Sul Corriere di stamattina ironizzo blandamente sulla «solida continuità con il nuovo percorso tracciato dal Tff» (parole del direttore Giulio Base, nella foto) che quest'anno si espliciterà (anche) con una «retrospettiva» (virgolette non casuali) dedicata a Paul Newman, dopo quella dell'anno passato su Marlon Brando. Nell'articolo (a questo link) faccio notare che in effetti c'è una discontinuità evidente fra una manciata di film del celebre caro estinto e «un polveroso passato allorquando le retrospettive (senza virgolette) del Festival erano retrospettive vere, occasione di studio e approfondimento su autori o correnti, e producevano cataloghi firmati da critici di gran valore, e destinati a restare pietre miliari per gli storici del cinema». Ciò, a mio avviso, è coerente con «l'allure sbarazzina e poppissima auspicata per il Tff dai vertici del Museo e dai politici affamati di bagni di folla e cacciatori di selfies» perché, scrivo con un pizzico di perfidia (lo so, sono una brutta persona...) «in un contesto paraculturale (e magari pure paraculo) nel quale tira di più - più fans, più glamour, più titoli sui giornali - un'attrice(tta) sul red carpet che centomila saggi sul New Cinema inglese, anche la "retrospettiva" deve adeguarsi, indossare le virgolette e trasformarsi in un facile ed economico omaggio al caro estinto di turno».
Mi corre però l'obbligo di una precisazione: non sono, come mi scrive un amareggiato ma sempre cortese Giulio Base, «su una linea di constante dissenso» con l'attuale direzione del Festival. No. Io costantemente dissento dal «nuovo percorso» del Tff invocato e propugnato dai vertici del Museo del Cinema e della politica locale ben prima che Base assumesse la direzione.
I nostri amministratori pubblici da tempo immemorabile invocavano più glamour, più red carpet, più divi, convinti che da tanto spolvero sarebbero derivati automaticamente più visibilità per Torino, più titoli sui giornali, più servizi in tv. Lorsignori volevano fare concorrenza alla Mostra di Venezia quando già il Tff, proprio in virtù del suo essere «diverso» (cinefilia anziché mondanità) e dunque «unico», veniva considerato «il più importante festival italiano dopo Venezia». E invece i vari direttori che si susseguivano, pur fra crescenti concessioni al glamour sotto sotto si ostinavano - i birbaccioni... - a essere più cinefili che mondani.
Giulio Base dunque dà ai committenti ciò che i committenti chiedono: non è arrivato a Torino con il pravo intento di snaturare il Tff. Semplicemente, lui e sua moglie Tiziana Rocca sono i professionisti che garantiscono ai barbapapà torinesi ciò che i barbapapà pretendono dal Tff: per l'appunto più glamour, più red carpet, più divi. E pazienza se il Tff perde la sua unicità, se si fatica a distinguerlo da altri festival (cito, per tutti, quello di Taormina) diretti da Tiziana Rocca con la stessa impronta, la stessa formula, le stesse passerelle. Alla politica non interessa la «diversità» di un festival: contano la visibilità, l'applauso, il selfie col divo. Se poi il direttore ci tiene, può pure infilarci un pizzico di cinefilia, nel suo festival: ma di questo ai barbapapà non gliene può fregar di meno.
Nell'articolo sul Corriere cito il Guccini di «Dovevo fare del cinema»: «È che il pubblico vuole si parli più semplicemente, così chiari e precisi e banali da non dire niente. Per capire la storia non serve un discorso più grande: signorina cultura si spogli e dia qui le mutande». E con questi versi immortali non intendo mettere in discussione robusta cultura personale del direttore Giulio Base, bensì descrivere il conto che la politica fa della cultura: fabbrica di consenso pronta a togliersi le mutande pur di soddisfare il pubblico e il potere.
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