Dotti medici e sapienti al capezzale del Salone del Libro |
Non può esistere il Salone internazionale del Libro di Torino senza l’idea di salone che è venuta formandosi in più di trent’anni di storia: una manifestazione di tutta l’editoria italiana, eterogenea, aperta a ogni istanza culturale e non dominata da esigenze commerciali. Ciò è stato possibile, oltre che per l’opera di chi anno dopo anno ha saputo farla crescere e anche diventare sempre più internazionale, per la presenza di garanzia degli enti pubblici e per i loro finanziamenti.
Questa nostra posizione non vuole giustificare gli errori che sono stati compiuti in passato e l’assurdo protrarsi anno dopo anno di una situazione di emergenza. E soprattutto ci auguriamo che a pagare questi errori non debbano essere i fornitori e i dipendenti, e questo lo abbiamo più volte ribadito.
Ma qui vogliamo parlare del futuro del Salone, e riteniamo di dover incoraggiare le istituzioni a seguire nella strada intrapresa quest’estate, percorso momentaneamente interrotto dalle dimissioni del presidente Bray. Massimo Bray ha dato in questi due anni un grande contributo al Salone, è stato persona di equilibrio in una fase delicata. Siamo spiaciuti per le sue dimissioni, ma rispettiamo le ragioni che lo hanno indotto a questa scelta, e soprattutto lo ringraziamo per quello che ha fatto e dato al Salone del libro.
Non capiamo perché questo incidente di percorso, che richiede semplicemente la nomina di un nuovo presidente, debba rimettere tutto in discussione, se non per ragioni che con il Salone non hanno niente che vedere. Nessuno per ora sa come andrà a finire, se il Salone resterà nella disponibilità pubblica o se finirà in mani private, ma auspichiamo davvero che si realizzi la prima ipotesi, l’unica che permetterà la piena indipendenza del direttore editoriale, che scongiurerà inevitabili conflitti di interessi, garantirà la presenza degli editori nel comitato di indirizzo e manterrà viva questa idea di Salone.
In uno scenario di questo tipo, le competenze private che si sono rese disponibili a scendere in campo potranno rivestire un ruolo importante per collaborare agli aspetti logistici, organizzativi e gestionali. Purché l’anima del Salone, la parte culturale, rimanga pubblica e quindi di tutti, lettori, autori, editori.
Apprezzo le parole degli editori indipendenti, giustamente preoccupati che il Salone non finisca direttamente o indirettamente sotto il controllo di qualche gruppo editoriale prevaricatore, o di qualche affarista avido di guadagno.
Tuttavia mi pare iperuranico sostenere che la mano pubblica scongiurerebbe "inevitabili conflitti d'interesse". L'intera storia del Salone, tanto più nell'ultimo quinquennio, è la storia di un campo di battaglia fra interessi politici: un ininterrotto susseguirsi di convulsioni, crisi e scandali, fino alla decisione di liquidare la Fondazione per il Libro, causa prima di quello che oggi l'Adei definisce, eufemisticamente, un "incidente di percorso".
La reazione a catena che ha portato alla liquidazione e in ultimo alle attuali sciagure fu innescata dalla svalutazione del marchio con il conseguente tracollo del bilancio della Fondazione. Chi ispirò la svalutazione del marchio da un milione e ottocentomila euro a 160 mila? Chi indicò al perito i parametri da considerare, senza tenere conto di altri più favorevoli? Quello resta un mistero ancora da svelare (all'epoca incuriosì pure la procura della Repubblica) ma un fatto mi pare ormai evidente: una manina - occulta ma non troppo - manovrò perché le cose andassero in una certa direzione, a vantaggio di qualcuno o in ossequio a logiche spartitorie. E in quei giorni attorno al Salone si agitavano soltanto manine pubbliche.
Insomma: va bene tutto, persino immaginare per il futuro un potere politico vergine e mondo d'ogni interesse particulare, ben felice di garantire libertà, indipendenza, autonomia ai detestati intellettuali, gentaglia che - vergogna! - legge i libri, e addirittura si permette di scriverli, pubblicarli e venderli. Credo quia absurdum: quindi, se ci consola, vagheggiamo pure un mondo perfetto. Ma la Storia non ha nascondigli. E la storia - senza maiuscola, perché in realtà di miserabile cronacaccia si tratta - ci racconta tutt'altro. Ci racconta, questa storia disonesta, un eterno scontro di poteri meschini e spavaldi sulla pelle del Salone del Libro: improvvide scelte, colpevoli disattenzioni, luciferini orgogli, ridicole risse, mosse avventate, egoismi di bottega, tentennamenti malcerti e esaltazioni irrazionali, fiumi di parole e sentine di fatti.
Con ogni probabilità "l'anima del Salone, la parte culturale" rimarrà pubblica. Diamogli pure un'altra chance, al potere: magari - tutto può essere, nel mondo perfetto - saprà maneggiare il "pacchetto Salone" meglio di quello delle Olimpiadi.
Ciò detto, macchissenefrega: vada un po' come deve andare. Ho vissuto 34 anni, i primi e migliori della mia vita, senza il Salone: farne a meno non peggiorerebbe certo i pochi e pessimi che mi restano da affrontare. Non ho fiducia in nessuno: gli imbecilli allignano ovunque, nel pubblico come nel privato, e sono ovunque egemoni e fanno danni. E quindi non mi cambia un cazzo se il Salone si fa o non si fa, né se alla fine della manfrina se lo imberta il Comune, la Regione, una fondazione, un banchiere, un premio Nobel, un bottegaio, un editore, un industriale, un mangiatore di fuoco, un marziano o Mickey Mouse.
Però mi disturbano le favolette. Non ho fedi consolatorie, e confermo quanto ho scritto: "Il potere detesta la cultura. La considera nel migliore dei casi uno strumento di controllo e consenso; altrimenti, un pericolo. Di conseguenza quando il potere maneggia la cultura tenta o di ucciderla, o di stravolgerla a proprio vantaggio. E il denaro che il potere elargisce malvolentieri alla cultura è, nella proterva visione del potere, il prezzo dell'asservimento".
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