The Crimson ProjeKCt in concerto lunedì 14 al Gruvillage |
Protagonisti del progetto, che si vale del supporto e dell’approvazione del “vate” Robert Fripp, sono il cantante e chitarrista Adrian Belew e il bassista Tony Levin, che si sono uniti ai King Crimson nel 1981, e Pat Mastelotto, batterista nella quinta incarnazione della band a partire dal 1994. A Belew, Levin e Mastelotto si aggiungono, per The Crimson ProjeKCt, Markus Reuter alla touch guitar, il batterista Tobias Ralph e Julie Slick al basso. E' insomma la reincarnazione del "double trio" tipico dei King Crimson della metà degli anni ’90.
Il progetto propone il repertorio dei Crimso dal 1980 fino a metà degli anni ’90. Il gruppo si è esibito in tour negli
Stati Uniti a fianco dei Dream Theater (che per una fortunata coincidenza saranno anch'essi in concerto alle Gru il 22 luglio) e poi in Russia ed in Giappone.
Questa è la prima volta che si presenta
al pubblico europeo. Quanto ai King Crimson veri - intendo con Fripp - si attendono notizie: l'autunno scorso Fripp ha scritto sul suo diario on line che vuole rimettere insieme la band, con una formazione che comprenderà
Jakko Jakszyk, Gavin Harrison, Bill Rieflin, Pat Mastellotto, Tony Levin, Mel Collins (ed esclude, guarda caso, Adrian Belew). Ed è intenzionato di tornare ai concerti a fine estate del 2014.Staremo a sentire. Intanto, per soli aficionados del prog, pubblico in questo post un ampio estratto del saggio sui King Crimson che ho pubblicato sul numero 40 di Mucchio Extra
Jakko Jakszyk, Gavin Harrison, Bill Rieflin, Pat Mastellotto, Tony Levin, Mel Collins (ed esclude, guarda caso, Adrian Belew). Ed è intenzionato di tornare ai concerti a fine estate del 2014.Staremo a sentire. Intanto, per soli aficionados del prog, pubblico in questo post un ampio estratto del saggio sui King Crimson che ho pubblicato sul numero 40 di Mucchio Extra
Un amico di quelli che sanno di rock una volta mi ha detto
che i King Crimson ormai li conosciamo solo io, lui e quattro altri gatti. In
genere tendo a credere a quel che mi dice l’amico, ma nel caso specifico ho dei
dubbi. E, soprattutto, chi se ne frega: un sacco di gente non sa cos’è il
bosone di Higgs, eppure anche quella gente lì non esisterebbe senza il bosone
di Higgs. Voglio dire: non è necessario sapere che una cosa esista, per
dipenderne e per portarne le conseguenze.
Torniamo indietro di 46 anni: è l’agosto
del 1967 e due fratelli della regione inglese del Dorset, il batterista Mike
Giles e il bassista Peter, entrambi poco più che ventenni, che hanno già
suonato in qualche band della zona, fanno comunella con un chitarrista di
ventun’anni chiamato Robert Fripp. Con una mancanza di fantasia stupefacente –
se si pensa che la fantasia creativa è stata poi il marchio di fabbrica dei
King Crimson – i tre decidono di chiamare il loro gruppo Giles Giles &
Fripp.
Alt. Mi accorgo ora di aver inconsciamente imboccato una
strada – la più semplice, è ovvio: sto già raccontandovi la nascita dei futuri
King Crimson. Posso andare avanti così, dirvi che i tre giovanotti pubblicano
uno strano album pop intitolato “The Cheerful Insanity of Giles Giles &
Fripp”, e cominciano a suonare in giro, beccandosi pure una stroncatura feroce,
benché d’autore, a firma del batterista degli Who, Keith Moon. Curiosa
coincidenza, se pensate che fu proprio il leader degli Who, Pete Townsend, a
definire un paio d’anni più tardi “un capolavoro assoluto” l’album d’esordio
dei King Crimson.
Visto? Ci sto ricascando: vado avanti con la storia. Mentre
dovrei prima capire, e farvi capire, perché i King Crimson hanno cambiato la
musica del secondo Novecento, nonché la mia vita di ascoltatore di musica. Beh,
è difficile.
Recupero il consunto vinile di “In the Court
of the Crimson King”, lo metto sul piatto. “Moonchild” è un tripudio di
crepitii. Dovrei ricomprarmelo,
’sto disco. Mentre la sindrome nostalgico-depressiva sta per prevalere, dalle casse del mio
Philips esplode maestoso l’attacco di “In the Court of the Crimson King”, e mi
rivedo in un altro freddo giorno d’autunno, a letto con la febbre a quaranta,
coperte pesanti e stato di semi incoscienza, ma felice perché non devo studiare
e posso ascoltarmi in pace “Per voi giovani”. E’ il 1969, e “Per voi giovani” è
l’unica trasmissione Rai – e quindi l’unica trasmissione della radio, in Italia
– dove puoi ascoltare la musica straordinaria che sta arrivando
dall’Inghilterra e dall’America. La conduco personaggi destinati a entrare nel
mito, tipo Fegiz e Giaccio, e ti programmano interi ellepì, novità
d’importazione, roba che manco te la sogni. Loro te la fanno ascoltare. Così,
in quel pomeriggio a letto con la febbre a quaranta, quando per la prima volta dalla
mia radiolina è uscita la musica che oggi riascolto tra mille scricchiolii,
beh, ho creduto di essere morto, e che quella fosse la musica degli angeli.
Silenzio. Cioè, niente musica, solo fruscii. La facciata è già
finita. La facciata di un ellepì dura dannatamente poco. All’epoca non ce ne
rendevamo conto. Cioè, fino allora non ce ne eravamo resi conto. Ma le cose
stavano cambiando. Stava cambiando il rock. Anzi: il rock come lo avevamo
conosciuto era morto. Era morto Brian Jones, la vera mente degli Stones (e sintomaticamente
i neonati King Crimson furono chiamati a suonare al concerto di Hyde Park in
sua memoria); di lì a poco anche Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison se ne
sarebbero andati; i Beatles s’erano virtualmente dissolti dopo l’ultimo
concerto sul tetto della Apple; le coltellate di Altmont avevano cancellato la Summer of Love e lo spirito
di Woodstock. L’innocenza era perduta e tutti avevano capito che il rock non
avrebbe cambiato il mondo. Qualcuno pensò che, al limite, si poteva provare a
cambiare il rock.
Ora, non starò qui a spiegarvi che cosa fu il progressive.
Immagino che lo sappiate. Diciamo che fu il tentativo del rock di diventare
adulto dopo la sua selvaggia adolescenza. Però accade spesso, agli uomini e
pure alla musica, che diventare adulti equivalga a diventare seri, composti e
magniloquenti. Insomma, un po’ tromboni. E’ l’accusa generalmente rivolta al
progressive, per via delle sue paludate commistioni con la musica sinfonica e
il jazz; commistioni che peraltro mi hanno regalato momenti bellissimi
trascorsi ascoltando i Nice e i Soft Machine. Talmente belli da farmi perdonare
le derive elefantiache degli ELP.
I King Crimson con “In the Court of the Crimson King” compendiano la nascita
del progressive. Con caratteristiche proprie. Alla base del progressive,
infatti, c’è la scelta di combinare in qualche maniera musica e arte, per
creare un rock colto e intellettuale – quasi una contraddizione in termini, se
si considerano le origini “di strada” del rock’n’roll primigenio. In genere, le
band prog ritenevano di raggiungere quel risultato attingendo per l’appunto al
jazz e alla musica sinfonica, e privilegiando le tastiere: se ci pensate, i prog
heroes più popolari sono tastieristi, da Keith Emerson a Rick Wakeman. Fripp,
invece, benché inizialmente accolga (non so quanto obtorto collo) uno strumento
come il mellotron, è un chitarrista, e nella sua mente i King Crimson sono una
band che si fonda sull’uso “progressivo” della chitarra: come dimostreranno gli
esiti successivi, quando riuscirà a diventare il signore e padrone assoluto del
progetto.
Per ora, tuttavia, i King Crimson sono ancora una band, un
collettivo: “In the Court” ne è la prova. Uscito nell’ottobre 1969, è l’album
d’esordio della band. Però non è un inizio. E’ un punto d’arrivo. Le corse erano
andate così: Fripp e i fratelli Giles, visto che le cose per il trio non giravano
troppo bene, pensarono bene di coinvolgere il polistrumentista Ian Mc Donald, che
introdusse nella strumentazione il mitico mellotron, progenitore di tutte le
tastiere elettroniche e marchio di fabbrica del primo periodo della band.
McDonald a sua volta ingaggiò il poeta e artista visivo Peter Sinfield,
chiedendogli di scrivere con lui qualche canzone. Tra cui “In the Court of the
Crimson King”. Donde il nome del gruppo, dal quale intanto era uscito un
disamorato Peter Giles, sostituito al basso e alla voce da Greg Lake, vecchio
amico di Fripp.
La nuova band esordì il 13 gennaio del ’69, in un caffè al
63 di Fulham Palace Road, a Londra. “Re Cremisi” è un termine inventato da
Sinfield per indicare Beelzebub, il principe dei demoni. Il faccione sulla
copertina del disco spiega tutto. Dentro, c’è l’inferno e il paradiso: accanto
alle eteree e misteriose atmosfere della suite del Re Cremisi, si ascolta, in
“21st Century Schizoid Man” qualcosa che è già oltre l’hard rock, e preannuncia
il grunge. Lì sono le due anime dei Crimso prima maniera: da una parte la
sensibilità melodica della coppia Giles e McDonald, dall’altra lo sperimentalismo
inquieto di Fripp. L’album uscì sul declinare del glorioso anno 1969, mentre il
gruppo stava già collassando, proprio a causa di quello sdoppiamento. Durante
il tour americano, seguìto al fulmineo successo del disco, Ian McDonald e Mike
Giles se ne andarono. Fripp s’era impadronito della band e la stava guidando
verso più oscuri territori dove i due non se la sentivano di seguirlo. Anche
Greg Lake, poco dopo, uscì per raccogliere trionfi e seminar danni insieme con
Keith Emerson e Carl Palmer nella prima superband del progressive.
Ecco, la storia è questa. Però a quei tempi non era facile
sapere come andavano le cose. Voglio dire: non c’era internet, e i pochi
giornali specializzati italiani viaggiavano di risulta, in pratica copiando il
“Melody Maker”, che da noi arrivava di rado, in genere solo nelle edicole delle
stazioni delle grandi città. Insomma, per quel che ne sapevo i King Crimson
erano alive and kicking, e io aspettavo con impazienza il loro nuovo disco,
immaginandomi chissà quali meraviglie.
Devo precisare che a mio modesto avviso potremmo anche
chiudere qui la faccenda. “In the Court of the Crimson King” è un colpo di
genialità immane, di quelli che capitano una volta nella vita. E non in tutte
le vite. Tu puoi essere un immenso musicista, ma nell’esistenza di Mozart c’è
un solo “Flauto Magico”, e i Beatles hanno fatto “Sgt. Pepper’s” e tutti gli
altri dischi potreste anche saltarveli, mentre sarebbe insensato ascoltare
tutti i dischi dei Beatles escluso “Sgt. Pepper’s”. Nel caso di “In the Court”,
poi, è mia opinione che si tratti dell’unico vero album dei King Crimson intesi
come gruppo. Non a caso, su cinque brani tre sono firmati dall’intera band, e
due dalla coppia McDonald-Sinfield. I lavori successivi sono invece sostanzialmente
di Robert Fripp. Ogni presa di potere è però progressiva. All’inizio, il regno
dispotico del Re Cremisi non fu incontrastato. Pete Sinfield era sopravvissuto
alla diaspora della prima formazione, e la sua inclinazione per un approccio
soft di stampo jazz folk è ancora ben presente fino ad “Islands”, del 1972, che
segna la sua uscita di scena e l’affermazione definitiva della linea “dura” di
Fripp: ascoltate, in quell’album, “Sailor’s Tale”, brano che si esalta della
cupezza di mellotron e chitarra. Capito cosa intendo dire?
Torniamo a quel 1970 e al vostro umile scrivano che
attendeva con impaziente speranza il nuovo disco dei King Crimson. Ne ebbe
addirittura due, quell’anno. Diversi, perché frutto di due band diverse, che
solo per comoda convenzione ci ostiniamo a definire King Crimson. Per la
precisione, la band di “In the Wake of Poseidon” non esisteva. Eppure, a
leggere le note di copertina, uno avrebbe creduto che si trattasse di un album
proprio di “quei” King Crimson: ci trovi infatti Mike Giles alla batteria, Greg
Lake alla voce, addirittura il redivivo Peter Giles al basso, e il brano “Cat
Food” è firmato da Ian McDonald in compagnia di Fripp e Sinfield. Ci sono delle
new entry di peso, certo: Mel Collins ai fiati, Gordon Haskell alla voce in
“Cadence and Cascade”, e soprattutto Keith Tippet, pianista destinato a
divenire una stella fissa della scena musicale del decennio, e oltre. Però,
insomma, siamo lì. Sono i King Crimson, pensava il vostro umile e ignaro
scrivano ascoltando l’album. Anche la musica era dei King Crimson. Fin troppo
simile a “In the Court”. Se un difetto volevi trovarci, quello era: “In the
Wake” sembrava (fin dal titolo) un remake del primo disco. La verità era ben
altra: i King Crimson non esistevano più, “In the Wake” l’avevano registrato i
soli Fripp e Sinfield, superstiti titolari della ditta, e gli ex della vecchia
formazione erano lì come semplici turnisti. Lake come pagamento della sua
prestazione si portò via l’attrezzatura dei vecchi King Crimson, ormai morti e
sepolti. “In the Wake” è una specie di disco zombie.
Da qui in poi i King Crimson diventano una propaggine
dell’ego smisurato e tormentato di Fripp, che ricostruisce la band con il
batterista Andy McCulloch e il sassofonista e flautista Mel Collins, e convince
Gordon Haskell a entrare definitivamente nel gruppo come bassista e cantante.
Beh, definitivamente è una parola forte: Haskell resiste giusto il tempo per
registrare un capolavoro, “Lizard”, poi se ne va, insieme con McCulloch, perché
non condivide la linea imposta da Fripp. Tanto per cambiare. “Lizard” infatti
si basa su materiale composto dal solo Fripp (e da un sempre più riluttante
Sinfield) e suonato da un manipolo di eccellenti jazzisti, da Tippet a Mark
Charig,
Nick Evans e Robin Miller. E si sente. Siamo sospesi tra le
atmosfere di “In the Court” e quelle che saranno di “Islands”. Ma “Lizard” è
ancor fresco di stampa e già Fripp sta già ristrutturando la band. Per
“Islands” ingaggia il batterista Ian Wallace e il cantante Raymond “Boz”
Burrell (dopo il meteorico passaggio del futuro Roxy Music Bryan Ferry). Poiché
nella religione di Fripp il cantante dev’essere comunque il bassista, il povero
Boz dovette imparare a suonare il basso in un battibaleno. Il tempo di un tour
e di registrare “Islands”, e finisce il viaggio: Fripp rifiuta di inserire nel
repertorio pezzi scritti dagli altri membri del gruppo. E’ decisione che egli
definisce “controllo di qualità per assicurarsi che i King Crimson suonino il
giusto genere di musica”, ovverossìa il genere di musica che piace a lui.
Chiaro che gli altri lo mandano a stendere. E lui manda a stendere loro. E’ il
1972, e in poco più di tre anni il regno del Re Cremisi ha già conosciuto più
rivoluzioni che una repubblica delle banane in un secolo.
Punto e a capo. Però, rileggendo, mi rendo conto che
l’impressione che potreste trarre da quanto ho scritto è troppo negativa nei
confronti di Fripp. Visto così, ne esce una sorta di paranoico dittatore. Può
darsi che lo sia, personalmente. Ma dal punto di vista musicale, ripercorrendo
i quattro album del periodo d’oro dei King Crimson, salta agli occhi che
abbiamo a che fare con un genio, e per di più scaltro e con le antenne ben
dritte. Nelle continue convulsioni imposte da Fripp alla band c’è una logica. Lui
annusa il vento, assorbe quello che il vento porta, e lo fa suo. Nel ’69 aveva metabolizzato
l’era progressive e l’epifania dell’elettronica, ma le cose, in quegli anni,
cambiavano in fretta, e Fripp cambiava con loro. Fateci caso: nel 1970 Miles Davis
pubblica “Bitches Brew” e nel ’72 esce “I Sing the Body Electric” dei Weather
Report, i manifesti della fusion, e questo spiega – ben più che le bizze di un
paranoico dittatore – la svolta di “Lizard” e di “Islands”. Insomma, quando
succede qualcosa di importante, Fripp è lì. Sul pezzo. E sempre un passetto
avanti. Lui nel gruppo non ci sa stare. In nessun senso. I suoi transitori
compagni si scazzano perché non possono suonare la musica che amano. Fripp la
musica da amare se la crea di volta in volta.
Ora, ciò non significa che uno debba amare, di volta in
volta, la musica che di volta in volta ama Fripp. Non sta scritto da nessuna
parte, eccetto forse che nei vangeli dei frippisti, setta religiosa che – come
ogni setta – non ammette tentennamenti: seguite il capo, dovunque e comunque.
Personalmente, pur con la massima stima per il musicista, fui tentato di
scendere dal treno cremisi alla stazione di “Lark’s Tongues in Aspic”. Pensavo
di aver già dato: anzi, “Lizard” l’avevo amato, e lo amo, e quanto a “Islands”
resta uno dei miei dischi più ascoltati. Almeno una volta al mese, come un
mantra, da oltre quarant’anni. Per me, poteva anche finire lì, con il
dissolversi di quel gruppo perfetto.
Ma Fripp aveva altri progetti. In quel fatidico 1972 caccia Sinfield rimpiazzandolo, come
paroliere, con l’ex chitarrista dei Supertramp Richard Palmer-Jones, ingaggia
il batterista degli Yes Bill Bruford, il bassista e (ovviamente) cantante dei
Family John Wetton, il percussionista Jamie Muir, il violinista David Cross; e
parte per un altro tour; al termine del quale, all’inizio del 1973, pubblica
“Lark’s Tongues in Aspic”. Lingue d’allodola in gelatina. Ecco, qui io getto la
spugna. Cioè: corro a comperare il disco, lo ascolto e lo riascolto, e poi comincio
a elaborare il lutto. I miei Crimso non ci sono più. Voglio dire: fino a quel
punto, avevo visto la logica di un’evoluzione attraverso quattro album anche
molto distanti l’uno dall’altro. C’erano quelle suggestioni che oggi
definiremmo “fantasy”, c’erano l’ironia (pensate ad “Happy family”) e l’incanto
(l’ensemble di archi di “Song of the Gulls” in “Islands” ancora oggi mi
commuove), c’era il jazz che tanto amavo filtrato dall’english mood della
scuola di Canterbury; insomma, c’era tutto ciò che amavo della musica di quel
periodo, e che nell’alchimia della coppia Fripp-Sinfield diventava
l’inconfondibile “Crimson touch”, coerente nella discontinuità. Ascoltando
“Lark’s Tongues in Aspic” mi resi conto di una tristissima verità. Appartenevo
alla cosca perdente. Quella di Sinfield. E per me non ci sarebbe stata nessuna
pietà. “Lark’s Tongue in Aspic” è il primo disco ufficiale di Robert Fripp.
Dentro ci trovi la passione per Béla Bartòk e l’assimilazione delle nascenti
sonorità heavy metal, oltre all’innamoramento inconsulto per le percussioni
stravaganti di Jamie Muir (il quale poco dopo lascerà la band, in preda a una
provvidenziale crisi spirituale) e per lo stile aggressivo di Wetton, che
istiga Fripp a distorcere ulteriormente la sua già distorta chitarra. Rimane il
mellotron, è vero. Rimangono due sublimi e fugaci episodi jazzy-melodici come
“Book of Saturday” e “Exiles”. Ma non basta mica…
Insomma, avrete capito che per me “Lark’s Tongues in Aspic”
fu un duro colpo. Sbagliavo io, certo, dato che le critiche furono positive, e
ancora oggi incontro crimsoniani duri e puri che lo considerano un capolavoro
assoluto. E lo è, dal punto di vista di Fripp: questa è l’idea che aveva in
mente per i King Crimson, fin dall’inizio. Ci sono voluti cinque dischi e tre
formazioni, e finalmente ce l’ha fatta: ha i musicisti giusti per la musica che
vuole lui. Io ci rimasi male, ma suppongo che la cosa non importasse molto a Fripp. Che non mancò di
farmelo capire quando, a fine ’73, la band arrivò a Torino e io mi precipitai
speranzoso e felice ad ascoltarla al vecchio Palasport. Fu un grande concerto:
di sicuro la band – ridotta a quartetto dopo l’addio di Muir – era tecnicamente
la migliore di sempre. Però suonava realmente metal. Fu un concerto molto
rumoroso, dominato dai riff ossessivi di “Lark’s”. Pochissimi relitti delle
prime stagioni, anch’essi appartenenti all’ala “heavy” – tipo “Cat Food” e
l’irrinunciabile “Schizoid Man”. E molti brani inediti, con un evidente
bagaglio di improvvisazione. Tuttavia i fans già nostalgici potevano trarre qua
e là benevoli auspici per un ritorno alle atmosfere “romantiche” che li avevano
fatti innamorare. La voce di Wetton in
episodi come “Lament” e “The Night Watch” mi parve degna del miglior Lake.
Preciso che quella sera al Palasport ignoravo che “Lament” e “The Night Watch”
si intitolassero così: facevano parte della gran messe di inediti che Fripp infilò
nei concerti del tour, preparando così il nuovo album, un “finto disco in
studio” - o se preferite un “ex live” - che sarebbe uscito nel gennaio del ’74.
L’album è “Starless and Bible Black”, costituito in massima parte di materiale
dal vivo che Fripp “ripulì” creando l’illusione che si tratti di registrazioni
in studio. Un disco che ho amato ma
forse non capito: il lato A (dove ci sono per l’appunto “Lament” e “The Night
Watch”) corrisponde all’idea che io ho dei King Crimson, con elementi fusion
che rimandano a Miles Davis e alla Mahavishnu Orchestra, prevalenti in quegli
anni; il lato B, con due lunghi pezzi strumentali e sperimentalissimi,
corrisponde probabilmente all’idea che ha Fripp dei King Crimson. Idea che
emargina sempre più le melodie violinistiche di David Cross. Indovinate un po’?
Da lì a poco Fripp mette Cross alla porta. Ridotti a trio, e in pieno
sbandamento, i King Crimson preparano il passo d’addio. Fripp è fuori come una
nave al largo. In piena crisi spirituale, frustrato dallo showbiz, tocca
l’apice del suo proverbiale esaurimento nervoso, cosicché le registrazioni di
“Red” ricadono in gran parte sulle spalle di Bruford e Wetton. Il risultato è
un disco schizzato, che alterna melodie, improvvisazione e – soprattutto –
durezze decisamente heavy metal. Gran
parte della critica applaude, io rinuncio ad ascoltarlo al terzo tentativo, e
due mesi dopo la pubblicazione Fripp annuncia che i King Crimson “hanno cessato
di esistere, per sempre”. Capolinea. Ciascuno per sè e dio per tutti.
Potremmo fermarci qui? In fondo, questi
sono i King Crimson. Quello che accadrà dopo - trascorsi sette anni durante i
quali Fripp insegue i suoi progetti e le sue chimere - non è un altro capitolo
della storia. E’ un’altra storia. D’accordo, si chiameranno ancora King Crimson:
ma per una decisione all’ultimo minuto, suppongo per pure considerazioni
sentimental-commerciali. In realtà la band messa in piedi da Fripp nel 1981 si
doveva chiamare Discipline. Fripp s’era ritrovato con Bill Bruford per “fare
qualcosa insieme”: così avevano ingaggiato Adrian Belew, cantante e chitarrista
(e già l’idea di ammettere un secondo
chitarrista rivela che Fripp è molto cambiato, in quei sette anni) e il
bassista Tony Levin, all’epoca turnista di Peter Gabriel, che suonava il
Chapman Stick, strumento avveniristico e pertanto apprezzatissimo da Fripp.
Insomma: questi quattro vanno in tour con i Lounge Lizards facendosi chiamare
Discipline, quindi che cosa c’entrano i King Crimson? Solo nell’ottobre dell’81
si riappropriano della vecchia insegna, e “Discipline” diventa il titolo
dell’album che pubblicano di lì a poco. A me sembra che stiano semplicemente
confondendo le carte. Anche perché questi autonominati King Crimson non sono
neppure parenti dei vecchi: sono una band vicina alla new wave che domina in
quegli anni (anni nei quali Fripp e Belew avevano lavorato con Talking Heads e
Bowie), intrigata con le nuove tecnologie, attenta ai suoni del momento, dal
post punk al funk, all’afro. Molto up to date, insomma. E okay, “Discipline” è
un buon disco. Ma, ripeto, che cosa c’entrano i King Crimson? Beh, ora che ci
penso, quello che ho scritto due righe fa dei nuovi King Crimson s’adatta
perfettamente anche ai vecchi: attenti alle nuove tecnologie e ai suoni del
momento. Rock progressivo, insomma...
Va bene, allora continuiamo, nonostante le mie riserve sulla
resurrezione dei King Crimson nell’anno di grazia 1981. Con una premessa: d’ora in poi, e più che mai,
quando leggerete “King Crimson” dovrete intendere “Robert Fripp”. L’ombroso
chitarrista, indipendentemente dai sodali di cui di volta in volta si
circonderà, s’identifica con la band, con il progetto. Un progetto che va oltre
gli esiti discografici, spesso dispersivi, seppur interessanti: Fripp, già in
questo primo ritorno, e ancor più in quelli successivi, sembra inseguire una
sorta “continuità concettuale” che va letta nell’insieme della sua complessità,
non nei singoli episodi.
Comunque, la prima “resurrezione” dei King Crimson dura tre
anni, giusto il tempo di tre dischi. Dopo “Discipline”, nell’82 esce “Beat”, il
primo ellepì della storia della band con la stessa formazione del precedente:
ma erano già evidenti i contrasti fra Fripp e Belew – ovvero fra l’anima
sperimentale e quella melodica – che due anni dopo avrebbero portato a “Three
of a Perfect Pair”, album programmaticamente
scisso in due, il lato A contenente le canzoni più pop, e quello B
(chiamato right side, “lato destro”
ma anche “lato giusto”) con il materiale più sperimentale. Per dirla con Fripp,
“il primo lato è accessibile, il
secondo è eccessivo”. Chiaro che non
poteva durare: l’11 luglio 1984, l’indomani di un concerto a Montreal, a
colazione Fripp comunica ai soci la sua decisione di sciogliere il gruppo.
Chiaro che gli altri ci rimasero male. Ma non fecero troppe storie.
Tanto che dieci anni dopo, nel 1994, Belew va a trovare
Fripp e lo convince a rimettere insieme la band. E Fripp accetta, richiama
Belew e Levin e aggiunge alla formazione Trey Gunn al Chapman Stick e Pat
Mastellotto alla batteria, affiancato da Bill Bruford come secondo drummer.
Insomma, i King Crimson diventano un “doppio trio”: due chitarre, due bassi,
due batterie. E a scanso di futuri equivoci Fripp precisa, papale papale, che
la leadership creativa sarà soltanto sua. Chi non ci sta, si accomodi alla
porta. Con simili premesse, gli esiti discografici furono ovviamente frippiani:
a cominciare da “Vrooom”, manifesto del suono dei nuovi King Crimson, tra
elettronica e rock industriale, con citazioni del pop Sixties. Le possibilità
del “doppio trio” emergono ancor più nei dischi successivi, “Thrak” e il live
“Thrakattak”: ma non può durare, e difatti non dura. Il doppio trio è
estremamente complesso, e ha in sé i presupposti dell’impasse artistica. In
più, Fripp e Bruford litigano come due vecchi coniugi. Ma anziché sciogliersi
definitivamente, i sei decidono di dar vita a una serie di “sottoband”, o
“FraKCtalisations”, come li definisce Fripp: formazioni variabili che creano,
fra il ’97 e il ’99, cinque diversi “ProjeKCt”. Alla fine, Bruford e Levin se
ne vanno, ma gli altri quattro – Belew, Gunn, Mastellotto e ovviamente Fripp –
continuano per la loro strada, puntando sempre più sulla tecnologia, e aprendo
il terzo millennio con “The ConstruKCtion of Light”, forse il più hard rock di
sempre, vicino all’alternative metal dell’epoca, con brani estremamente
complessi. Anche per i fedelissimi è una dura prova. Vi faccio grazia dei vari
esperimenti, anche discografici, che seguirono, per arrivare lestamente a
“Power to Believe” del 2003, monumento autoreferenziale di Fripp che ripesca e
stravolge vecchi materiali in quello che definisce “il culmine di tre anni di
Crimsoniamento”. A me, che ascoltai dal vivo quei King Crimson nel giugno del
2003, parve il culmine del rincoglionimento. Ma a quell’epoca avevo già perso la
Fede. Fu un concerto all’insegna della
sperimentazione pura: sul palco mi pareva ci fossero degli anatomopatologi
intenti a dissezionare musica. Fripp non si degnò un solo istante di voltarsi a
guardare il pubblico. La prima parte fu una sofferenza. La seconda si riscattò,
con brani più alla portata di noi umani. Ma quando terminò, capii che quello
sarebbe stato il mio ultimo concerto dei King Crimson. Lo ammisi con onestà:
non ero all’altezza. Forse lo pensava anche Trey Gunn, che lasciò la band alla
fine di quell’anno. E la band entra nella lista delle arabe fenici: dal 2004 al
2007 tutto tace, sul fronte crimsoniano. Nessun rompete le righe ufficiale, ma
neppure segnali di vita: finché, nel 2007, viene annunciata una nuova
formazione, con Gavin Harrison, batterista dei Porcupine Tree, che si aggiunge
a Fripp, Belew, Levin e Mastellotto. Ancora una resurrezione? A metà. Nel 2008
tengono quattro concerti, ma senza materiali nuovi. Poi torna il silenzio.
Fripp passa i suoi guai, finanziari e personali, e resiste alle insistenze di
Belew che vorrebbe ricominciare. Eppure, nel 2011 esce “Scarcity of Miracles”,
con il sottotitolo “A King Crimson ProjeKCt”: ci sono Fripp, Levin, Garrison,
il redivivo Mel Collins e il chitarrista frippiano Jakko Jakszyk.
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