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I PRIMI MIRACOLI DEL SALONE

Scambio d'affettuosità fra Chiarabella e il fascinoso Massimo
Bray, presidente del Salone: alle loro spalle Luigi Di Maio
controlla le manovre della possibile rivale per il premierato
Il Salone ha già vinto. E' riuscito a portare Di Maio in mezzo ai libri. Il futuro candidato premier, reduce da un dotto consesso all'Università, ieri ha fatto sfracelli all'Auditorium del Lingotto, festeggiatissimo dal nuovo establishment cinquestelle che affollava il parterre des rois della seratona d'apertura. 
Tutto è cambiato, anche al Salone, nel giro di dodici mesi. E del cambiamento la serata inaugurale è lo specchio fedele. Intanto sono cambiate le facce dei politici in passerella: ho avvistato pochissimo centrosinistra (le figurine del centrodestra scarseggiavano anche prima) ma in compenso sfavillava Appendino inseguita dai flash come Angelina Jolie sulla Croisette, e circondata da congrua corte d'assessori: Leon svolazzava felice di capannello in capannello, mentre Sacco portava in giro la sua faccia triste con rassegnata eleganza, e qua e là spuntava qualche consigliere comunale attratto dal fascino dell'espugnata mondanità. Accompagnava la gita scolastica il maestro Paolo Giordana, più che mai a suo agio nel ruolo di sindaco. 
Ricercatissima la foto con il presidente del Salone Massimo Bray, che è tanto un bell'uomo e in quanto ex ministro delle Cultura e direttore della Treccani sa come comportarsi nelle occasioni cultural-sociali.
Il centrosinistra l'ho visto poco, ieri sera: giusto l'Antonella Parigi, ma nella ressa qualcuno dev'essermi sfuggito. Sono stato contento di incontrare anche Maurizio Braccialarghe: l'ex assessore alla Cultura mi è sembrato in buona forma e molto combattivo.

Cosa gli diciamo ai milanesi?

Nic Lagioia, il direttore
col ciuffo (e lo zainetto)
La metamorfosi del Salone si avverte non soltanto dal cambio della quindicina politica. E' ancor più evidente nella scomparsa del rituale inaugurativo. Addio orazioni ore rotundo di Picchioni; e addio accorati discorsi di Ferrero sullo stato del libro e della cultura. Il presidente Bray e il vicepresidente Montalcini se ne restano quietamente in platea. Sale sul palco invece il direttore Nic Lagioia, e parla per cinque minuti. Ma in quei cinque minuti affronta, con leggerezza, il tema saliente del Salone 2017: ovvero "Cosa facciamo dei milanesi, adesso? Li riaccogliamo come figlioli prodighi e pentiti, o li mandiamo affanculo come tanto ampiamente meritano?". Nic ricorre al gioco del "se fosse un libro", citando vari titoli corrispondenti ad altrettante scelte di vita - e di strategia. E conclude leggendo un breve racconto di Borges, la cui morale è, se ho ben capito, che la colpa dura finché dura il rimorso. Qualsiasi cosa possa significare. Più spicciamente, anziché libri e racconti io mi sentirei di suggerire il titolo di un film di Robert Aldrich: "Nessuna pietà per Ulzana".
Opinione, la mia, comune ai tanti torinesi che si apprestano gongolanti ad affollare il Salone, molti per la prima volta nella vita, attratti non tanto e non solo dal fascino della letteratura, quanto e soprattutto dalla golosa opportunità di praticare, semplicemente acquistando un biglietto d'ingresso, lo sport preferito dai torinesi: andare in culo ai milanesi.
Sarà il caso di chiarire ben bene questi concetti al ministro Franceschini, che oggi viene con Grasso e Fedeli ad aprire il Salone di Torino dopo aver aperto, in un profluvio vane gradassate, lo sfigatissimo Tempo di Libri meneghino. Francis di sicuro tenterà di rimestare la minestraccia acida del "salone unico" o altre fanfeluche che possano attutire la stratosferica minchiata perpetrata dal suo amichetto Sala in concorso con Mondazzoli & Co e con Federico Motta, l'uomo che volle farsi re e invece si fece una figura barbina.
A tutti costoro Torino opponga un dignitoso "hai voluto la bici? E adesso pedala da solo" e lasci i milanesi a giocarsi la Champions di calcetto, che quella vera ce la giochiamo noi. L'Appedino per l'occasione potrebbe anche rispolverare lo slogan fondativo del Movimento. Mai come in questo caso un vaffanculo avrebbe un alto valore politico, ed etico.

Narrazioni Jazz? Ah già, c'è anche Narrazioni Jazz!

Concludo queste prime noterelle salonistiche con un cenno ai circenses inaugurali. Ieri al Lingotto si festeggiava non soltanto l'inizio del Salone, ma pure di Narrazioni Jazz, la fotocopia in formato ridotto del Torino Jazz Festival piazzata inconsultamente negli stessi giorni del Salone quando il Salone sembrava moribondo: con lo scopo dichiarato di sostenerlo e renderlo più attrattivo per le masse in virtù - pensa un po' te... - del jazz. Teoria già stravagante all'epoca (ma quando mai il jazz ha attratto le masse?) e perdente oggi, dato che il Salone s'è ripreso con un formidabile quanto imprevedibile colpo di reni, mentre Narrazioni Jazz non sembra decollare. Anche lo spettacolo d'apertura, ieri al Lingotto, ha rivaleggiato in quanto a noia con i dotti concerti classici del passato. Il racconto delle radici siciliane del jazz, narrate dal regista Franco Maresco e dal direttore del Festival Stefano Zenni, di per sé poteva interessare - beh, forse... - se avesse avuto uno straccio di regia, un minimo di ritmo: così, invece, s'è risolto in una verbosa doppia conferenza, intervallata da troppo rari interventi musicali dell'eccellente trio convocato per l'occasione.
Il pubblico in Piazza Castello durante il concerto "Italiani"
Io me la sono squagliata all'inglese dopo un'oretta faticosa. E direi che lo show non ha troppo incuriosito i torinesi: i settori dell'Auditorium riservati al pubblico "normale" (i non invitati a vario titolo, intendo) presentavano alcune poltrone vuote. Diciamo che, nonostante la gratuità, non c'è stato l'assalto per accaparrarsi un posto, né la polizia a cavallo è intervenuta per disperdere le folle in tumulto.

In piazza Castello più qualità che pubblico

E purtroppo era mezza vuota - più mezza vuota che mezza piena, a essere onesti - piazza Castello: in una città distratta dalla finale di Coppa Italia, non sono stati molti ad accorgersi che, dal balcone di Palazzo Madama, Eugenio Allegri leggeva pagine belle de "Il nome della rosa": peccato, perché chi c'era s'è sinceramente emozionato - devo riconoscere che la chiusa de "Il nome della rosa" emozionerebbe un sasso. Ha emozionato pure Eugenio Allegri, che raccontando il libro di Eco continuava a dire che fu scritto nel 1984: con conseguente stupore di Nic Lagioia sperso fra il pubblico. In effetti, "Il nome della rosa" è uscito nel 1980
L'agguato. Johnson Righeira alle prese con la jena Giulio Golia
A seguire, sempre dal balcone, il concerto "Italiani" con Giorgio Li Calzi, Gianluigi Carlone e Johnson Righeira che rifacevano con grande stile i classiconi della canzone nazionale: gradevole assai, il concerto, benché assediato dai clacson dei festeggianti bianconeri, ma la piazza ormai s'andava svuotando. L'idea comunque è buona: se quelli del Salone avranno la costanza di insistere, capace che in un paio d'anni diventa per i torinesi un appuntamento irrinunciabile. Tipo i fuochi di San Giovanni.
La serata comunque è piaciuta a chi c'era: a parte il povero Johnson, che arrivando in bici per il concerto s'è beccato, all'ingresso di Palazzo Madama, l'assalto di uno delle Jene a proposito di non so quale carneade che rivendica la paternità di non so quale canzone. Business as usual.
E con questa botta trash penso d'avervi raccontato proprio tutto ciò che ho visto ieri. Da oggi è Salone. Andateci. Andateci perché leggere è bello. E perché fregare i milanesi è meraviglioso.

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