Maurizio Cibrario, presidente della Fondazione Musei, e l'assessore Poggio |
Lo stanziamento regionale venne confermato - ancora ai tempi del Chiampa - anche per il 2019, in vista della confluenza dello sventurato Museo di Scienze nella Fondazione medesima (che sarebbe diventata così Fondazione Piemonte Torino Musei, realizzando così un antico sogno dell'Antonellina Parigi).
Dopo infiniti tiramolla, il nuovo Statuto che doveva sancire la nascita della nuova Fondazione a trazione mista s'è incagliato, bloccato in Commissione dalla stessa maggioranza cinquestelle. Un siluro per la Leon, che aveva sottoscritto l'accordo. E una solenne fregatura per l'Antonellina.
Gli scaltri zuavi comunali immagino che se ne siano fatti ampi baffi a tortiglione: tanto sia sa che la Regione è come una mamma, magari fa gli occhi arrabbiati ma alla fine ha un cuor d'oro e sgancia sempre la paghetta, quando serve.
Purtroppo per i baffi a tortiglione, la Regione a guida Cirio è costituzionalmente meno bonaria; e la benevolenza eroica non mi pare si possa annoverare fra le principali doti dell'assessore Poggio. Sicché, visto che il progetto della Fondazione Piemonte Torino Musei languiva, e considerato che i conti della Regione sono malmenssi, la Vittoriona ha deciso di darci un taglio. Magari la Fondazione se la fa per conto suo. Intanto ha sì onorato l'impegno biennale della sua predecessora, ma poi basta. Nel bilancio previsionale quei 150 mila euro annui, che - anche se tanti sembravano esserne dimentichi - furono stanziati con uno scopo ben preciso, non ci saranno. A meno che il Comune riavvi il percorso per arrivare in tempi ragionevoli alla nascita della nuova Fondazione.
Comunque, va precisato, Regione nel 2019 ha destinato alla Fondazione anche il consueto contributo ordinario di 975 mila euro che quest'anno sarà non solo confermato ma, bilancio permettendo, portato a un milione e 25 mila ero.
Con le pezze al culo
Adesso, però, quei 150 mila in meno non sono cazzi di lorsignori - che non smonteranno i baffi a tortiglione per così poco - bensì della derelitta Fondazione Torino Musei che si ritrova da un giorno all'altro con le pezze al culo.
Ma se non altro con quel buco inopinato nel bilancio il presidentone Cibrario avrà un buon motivo (o almeno meno stravagante dei lavori di rifacimento della facciata di Palazzo Madama), per rinviare alla settimana dei tre giovedì la nomina del successore di Guido Curto, che ha lasciato la direzione di Palazzo Madama lo scorso settembre.
Dove vai se il direttore non ce l'hai?
Il problema non è secondario. Il direttore di un museo in genere è colui che pianifica l'attività espositiva, progetta le mostre e ne gestisce la realizzazione. Finora Palazzo Madama è andato avanti per forza d'inerzia, seguendo la programmazione di Curto. Ma quella di Mantegna, ora in corso con notevole successo, è l'ultima messa in cantiere dall'ex direttore. Finita questa, la dispensa delle Grandi Mostre è vuota.
Il prossimo appuntamento espositivo di qualche (modestissimo) rilievo dovrebbe essere quello dedicato a Antoine De Lohny, pittore quattrocentesco attivo fra Piemonte e Borgogna, da me personalmente amato ma noto solo agli specialisti; e si proseguirà con altre piccole mostre corrispondenti ai gusti del presidente Cibrario: argenterie e servizi da té, Savoia in tutte le salse, e Madonne. Già, le imprescindibili "Madonne del Vaticano" che a scadenze regolari la Santa Sede ci largisce - tramite i buoni uffici di Cibrario - per temporanee ostensioni. Disgraziatamente non si tratta di Madonne di Raffaello o Bellini, bensì di anonime tavole recuperate - immagino - negli sconfinati sotterranei vaticani.
Si fa quel che si può, con quello che c'è.
I privati non sono scemi
Insomma, siamo alle solite. I banfoni banfano di turismo e attrattività e ruolo dei musei, accampano pretese e intanto li lasciano a secco. E' un male italiano, a Torino particolarmente virulento perché alle micragne dello Stato s'aggiungono quelle degli enti locali. I musei devono puntare sempre più all'autofinanziamento, e intanto fra tariffe agevolate, aperture gratuite, abbonamenti musei, e altre meraviglie imposte dlla politica con il nobile intento di "rendere la cultura accessibile a tutti" il pubblico cresce, gli incassi no. L'altro giorno la direttrice dei Musei Reali Enrica Pagella mi diceva mogia mogia che da lei a malapena un visitatore su quattro paga il biglietto intero.
Il toccasana di tutti i mali, dicono lorsignori, saranno i privati. I famosi privati, quelli che nei sogni lisergici di lorsignori ardono dalla voglia di darsi al mecenatismo sfrenato e riversare fiumi di denaro nelle casse delle istituzioni culturali. Come in America, dicono. Peccato che in America le largizioni alla cultura garantiscano ai largitori benefici fiscali che da noi verrebbero classificati come scandalosi esempi di elusione.
Ma poi è una questione di credibilità. Questi malaminchiati pretenderebbero che gli imprenditori privati, e soprattutto le grandi aziende, investissero generosamente "per sostenere il tessuto culturale del territorio". Ora, a prescindere dal fatto che in questo territorio di grandi aziende ne sono rimaste pochine, e le poche che resistono hanno altri cazzi per la testa che dar retta alle farneticazioni di politicanti che non saprebbero gestire un chiosco delle bibite, a prescindere da ciò la domanda che sorge spontanea è: quale imprenditore serio e capace investirebbe il suo denaro su qualcosa in cui non crede neppure chi lo sollecita a investirci su?
Mi sembra surreale. Gli enti locali che dicono alle aziende "finanziate i nostri musei, finanziate la cultura" sono gli stessi che continuano a sbattersene, e a ridurre i propri finanziamenti a quei musei, a quella cultura; le facce di palta che vanno a battere cassa da gente che si fa un mazzo tanto per tenere in piedi la baracca. Sono le stesse facce di palta che spalano merda su coloro che nella cultura e per la cultura lavorano davvero, descrivendoli come avanzi di salotto, mangiapane a ufo, mascalzoni e biscazzieri; le facce di palta che non esitano a crocifiggere questo o quell'operatore a seconda del tornaconto di bottega; che mettono alla porta i capaci per piazzare i cocchi di mamma sulle poltrone che contano; che invocano la cacciata dei privati brutti e cattivi dai progetti di recupero e valorizzazione dei beni culturali; che ironizzano sulle code davanti ai musei (quando c'erano) e bollano le Grandi Mostre come inutili e dannosi lussi di regime; che poi cambiano idea e gabellano per Grandi Mostre banali esposizioni di routine.
Un imprenditore serio e capace dovrebbe sentirsi spronato a contribuire generosamente a quell'indegno carnevale? Ma per favore. Se gente così viene a chiederli a me, i soldi, io chiamo i carabinieri.
Difatti, dopo anni e anni di sollecitazioni della politica, gli sponsor della cultura pubblica a Torino sempre quelli restano: i soliti "sponsor del sindaco", le solite banche dai solidi legami con la politica, e le fondazioni bancarie che lo fanno per dovere istituzionale. E se un benemerito imprenditore vuole davvero occuparsi di cultura, fa per conto suo: gli viene meglio e gli conviene di più. Lavazza docet.
Con le pezze al culo
Adesso, però, quei 150 mila in meno non sono cazzi di lorsignori - che non smonteranno i baffi a tortiglione per così poco - bensì della derelitta Fondazione Torino Musei che si ritrova da un giorno all'altro con le pezze al culo.
Ma se non altro con quel buco inopinato nel bilancio il presidentone Cibrario avrà un buon motivo (o almeno meno stravagante dei lavori di rifacimento della facciata di Palazzo Madama), per rinviare alla settimana dei tre giovedì la nomina del successore di Guido Curto, che ha lasciato la direzione di Palazzo Madama lo scorso settembre.
Dove vai se il direttore non ce l'hai?
Il problema non è secondario. Il direttore di un museo in genere è colui che pianifica l'attività espositiva, progetta le mostre e ne gestisce la realizzazione. Finora Palazzo Madama è andato avanti per forza d'inerzia, seguendo la programmazione di Curto. Ma quella di Mantegna, ora in corso con notevole successo, è l'ultima messa in cantiere dall'ex direttore. Finita questa, la dispensa delle Grandi Mostre è vuota.
Il prossimo appuntamento espositivo di qualche (modestissimo) rilievo dovrebbe essere quello dedicato a Antoine De Lohny, pittore quattrocentesco attivo fra Piemonte e Borgogna, da me personalmente amato ma noto solo agli specialisti; e si proseguirà con altre piccole mostre corrispondenti ai gusti del presidente Cibrario: argenterie e servizi da té, Savoia in tutte le salse, e Madonne. Già, le imprescindibili "Madonne del Vaticano" che a scadenze regolari la Santa Sede ci largisce - tramite i buoni uffici di Cibrario - per temporanee ostensioni. Disgraziatamente non si tratta di Madonne di Raffaello o Bellini, bensì di anonime tavole recuperate - immagino - negli sconfinati sotterranei vaticani.
Si fa quel che si può, con quello che c'è.
I privati non sono scemi
Insomma, siamo alle solite. I banfoni banfano di turismo e attrattività e ruolo dei musei, accampano pretese e intanto li lasciano a secco. E' un male italiano, a Torino particolarmente virulento perché alle micragne dello Stato s'aggiungono quelle degli enti locali. I musei devono puntare sempre più all'autofinanziamento, e intanto fra tariffe agevolate, aperture gratuite, abbonamenti musei, e altre meraviglie imposte dlla politica con il nobile intento di "rendere la cultura accessibile a tutti" il pubblico cresce, gli incassi no. L'altro giorno la direttrice dei Musei Reali Enrica Pagella mi diceva mogia mogia che da lei a malapena un visitatore su quattro paga il biglietto intero.
Il toccasana di tutti i mali, dicono lorsignori, saranno i privati. I famosi privati, quelli che nei sogni lisergici di lorsignori ardono dalla voglia di darsi al mecenatismo sfrenato e riversare fiumi di denaro nelle casse delle istituzioni culturali. Come in America, dicono. Peccato che in America le largizioni alla cultura garantiscano ai largitori benefici fiscali che da noi verrebbero classificati come scandalosi esempi di elusione.
Ma poi è una questione di credibilità. Questi malaminchiati pretenderebbero che gli imprenditori privati, e soprattutto le grandi aziende, investissero generosamente "per sostenere il tessuto culturale del territorio". Ora, a prescindere dal fatto che in questo territorio di grandi aziende ne sono rimaste pochine, e le poche che resistono hanno altri cazzi per la testa che dar retta alle farneticazioni di politicanti che non saprebbero gestire un chiosco delle bibite, a prescindere da ciò la domanda che sorge spontanea è: quale imprenditore serio e capace investirebbe il suo denaro su qualcosa in cui non crede neppure chi lo sollecita a investirci su?
Mi sembra surreale. Gli enti locali che dicono alle aziende "finanziate i nostri musei, finanziate la cultura" sono gli stessi che continuano a sbattersene, e a ridurre i propri finanziamenti a quei musei, a quella cultura; le facce di palta che vanno a battere cassa da gente che si fa un mazzo tanto per tenere in piedi la baracca. Sono le stesse facce di palta che spalano merda su coloro che nella cultura e per la cultura lavorano davvero, descrivendoli come avanzi di salotto, mangiapane a ufo, mascalzoni e biscazzieri; le facce di palta che non esitano a crocifiggere questo o quell'operatore a seconda del tornaconto di bottega; che mettono alla porta i capaci per piazzare i cocchi di mamma sulle poltrone che contano; che invocano la cacciata dei privati brutti e cattivi dai progetti di recupero e valorizzazione dei beni culturali; che ironizzano sulle code davanti ai musei (quando c'erano) e bollano le Grandi Mostre come inutili e dannosi lussi di regime; che poi cambiano idea e gabellano per Grandi Mostre banali esposizioni di routine.
Un imprenditore serio e capace dovrebbe sentirsi spronato a contribuire generosamente a quell'indegno carnevale? Ma per favore. Se gente così viene a chiederli a me, i soldi, io chiamo i carabinieri.
Difatti, dopo anni e anni di sollecitazioni della politica, gli sponsor della cultura pubblica a Torino sempre quelli restano: i soliti "sponsor del sindaco", le solite banche dai solidi legami con la politica, e le fondazioni bancarie che lo fanno per dovere istituzionale. E se un benemerito imprenditore vuole davvero occuparsi di cultura, fa per conto suo: gli viene meglio e gli conviene di più. Lavazza docet.
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