Credo di essere l'unico essere umano sul pianeta che teme la fine della quarantena (per me quasi cinquantena...). La mia non è follia da isolamento, bensì una curiosa sindrome che definisco sindrome di Ferragosto, in quanto da sempre mi coglie quando s'approssima la fine dell'estate: qualcosa di molto leopardiano, lo ammetto, che ha a che fare con la "tristezza e noia" della sera del dì di festa, allorché ciascuno al travaglio usato in suo persier fa ritorno.
Non sono talmente idiota da non vedere quanto l'assurda situazione che viviamo ci abbia devastati, economicamente e psicologicamente; ma l'innaturale sospensione della vita "normale" ha sospeso non solo le gioie della normalità, ma pure le rotture di palle infinite che ci tormentano nel nostro faticoso quotidiano. Persone e incombenze moleste sono scomparse dall'orizzonte, e vi confesso che la coda davanti alla farmacia mi appare comunque meno afflittiva di un appuntamento con il commercialista, o di una constatazione amichevole nel traffico delle sei di sera. Diciamo che ritrovarmici dentro non è una prospettiva entusiasmante, ai miei occhi. Ma soprattutto mi angoscia l'idea della libertà condizionata che ci attende per i mesi a venire - e piaccia al cielo che non siano anni, che il vaccino arrivi presto...
Certo, si torna al lavoro, per fortuna. E si torna a uscire, a vedere il sole, gli alberi, la natura che è andata avanti, incurante della nostra assenza. E torneremo a produrre, a guadagnare. Ma poi? Non sarà la vita come l'abbiamo intesa fino a ieri. Quando entrerà di nuovo in un cinema, in teatro? Quando vedrò un concerto rock in un bel pigia pigia sudato? Sarà acrobatico persino uno straccio di apericena, bevendo lo spritz con la cannuccia da sotto la mascherina. Non parliamo poi delle vacanze, che mi vien da piangere al solo pensiero.
Così, con simili pensieri in testa, ieri mi sono svegliato d'umor nero e ho scritto il mio quotidiano articolo per il Corriere raccontando i turbamenti di un naufrago metropolitano che sta per tornare alla "civiltà".
Dedicato alle persone care che presto rivedrò dando così un senso alla vita che ci attende. A un posto del cuore che chissà invece quando e come potrò rivedere. E a chi non rivedrò.
Non sono talmente idiota da non vedere quanto l'assurda situazione che viviamo ci abbia devastati, economicamente e psicologicamente; ma l'innaturale sospensione della vita "normale" ha sospeso non solo le gioie della normalità, ma pure le rotture di palle infinite che ci tormentano nel nostro faticoso quotidiano. Persone e incombenze moleste sono scomparse dall'orizzonte, e vi confesso che la coda davanti alla farmacia mi appare comunque meno afflittiva di un appuntamento con il commercialista, o di una constatazione amichevole nel traffico delle sei di sera. Diciamo che ritrovarmici dentro non è una prospettiva entusiasmante, ai miei occhi. Ma soprattutto mi angoscia l'idea della libertà condizionata che ci attende per i mesi a venire - e piaccia al cielo che non siano anni, che il vaccino arrivi presto...
Certo, si torna al lavoro, per fortuna. E si torna a uscire, a vedere il sole, gli alberi, la natura che è andata avanti, incurante della nostra assenza. E torneremo a produrre, a guadagnare. Ma poi? Non sarà la vita come l'abbiamo intesa fino a ieri. Quando entrerà di nuovo in un cinema, in teatro? Quando vedrò un concerto rock in un bel pigia pigia sudato? Sarà acrobatico persino uno straccio di apericena, bevendo lo spritz con la cannuccia da sotto la mascherina. Non parliamo poi delle vacanze, che mi vien da piangere al solo pensiero.
Così, con simili pensieri in testa, ieri mi sono svegliato d'umor nero e ho scritto il mio quotidiano articolo per il Corriere raccontando i turbamenti di un naufrago metropolitano che sta per tornare alla "civiltà".
Dedicato alle persone care che presto rivedrò dando così un senso alla vita che ci attende. A un posto del cuore che chissà invece quando e come potrò rivedere. E a chi non rivedrò.
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