L'assessore Vittoria Poggio |
A quel punto sono andato alla fonte primaria e ho cercato la Vittoriona Poggio.Lei, come sempre non reticente, ha confermato la notizia, precisando che i soldi così risparmiati resteranno nell'ambito della cultura. Serviranno, mi ha detto, per dare un sostegno alle partite Iva del settore che finora non hanno beneficiato di nessun aiuto. Inoltre, a mia domanda, l'assessore ha precisato che il taglio del 5 per cento non riguarderà la Fondazione Torino Musei, in virtù del principio dell'abbiamo-già-dato: infatti a febbraio la Cibrario's Band s'è già beccata sui denti la perdita dei famosi 150 mila euro di "sovvenzione straordinaria" a suo tempo largiti dalla Parigi.
Ora: capisco il momento eccezionale e drammatico. Posso anche capire le buone intenzioni (notorio selciato dell'inferno) e la coperta corta: di 'sti tempi ciascuno s'arrabatta come può, e con i soldi che ha. Però il problema esiste. O, detta con meno diplomazia, a me pare una mezza minchiata. Purtroppo quest'ennesima riduzione di un contributo pubblico colpisce enti che arrivano da anni di "razionalizzazioni" e "riduzioni di spesa" e non dispongono più di grossi spazi di manovra; crea ulteriori criticità a chi già prima dell'epidemia aveva bilanci in sofferenza (penso al Regio); e infine mette in difficoltà anche le realtà più robuste, seriamente provate dalla tempesta-covid.
Sergio Toffetti, ex presidente della Mole |
Per i festival, fa notare Toffetti, il discorso cambia: "Il danno del non farli è esclusivamente culturale, mentre diventa una componente positiva per il bilancio. Prendiamo - aggiunge - Lovers: non farlo implica perdere meno di 10.000 euro di biglietti e qualche decina di migliaia di euro di sponsorizzazioni, con risparmi superiori a 300.000 euro, che diventerebbero oltre un milione e mezzo nel caso malaugurato saltasse (ma pare proprio di no) anche il Tff".
Però, e qua sta il nòcciolo del ragionamento toffettiano (al quale mi associo) sarebbe giusto considerare sempre, negli interventi pubblici, "non i singoli enti, ma le filiere, cioè la galassia di piccole e grandi realtà imprenditoriali che costituiscono il tessuto indispensabile per l’organizzazione culturale: traduttori, sale cinematografiche, uffici stampa, alberghi, sorveglianza, biglietteria, catering, servizi tecnici, ecc, ecc".
In altre parole: ridurre l'attività di un museo, non organizzare un festival (o farlo con un budget annichilito, come avverrà ad esempio per il Tff, ammesso e non concesso che si faccia) signifca anche danneggiare aziende fornitrici, artigiani e lavoratori non tutelati che in virtù di quei presunti "risparmi" sulla cultura andranno a perdere una loro fonte di reddito. A volte l'unica. Esempio concreto, che mi faceva giusto Schwarz l'altro giorno: se il Regio non si può permettere, poni, di investire su un nuovo allestimento, come diretta conseguenza non ci sarà lavoro per operai, elettricisti, sarte, truccatori, e via elencando, fino alle maschere e alle signore delle pulizie. Le filiere sono infinite: lo sapete quanta gente tirava su un po' di soldi con gli affitti temporanei agli artisti del Regio in trasferta?
Qui sta il rischio, e il paradosso della coperta corta: tagliare i contributi agli enti per destinare quei soldi a chi, causa il lockdown, ha perso il lavoro con quegli stessi enti, costringerà gli enti stessi a ridurre ancora i costi e di conseguenza anche il lavoro che altrimenti avrebbe commissionato, magari agli stessi soggetti che il provvedimento vorrebbe aiutare. Una partita di giro, insomma: che ha il difetto di non produrre nulla. Un conto infatti è mettere i committenti nelle condizioni di far lavorare le partite Iva; altro è sovvenzionare le partite Iva senza lavoro. Nel primo caso il committente avrà un prodotto da vendere all'utilizzatore finale (il pubblico), nel secondo no. Ma va detto, senza malizia, che il secondo sistema è più redditizio sul piano del consenso sociale (ed elettorale).
Non vi ricorda qualcosa, tutto ciò?
That's all, folks. O quasi. C'è un'ultima osservazione di Toffetti che voglio citare, a proposito di quelle che dovranno essere le scelte di una saggia politica culturale post-covid: "Il nuovo si presenta raramente in modo ordinato, e bisogna avere buoni occhi e mente sgombra per riconoscerlo: oggi, a Torino, qualcuno prenderebbe sul serio un ragazzo, con minima esperienza in radio private e teatro universitario, che arrivasse a proporre un film su un giornalista -politicante che per tutta la vita rimpiange un giocattolo perduto da bambino? Ecco, era Orson Welles con Quarto potere".
Per carità d'iddio, qualcuno ci rifletta su.
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