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L'ETERNA EMERGENZA DEL SALONE: QUANTI MIRACOLI CI RESTANO?

Ci voleva poco per capirlo. Il profetico meme che circolò
in rete la scorsa primavera nei giorni del Salone del Libro
Scrivo poco, in questi giorni. Il rientro è stentato, uscire dalla neghittosità estiva diventa ogni anno più faticoso. Sono stato alle presentazioni di bei festival come quello delle Migrazioni, e di mostre interessanti come quella su Ercole allaVenaria; al vernissage della Sandretto, sempre sorprendente; ho visto una delle performance che fanno alle Ogr, e sono uscito contento; e altro ancora. E niente, non una riga. Sono tutte cose belle, non discuto, ma adesso non mi viene: mi metto davanti al pc, contemplo a lungo la testiera, mi stufo, spengo e mi sdraio sul sofà a leggere Erasmo. Per scrivere dovrei sforzarmi: ma se mi sforzassi a scrivere, diventerebbe un lavoro. Non sia mai.
Vabbé, passerà.
Seguo però l'ennesima crisi del Salone del Libro, con annessi e connessi. E 
m'incazzo il giusto, perché ne ho le palle piene di dover ripetere ogni volta "io ve l'avevo detto". Manco ci provassi gusto. Ma non sono io che prevedo: sono loro che sono prevedibili. Il 15 maggio scorso su questo blog titolavo "E continuavano a scannarsi: il Salone ha il destino segnato". CVD. Non ci voleva il Mago Merlino, per arrivarci: solo un cretino non avrebbe previsto che finiva così. 
Ad ogni modo: ho provato a riassumere le ragioni della mia incazzatura nella lenzuolata uscita stamattina sul Corriere. Comincia così:

Le probabilità di vedere a Torino l'edizione 2019 del Salone del Libro oggi sono pari, se non inferiori, a quelle di ospitare le Olimpiadi nel 2026.
Lo so: abbiamo previsto, sofferto, temuto la morte del Salone già tante volte, anno dopo anno, crisi dopo crisi, in una via crucis che si trascina da almeno un lustro, fra scuse, accuse, sospetti, carte bollate, conti in rosso, assalti milanesi, editori secessionisti, direttori e presidenti che entrano ed escono come comparse in una commediaccia. Una farsa inguardabile orchestrata da una politica stupida e proterva che fa, disfa, s'impegna s'indigna e comunque si muova fa danno.
Lì sta il male oscuro, il cancro che ha consumato il Salone del Libro. Il potere detesta la cultura. La considera nel migliore dei casi uno strumento di controllo e consenso; altrimenti, un pericolo. Di conseguenza quando il potere maneggia la cultura tenta o di ucciderla, o di stravolgerla a proprio vantaggio. E il denaro che il potere elargisce malvolentieri alla cultura è, nella proterva visione del potere, il prezzo dell'asservimento.
Anche oggi, mentre il Salone vacilla, in tanti pensano che tutto si risolverà come sempre s'è risolto, con il colpo di reni inatteso, col miracolo inspiegabile. La baracca del Salone ha retto a lungo, altre ogni ragionevolezza, grazie alla determinazione di pochi uomini e donne di buona volontà che ogni volta compivano l'impresa. E ha retto, aggiungo, perché il bilancino degli interessi limitava in parte i disastri della politica: dapprima il consociativismo (pudicamente battezzato "concordia istituzionale") fra il centrodestra in Regione e il centrosinistra in Comune, e poi, a maggior ragione, il ticket Fassino-Chiamparino scongiuravano almeno gli scontri più feroci. Il nuovo potere in Comune ha spezzato il pur discutibile equilibrio. Da quel dì vale tutto... 

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