Il direttore Stefano Francia di Celle |
E stamattina, alla presentazione-stampa, me li hanno raccontati tutti.
O almeno così mi è parso.
Due ore filate di presentazione sono una messa cantata che fa il paio soltanto con quella del Salone del Libro, un cimento di resistenza fachiristica sia per chi parla, sia per chi ascolta. Con un non trascurabile vantaggio a favore di chi parla: chi parla non è sempre lo stesso, si danno il cambio.
A dire il vero, stavolta mi aveva illuso l'inusuale e benedetta stringatezza degli interventi "istituzionali" di direttore e presidente del Museo, delle assessore alla cultura (esordio on stage della Purchia) e dei portavoce delle fondazioni. Ma era la calma che precede il fortunale. L'illustrazione del programma è, come al solito, torrenziale. Il direttore Stefano Francia di Celle fa il lavoro grosso, ma di tanto in tanto subentrano i suoi curatori a descrivere minuziosamente le sezioni di propria competenza. top è l'immenso Davide Oberto, decano della squadra del Festival e cinefilo eminente, il cui eloquio regge bravamente il confronto, a detta degli intenditori, con quello del Grande Barbapapà Enrico Ghezzi; però più sussurrato, più carezzevole e, se possibile, più anacolutico.
Quando ho riaperto gli occhi s'era fatta l'una e mezza (il fluviale concistoro era cominciato puntuale alle 11,30) e i prodi maratoneti erano alle domande finali. Un collega in sala m'ha sollevato dall'incombenza di chiedere a quanto ammonti il budget quest'anno: un milione e settecentocinquantamila, ha risposto il direttore del Museo del Cinema Mimmo De Gaetano, "circa mezzo milione in più dell'edizione passata" ha precisato ricordando peraltro che l'edizione passata si fece soltanto in streaming. Il che, conveniamone, fu un bel risparmio. Per eliminare i "circa", dettaglio che il budget 2020 fu di un milione e trecentomila euro. A ulteriore domanda, De Gaetano ha riconosciuto che nel 2019, prima del covid, il budget ammontava a "circa un milione e novecentomila". A essere precisi, un milione e novecentoquarantamila: 190 mila euro in più di quest'anno. Quindi, a parità di impegno per un'edizione in presenza, un taglio c'è stato, e pure bello forte (almeno a casa mia, dove 190 mila euro fanno una bella differenza).
Taglio comprensibile, comunque, se si considera la legnata economica che il Museo si è preso con la prolungata chiusura a causa della pandemia. Peccato che il budget tre dei festival del Museo, pandemia o non pandemia, continui a calare con inquietante regolarità: fate conto che appena cinque anni fa all'edizione 2016 del Tff furono destinati due milioni e mezzo di euro.
In compenso, il presidente del Museo Enzo Ghigo mi è sembrato ottimista riguardo la situazione finanziaria nel suo complesso: ha smentito qualsiasi riduzione dei sostegni da parte delle fondazioni bancarie, e mi ha anzi anticipato che aspettano una bella iniezione di denaro dal Ministero, per il progetto di riallestimento della Mole. "Non perderemo l'occasione del Pnrr", mi ha assicurato.
Ad ogni modo, mi pare che con i soldi a disposizione Francia di Celle e i suoi verbosi sodali abbiano confezionato un buon Festival, almeno sulla carta. I film in programma - a parte la scivolata mainstream dell'apertura con "Sing 2" - sembrano degni della tradizione di un festival "di ricerca". Qualcuno potrebbe obiettare che anche l'anteprima di "Cry macho", il nuovo film dell'inarrestabile Clint Eastwood, è molto mainstream: ma Clint non si etichetta. Clint è Clint, e basta.
Il coté pop è garantito invece dai nomi degli ospiti: da Monica Bellucci a Charlotte Gainsbourg, da Rocco Papaleo a Sergio Castellitto, dalla madrina Emanuela Fanelli al presidente della giuria Alessandro Gassman, quest'anno sono in vista soddisfazioni anche per i cacciatori di selfies.
Vabbé, avremo tempo per riparlare del programma. Adesso devo rimettermi dalla messa cantata di stamattina. Che poi, a pensarci, la soluzione per scamparla ci sarebbe: basterebbe lavorare sul montaggio (e non dovrei essere io a suggerirlo a un cinefestival). Insomma, loro fanno la presentazione a porte chiuse, riprendono tutto e mettono il girato in mano a un bravo montatore che ne tira fuori un corto di una trentina di minuti, taglio sbarazzino e ritmo veloce, con i passaggi essenziali (che sono pochissimi) e le uscite più divertenti (che non sono un'iradiddio, ma insomma, qualcosa si trova). Poi spediscono il file del corto ai giornalisti, e ci si sente per le eventuali domande.
Oppure il file lo mandano al Torino Film Festival: magari glielo prendono per Italiana Corti.
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