. E inoltre garantisce a Torino una regolare programmazione jazzistica di valore internazionale: altro che le bischerate tipo Narrazioni Jazz (degna progenie del Tjf) che in cinque giorni bruciano 600 mila euro (il costo di svariate stagioni in via Perrone) senza lasciare nulla, se non il sospetto di aver buttato i soldi dalla finestra.Ad ogni modo. Nel 2008 il Comune, mentre la crisi economica dava i primi morsi, chiuse i rubinetti e abbandonò il Folk Club al solo buon cuore (meglio, buon senso) della Regione, che pur senza scialare ha continuato a sganciargli, in virtù di una saggia convenzione, l'indispensabile per sopravvivere: nel 2016 il contributo regionale è salito a 42 mila euro, ed è l'unico cespite che, insieme a biglietteria e bar, un po' di fundraising e il tesseramento, consente a Paolo Lucà di tenere in piedi la baracca senza abbassare il livello della programmazione. Sotto il profilo finanziario l'handicap del Folk Club sta in quello che è al tempo stesso il suo fascino: in quella sotterranea saletta minuscola si crea un'atmosfera magica ma la capienza è minima, e gli incassi, di conseguenza, pure. A volte neppure il sold out è sufficiente a coprire i costi. Ma spostati in una sede più ampia quei concerti sarebbero un'altra cosa. Resterebbe la qualità, si perderebbe la magia. E nella musica, come nella vita, ogni tanto abbiamo tutti diritto a qualche piccolissima magia.
Adesso, a dio piacendo, Lucà ha quanto meno ottenuto udienza: con lui la Leon è stata prodiga di complimenti e manifestazioni d'interesse, ma per il momento s'è limitata a suggerirgli di partecipare al celebre bando per "la selezione di proposte e l'assegnazione di contributi economici a sostegno di progetti e iniziative in ambito culturale", il povero strumento col quale il Comune, se riesci a dimostrare che vali qualcosa, ti allunga qualche migliaio di euro: quest'anno, per dire, alle "arti performative", quindi ai concerti, destina in totale circa 95 mila euro da dividere fra dieci progetti. Figuratevi che abbondanza.
Un'eccellenza da rispettare
Personalmente non concordo con l'impostazione, che trovo pure un po' offensiva: il Folk Club è un'eccellenza di Torino, e in quanto tale oggi non deve dimostrare nulla, e merita di essere sostenuto per ciò che ha fatto, fa e farà. Se non altro è un posto - uno dei pochissimi rimasti in questa sventurata città - dove la sera puoi andare senza neppure sapere chi suona, con la certezza che ascolterai un gran concerto senza dover accendere un mutuo per pagarti il biglietto.Lucà, lui, mi è sembrato felice e speranzoso: sentirsi riconosciuti, dopo dieci anni di solitudine, è pur sempre una soddisfazione. E poi confida nella cabala: quando suo padre Franco creò il Folk Club, attese dieci anni prima di ricevere finalmente un contributo comunale; dopo altri dieci anni il contributo venne cancellato; ora sono dieci anni che dal Comune non arriva un soldo: fosse mai che l'incontro con l'assessore possa aprire un nuovo ciclo almeno decennale di tangibile sostegno.
Per ora il Folk Club sembra aver superato la grande crisi dell'inverno scorso, quando rischiò di chiudere i battenti. In quella crisi Paolo ha ottenuto tanti segnali concreti di solidarietà, ma ha perso il complice di sempre Davide Valfrè, che dopo anni di sacrifici e fatiche ha gettato la spugna e si è ritirato dall'impari battaglia per cercarsi un reddito dignitoso.
Stagione stellare
Enrico Rava di scena il 19 ottobre con il quintetto |
Poi c'è tutto il resto: e il resto va dalla voce cult della catalana Maria del Mar Bonet (segnatevelo, è il 27 ottobre e chi manca è un autolesionista) alla kora di Ballakè Sissoko, dall'organetto diatonico di Riccardo Tesi alla canzone d'autore di Piers Faccini, Steve Forbert, Pippo Pollina, alla world mediterranea di Redi Hasa e Maria Mazzotta. Più un paio di nostri artisti che seguono percorsi tortuosi e affascinanti: il 6 aprile Fabio Concato reinterpreta in chiave jazz i suoi successi con il lussuoso accompagnamento della tastiera di Paolo Di Sabatino, mentre il 13 gennaio Antonella Ruggiero si fa affiancare dal pianoforte da Mark Harris.
E c'è una sorpresa finale, che per il momento non sono autorizzato a rivelare: dico soltanto che a maggio la chiusura di stagione vedrà sul palco di via Perrone 3 un cantautore che oggi richiama migliaia di spettatori, e che tornerà a esibirsi lì dove tutto cominciò, dieci anni fa. Ovviamente per un cachet suppergiù come dieci anni fa. E' una cosa che si chiama gratitudine. E non ha prezzo.
Bonus track: Capossela e il Folk Club
Per spiegare meglio alcuni concetti che ho esposto qui sopra, vi ricopio la lettera che Vinicio Capossela scrisse dieci anni fa in occasione del ventennale del Folk Club:
"Gli anniversari hanno sempre qualcosa di malinconico, perché ci si rende sempre conto del passare del tempo, ma quando celebrano cose ancora in vita hanno il sapore della rivincita sul tempo, una forma di esaltazione… ce l'abbiamo fatta, ci siamo arrivati e siamo più ricchi di prima, di tutta l'esperienza. Io personalmente ne ho accumulata un po' scendendo e salendo le strette scalette del Folk Club, e cercando di azzeccare la via per arrivarci. In un posto così speciale è sempre venuto d'istinto di farci spettacoli speciali, qualche volta addirittura in pomeridiana domenicale. La battuta d'esordio era sempre facile, dato che il locale praticava ferree regole in materia di fumo imposte da Lucà già molto tempo prima che il Paese intero vi si uniformasse. Il minuscolo e pressante abbraccio della platea era sempre trasparente, dato che l'aria limpida tra il soffitto basso e il pavimento screditava completamente il mito del locale fumoso, dunque il fumo provavo sempre a mettercelo io, sottoponendo me stesso e il pubblico a repertori diversi negli anni, ma che sempre avevano in comune la brace, quella della sigaretta accesa per lenire quel mancamento d'animo, quel rinculo della vita, che costringe appunto all'accensione. Fin da giovane ho avuto chiaro che la musica di cui volevo occuparmi era quella che ti obbligava ad accendere una sigaretta per colmare quel vuoto di cose intraviste e mancate. Una musica d'assenza e di risacca. Di quartiere e volti perduti. Così ricordo nel gennaio del '96 la prima tripletta, tre concerti di seguito, che avevo sempre sognato di fare, ma che in Italia non usa tanto fare, la formula appunto della replica, del tornare sulle ceneri lasciate la notte prima e come una fenice ricomporle e infiammarle di nuovo. Tre concerti del repertorio di tango canzone del grande Roberto Goyeneche, per però fare prendere alle curve della lingua castigliana e lunfarda tutti gli spigoli e gli angoli della nostra lingua peninsulare, per poter cantare poi, con la stessa ferita, di ultima curda, di pioggerellina fina fatta a spilli, di cristallo infranto. E poi nel novembre di quell'anno presentare lì, per la prima volta, i sassi di vetro, la morna, il tanco del murazzo che compongono "Il ballo di San Vito". E poi concerti di ballate, da piano e contrabbasso, da suonare sul vecchio Steinweg a quarto di coda, proprietà del locale, che come ama sottolineare Lucà, viene prima ancora dello Stainway… tornare sul piccolo palco anno dopo anno, come una risacca appunto fino a suonare, la scorsa primavera, la musica più di risacca di ogni altra, il rebetiko, il blues Elleno, il 9/8 straziato del buzuki e del baglamas, portarlo dai porti del Pireo fino a lì, vicino alla stazione Susa, portarci la musica che più fuma di ogni altra, nella voce della grande immensa Kathy Ntali, (Chavela Vargas, Jimmy Scott e Patty Pravo insieme, e chi c'era l'anno scorso lo ricorderà, spero, anche se sono serate così indimenticabili che il giorno dopo si fatica a ricordarle).
I luoghi della musica sono templi dello spettacolo, luoghi rituali, dove offrire olocausti ai propri ricordi. In vent'anni covano lì anche molte delle mie ceneri. Senza mai fumare una sigaretta. Grazie dunque, alla perseveranza di Lucà, e agli dei Benigni, e a tutti i soci che tengono ancora in vita questo scrigno seminterrato, che è mia convinzione che un locale dove si celebra qualcosa deve stare qualche gradino sotto del livello stradale".
"Gli anniversari hanno sempre qualcosa di malinconico, perché ci si rende sempre conto del passare del tempo, ma quando celebrano cose ancora in vita hanno il sapore della rivincita sul tempo, una forma di esaltazione… ce l'abbiamo fatta, ci siamo arrivati e siamo più ricchi di prima, di tutta l'esperienza. Io personalmente ne ho accumulata un po' scendendo e salendo le strette scalette del Folk Club, e cercando di azzeccare la via per arrivarci. In un posto così speciale è sempre venuto d'istinto di farci spettacoli speciali, qualche volta addirittura in pomeridiana domenicale. La battuta d'esordio era sempre facile, dato che il locale praticava ferree regole in materia di fumo imposte da Lucà già molto tempo prima che il Paese intero vi si uniformasse. Il minuscolo e pressante abbraccio della platea era sempre trasparente, dato che l'aria limpida tra il soffitto basso e il pavimento screditava completamente il mito del locale fumoso, dunque il fumo provavo sempre a mettercelo io, sottoponendo me stesso e il pubblico a repertori diversi negli anni, ma che sempre avevano in comune la brace, quella della sigaretta accesa per lenire quel mancamento d'animo, quel rinculo della vita, che costringe appunto all'accensione. Fin da giovane ho avuto chiaro che la musica di cui volevo occuparmi era quella che ti obbligava ad accendere una sigaretta per colmare quel vuoto di cose intraviste e mancate. Una musica d'assenza e di risacca. Di quartiere e volti perduti. Così ricordo nel gennaio del '96 la prima tripletta, tre concerti di seguito, che avevo sempre sognato di fare, ma che in Italia non usa tanto fare, la formula appunto della replica, del tornare sulle ceneri lasciate la notte prima e come una fenice ricomporle e infiammarle di nuovo. Tre concerti del repertorio di tango canzone del grande Roberto Goyeneche, per però fare prendere alle curve della lingua castigliana e lunfarda tutti gli spigoli e gli angoli della nostra lingua peninsulare, per poter cantare poi, con la stessa ferita, di ultima curda, di pioggerellina fina fatta a spilli, di cristallo infranto. E poi nel novembre di quell'anno presentare lì, per la prima volta, i sassi di vetro, la morna, il tanco del murazzo che compongono "Il ballo di San Vito". E poi concerti di ballate, da piano e contrabbasso, da suonare sul vecchio Steinweg a quarto di coda, proprietà del locale, che come ama sottolineare Lucà, viene prima ancora dello Stainway… tornare sul piccolo palco anno dopo anno, come una risacca appunto fino a suonare, la scorsa primavera, la musica più di risacca di ogni altra, il rebetiko, il blues Elleno, il 9/8 straziato del buzuki e del baglamas, portarlo dai porti del Pireo fino a lì, vicino alla stazione Susa, portarci la musica che più fuma di ogni altra, nella voce della grande immensa Kathy Ntali, (Chavela Vargas, Jimmy Scott e Patty Pravo insieme, e chi c'era l'anno scorso lo ricorderà, spero, anche se sono serate così indimenticabili che il giorno dopo si fatica a ricordarle).
I luoghi della musica sono templi dello spettacolo, luoghi rituali, dove offrire olocausti ai propri ricordi. In vent'anni covano lì anche molte delle mie ceneri. Senza mai fumare una sigaretta. Grazie dunque, alla perseveranza di Lucà, e agli dei Benigni, e a tutti i soci che tengono ancora in vita questo scrigno seminterrato, che è mia convinzione che un locale dove si celebra qualcosa deve stare qualche gradino sotto del livello stradale".
Vinicio Capossela
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