Luminarie: lo stand della Puglia al Salone |
Il mio orizzonte salonistico, quindi, ieri era ridotto al breve percorso fra la Lounge del Circolo e lo stand del Corriere, praticamente dirimpettaio. Proprio accanto allo stand del Corriere c'è quello di Ivrea Capitale Italiana del Libro, dove ho incontrato l'amico Paolo Verri impegnatissimo nell'ennesima impresa; e non distante c'è anche lo spazio della Stampa, dove mi sono spinto per rivedere, con il piacere di sempre, qualche vecchio collega; riflettendo intanto su come la vita di un uomo (almeno quella professionale, "pubblica") si possa riassumere, al Salone, in pochi stand e pochi passi.
Finora in giro non ho visto libri che m'abbiano ingolosito, a parte - da Feltrinelli - l'Huckleberry Finn nella nuova traduzione di Culicchia, che sono quasi certo finirò per comprare perché Huckleberry Finn è un libro che non ci si stanca mai di leggere, e sono curioso di scoprire come me lo restituisce il traduttore che notoriamente apprezzo.
A conferma che gli anni passano per tutti, verso le sei del pomeriggio me ne sono tornato a casa abbastanza stremato, rinunciando a malincuore a fare un salto da Jovanotti: ne avevo una gran voglia, avrei voluto salutare Lorenzo che non vedo da tanto tempo, ma attorno alla Sala Oro c'era il mondo, le folle mi angosciano, e la schiena mi diceva che era tempo di battere in ritirata. Pazienza. In compenso ho già individuato il mio stand del cuore: è quello della Puglia, inconfondibile con le sue decorazioni luminose che spiccano nell'uniformità espositiva dell'Oval, richiamando le feste di piazza del Sud. Alcuni lo trovano pacchiano: ma a me piace da matti quell'etnostand che rispecchia così bene lo spirito e l'allegria di una regione e del suo popolo.
Vabbè, chiudo qui. Come extra bonus, riproduco il commento che è uscito ieri sul Corriere, e che al momento non è reperibile on line.
Sarà un Salone del Libro normale, quello che s'inaugura al Lingotto. E nell'essere finalmente normale sta l'eccezionalità di questa trentaquattresima edizione che, per la prima volta da quasi un decennio, non arriva accompagnata da un inquietante codazzo di emergenze sanitarie, inchieste giudiziarie, lotte di potere, traversie economiche, assalti esterni, dissidi interni, carte bollate, processi e perquisizioni. Quest'anno, se il diavolo non ci mette la coda, al Salone si parlerà soltanto di libri, di scrittori, di lettori, e auspicabilmente di visitatori sempre più numerosi e contenti.
La ritrovata normalità del Salone era in qualche modo, se non scontata, almeno prevedibile. Intanto perché non può piovere per sempre; e ancor più perché il lavoro fatto bene dalle persone per bene alla lunga paga. Lagioia, Biino, Viale, e l'intera squadra, hanno lavorato sodo, senza iattanza né faciloneria: hanno mirato alto con l'ambizione dei forti e la prudenza dei saggi, recuperando passo a passo un patrimonio di credibilità che negli anni bui aveva subito danni enormi; e infine, per non farsi mancare proprio nulla, hanno affrontato e vinto anche l'ultima e più tremenda prova, la pandemia.
Tutt'altro che scontato era invece il clima generale, l'aria nuova che tira oggi in città e che può dare al trentaquattresimo Salone del Libro la “marcia in più” che ancora pochi mesi fa manco potevamo immaginare. Il detonatore dell'Eurovision, riaccendendo mai sopite nostalgie di “festa olimpica”, ha fatto esplodere la nostra voglia di riscatto, dando corpo e visibilità a speranze e concetti fino a ieri nebulosi ai più: sicché ora parole come Pnrr, innovazione, rilancio, assumono un significato concreto, e ci appaiono come una strada aperta verso il futuro. Una strada che possiamo percorrere. Un'opportunità. E la prova tangibile di quell'opportunità è, agli occhi del comune cittadino, il maggio di eventi che stiamo vivendo e che – al di là persino del valore degli eventi stessi - illumina Torino di un'energia che Torino aveva dimenticato di possedere.
Ho citato l'Eurovision non a caso: commentando l'esito eccellente della manifestazione, e attribuendone il merito alla collaborazione fra le istituzioni, Alberto Cirio, con acuta semplicità di langhetto, ha pronunciato le paroline magiche: “Le cose fatte insieme riescono meglio”. I langhetti non parlano per dare aria ai denti; e la frase di Cirio ci riporta alla “concordia istituzionale” fra le giunte Ghigo e Castellani-Chiamparino, un decennio che, rivisto in prospettiva storica, segnò l'ultima epoca d'oro per Torino, specie in ambito culturale con assessori che si chiamavano Leo, Perone, Alfieri. Avercene oggi...
Eppure oggi quell'idea di collaborazione che bada ai risultati e non agli schieramenti potrebbe funzionare di nuovo: Cirio e Lo Russo sono “democristiani dentro”, alieni da furori ideologici e dunque capaci – almeno a livello personale – di dialogo e collaborazione. Lo hanno già più volte dimostrato, in ultimo nella vicenda del Regio. E adesso, in perfetta concordia e senza magheggi, i due devono assumersi la responsabilità politica e personale di dare al Salone una nuova governance che tuteli e accresca i risultati messi a segno dal direttore Lagioia e dal presidente Biino. E' un passaggio fondamentale, sbagliare non è consentito: un errore di valutazione o, peggio, una nomina dettata da altro che non sia il merito, avrebbero conseguenze estremamente gravi non soltanto per il Salone, ma anche per Torino, di cui il Salone è, e dovrà essere anche in futuro, il più bel fiore all'occhiello.
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