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IL PUBBLICO, IL PRIVATO E LA COLPA DEGLI ALTRI: PAPEROPOLI DIBATTE SULLA CRISI DEL SALONE

La solita gag. Quando scoppia il merdone, la politica entra in "modalità Jake Blues": "Non è stata colpa mia!"
Nell'articolo che ho pubblicato ieri (domenica 16) sul Corriere Torino spiegavo come e qualmente la politica si sia dimostrata inadeguata a maneggiare il Salone del Libro. E lo stesso argomento l'ho ripreso anche qui sul blog
Stamattina il Corriere va avanti, con un'intervista all'ex direttore del Salone Ernesto Ferrero (il quale mi pare la pensi esattamente come me) e con un interessante giro di opinioni sull'alternativa "pubblico/privato". La Stampa di oggi riprende lo stesso tema sciorinando un coro (di politici) che ripete la nota tesi: "Il Salone deve restare pubblico, non c'è problema, non c'è ritardo, e comunque non è colpa nostra". Infatti: quando scoppia il merdone, la prima strategia politica è negarlo. Segue lo scarico di responsabilità. E alla fine non manca mai il genio che salta su a dire che è colpa degli altri (cfr. la "Teoria delle fasi del progetto" di Murphy). Ma c'è una novità, cari: adesso gli altri siete anche voi. Quindi, per non dispiacere a nessuno, diciamo che come al solito è colpa delle cavallette. O dei poteri forti, stavolta evocati nientepopodimeno che dal Chiampa.
Di sicuro lorsignori stanno arrabattandosi a trovare qualcuno - un minimo credibile - per sostituire Bray alla presidenza del Circolo dei Lettori. Per niente facile. Venerdì Chiampa & Chiarabella hanno bussato alla porta dello stimato Carlo Ossola. Che li ha cortesemente rimbalzati. 

Il mio articolo sul Corriere

Purtroppo il mio articolo di ieri non è disponibile on line sul sito del Corriere Torino. Quindi - al fine di facilitare i lettori, e in deroga alla mia usuale policy - lo riproduco integralmente qui. 
A scanso d'equivoci e a beneficio degli imbecilloni premetto che a me fotte sega delle presunte mire sul Salone dell'editore del Corriere della Sera, Urbano Cairo. Non prendo ordini da nessuno, non conosco Cairo né so cos'abbia in mente e se lo sapessi lo scriverei senza tante storie, non tifo Toro (e nessun'altra squadra, salvo una simpatia per il Bologna), e il mio prezzo, se mai l'avessi, sarebbe infinitamente superiore ai quattro soldi che mi faccio pagare dal Corriere per i miei articoli giusto perché ritengo immorale lavorare gratis. Come ho già spiegato scrivo sul Corriere perché mi diverte, perché so che fa girare i coglioni ai furfaldini, e perché nessuno si permette di ficcare il peperone in ciò che scrivo e io scrivo solo quel cazzo che mi pare. Personalmente, poi, preferirei un Salone in mano pubblica, se solo la mano pubblica fosse in grado di toccare il Salone senza fare disastri. Purtroppo le ripetute esperienze, negli anni, mi convincono che ciò non è possibile.

Le probabilità di vedere a Torino l'edizione 2019 del Salone del Libro oggi sono pari, se non inferiori, a quelle di ospitare le Olimpiadi nel 2026.
Lo so: abbiamo previsto, sofferto, temuto la morte del Salone già tante volte, anno dopo anno, crisi dopo crisi, in una via crucis che si trascina da almeno un lustro, fra scuse, accuse, sospetti, carte bollate, conti in rosso, assalti milanesi, editori secessionisti, direttori e presidenti che entrano ed escono come comparse in una commediaccia. Una farsa inguardabile orchestrata da una politica stupida e proterva che fa, disfa, s'impegna s'indigna e comunque si muova fa danno.
Lì sta il male oscuro, il cancro che ha consumato il Salone del Libro. Il potere detesta la cultura. La considera nel migliore dei casi uno strumento di controllo e consenso; altrimenti, un pericolo. Di conseguenza quando il potere maneggia la cultura tenta o di ucciderla, o di stravolgerla a proprio vantaggio. E il denaro che il potere elargisce malvolentieri alla cultura è, nella proterva visione del potere, il prezzo dell'asservimento.
Anche oggi, mentre il Salone vacilla, in tanti pensano che tutto si risolverà come sempre s'è risolto, con il colpo di reni inatteso, col miracolo inspiegabile. La baracca del Salone ha retto a lungo, altre ogni ragionevolezza, grazie alla determinazione di pochi uomini e donne di buona volontà che ogni volta compivano l'impresa. E ha retto, aggiungo, perché il bilancino degli interessi limitava in parte i disastri della politica: dapprima il consociativismo (pudicamente battezzato "concordia istituzionale") fra il centrodestra in Regione e il centrosinistra in Comune, e poi, a maggior ragione, il ticket Fassino-Chiamparino scongiuravano almeno gli scontri più feroci. Il nuovo potere in Comune ha spezzato il pur discutibile equilibrio. Da quel dì vale tutto.
Ma il Salone aveva spalle larghe: ogni anno pareva spacciato, e ogni anno risorgeva in extremis, per una sorta di Pasqua laica. Il colpo di grazia è arrivato dalla liquidazione della Fondazione per il Libro: operazione oscura e pasticciata che ha spalancato il vaso di Pandora. Quella che si è scatenata in questi giorni è la tempesta perfetta che non dà scampo. L'avevamo vista profilarsi nei giorni lieti del Salone 2018, premiato da un trionfo come al solito impensabile e miracoloso. S'era annunciata nel balletto delle competenze, nel tira e molla fra Regione e Comune su chi e come e perché dovesse organizzare l'edizione ventura; nella pochade di una patata bollente che rimbalzava dalla Fondazione Cultura al Circolo dei Lettori con la rapidità di un neurone in una scatola cranica deserta; nelle resistenze di Bray ad assumere una carica presidenziale pericolosa e afflittiva, non importa che si trattasse di presiedere il Salone o il Circolo; nell'indegno trattamento riservato ai dipendenti e allo stesso direttore Lagioia; nei continui rinvii, negli adempimenti disattesi, nelle procedure macchinose, nei piccoli dispetti e nei reciproci sospetti. Alla fine quel groppo temporalesco s'è scatenato, come sempre a Torino, per via giudiziaria, con l'indagine sul Circolo dei Lettori e il conseguente fuggi fuggi: Bray, fiutata l'aria infida, se la fila dall'oggi al domani, ormai conscio che Torino è una via di mezza fra Paperopoli e Sin City, dove o ti ridicolizzano o t'azzoppano; e intanto il Comune, non è più tanto dell'idea di diventare socio del Circolo dopo infinite gabole per entrarci, tira prudentemente il freno a mano. Nessuno ha voglia di imbarcarsi sul Titanic mentre il Titanic ha già urtato l'iceberg.
Ecco perché ho iniziato questo lungo e dolente articolo annunciando la morte del Salone del Libro.
La situazione oggi è la seguente: il Salone 2019, senza neppure la certezza di potersi chiamare così perché non si sa chi acquisterà il marchio, dovrebbe essere organizzato da un direttore, Lagioia, senza contratto, senza stipendio, e legalmente senza nessun ruolo ufficiale; da una squadra di ex dipendenti della Fondazione per il Libro senza contratto, senza stipendio e senza garanzie per il futuro; e da un Circolo dei Lettori in oggettiva difficoltà (quale che sia l'esito, un'inchiesta giudiziaria non è un tonico ricostituente per nessuno), senza un presidente e con una direttrice, Maurizia Rebola, che resta l'unico riferimento istituzionale per organizzare il Salone, purché regga lo stress e non decida pure lei di salutare la bella compagnia. In tale denegata ipotesi, la prospettiva di ripassare l'incarico alla Fondazione Cultura è considerata impraticabile da qualsiasi osservatore sensato; oltre che, sospetto, dalla Fondazione Cultura medesima. Vi risparmio le banali considerazioni sull'ennesima figura di palta che stiamo rimediando a livello nazionale e internazionale. La nostra stolidità potrebbe addirittura rianimare Tempo di Libri, impresa che oggi non riuscirebbe ai milanesi e manco al dottor Frankenstein.
Alla luce di quanto sopra, quante possibilità ha Salone del Libro 2019?
A tutto c'è rimedio, d'accordo. Qualche cretino dirà che è sciocco fasciarsi la testa prima di essersela rotta: ma qui la testa ce la siamo già rotta, e possiamo soltanto sperare che le fratture siano ancora curabili. Segnatevi la data: i primi giorni di novembre sono la dealine vera, quella oltre la quale diventa materialmente impossibile costruire per maggio un Salone all'onor del mondo. Se entro quel termine il direttore Lagioia e la sua squadra non avranno un contratto che li autorizzi a prendere impegni in nome del Salone, e il Salone non avrà neppure un marchio che lo autorizzi a chiamarsi Salone, beh, in tal caso gli eroici Lagioia & squadra saranno costretti ad arrendersi. E ciao Salone.
A questo punto vorrei ringraziare i creditori dell'ex Fondazione per il Libro: nella lettera aperta che hanno pubblicato ieri scrivono la più profonda e inoppugnabile delle verità. Verità che è sotto gli occhi di chiunque, ma a loro va il merito di averla messa nero su bianco: "E' ormai evidente che gli enti pubblici non sono più in grado di gestire il Salone. Non hanno la possibilità di gestire una fiera complessa con le logiche e l'agilità del privato. Per assumere poche persone con un know how specifico e costruito negli anni si prefigurano per legge bandi che dovrebbero essere gestiti con criteri oggettivi. Ma valori come la continuità, la conoscenza specifica dei processi e dei metodi di lavoro necessari per portare avanti un evento come il Salone non sono criteri oggettivi, ma sono la ricchezza e il valore delle persone".
Prendiamone coscienza. Il Salone del Libro era una realtà troppo grande e troppo seria e troppo complessa per essere gestita da gente piccola, poco seria, tendenzialmente superficiale, nonché geneticamente avversa alla cultura. Troppo grande e troppo seria e troppo complessa per essere gestita dalla politica. E nulla cambierà se adesso i privati, magari le Fondazioni bancarie, interverranno comperando il marchio, per poi rimetterlo nelle mani della politica. Tempo un anno saremo daccapo.
E se questa amara constatazione dovesse offendere lorsignori, li invito a riflettere sul calvario che abbiamo attraversato. E sui loro ripetuti, reiterati, recidivi peccati.


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