Da oggi al Museo Egizio c'è una mostra straordinaria. Si intitola "Archeologia invisibile". Mi ha lasciato senza fiato.
Non sembra neppure di stare a Torino, tanto quella mostra è piena d'intelligenza e ideazione e innovazione ed è meravigliosamente diversa da tante mostre stinfie e banali che facciamo a Torino, dove ultimamente se ci sforziamo di inventarci una mostra intelligente e ideativa e innovativa il massimo risultato è una mostra sui Macchiaioli.
"Archeologia invisibile" racconta cos'è oggi un museo, e che cosa fa un museo: intendo dire un museo serio, di respiro e prospettive internazionali, che non è soltanto un posto dove si espongono un po' di oggetti più o meno rari, belli o preziosi; bensì un santuario della ricerca, un luogo dove scienza e umanesimo si incontrano per esplorare il passato e capirlo e narrarlo.
La mostra dell'Egizio racconta gli oggetti che il passato più remoto ci ha tramandato, scatole del tempo da decifrare: e racconta come e con quali criteri e tecniche e strumenti oggi decifriamo quelle scatole del tempo, e le preserviamo per le generazioni future che, forti di più avanzate tecnologie, sapranno raccogliere il testimone e proseguire la nostra esplorazione.
Detta così è un po' complicata. Ma "Archeologia invisibile" non è una mostra che si può descrivere - o "recensire" come fanno i "recensori" che spiegano al prossimo ciò che non hanno capito. E' una mostra che devi vedere, e che ti trascina e ti avvolge e ti immerge in una morta civiltà che sotto i tuoi occhi diventa attuale e viva; e gli oggetti parlano, e narrano la loro storia, vincendo di mille secoli il silenzio. Scusate si mi allargo a citar Foscolo, ma davvero vagando per le sale della mostra, accompagnato dal curatore - un giovanotto che si chiama come me, Ferraris, ma è talmente bravo e preparato che di sicuro, mi son detto, non possiamo essere a Torino, dove quelli come lui li facciamo filare a gambe levate - davvero, dicevo, non riuscivo a pensare ad altro che ai versi del Basettone: "Un dì vedrete / Mendico un cieco errar sotto le vostre / Antichissime ombre, e brancolando / Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne, / E interrogarle. Gemeranno gli antri / Secreti, e tutta narrerà la tomba / Ilio raso due volte e due risorto / Splendidamente su le mute vie / Per far più bello l’ultimo trofeo / Ai fatati Pelìdi".
Ecco, il mendico cieco - che poi sarebbe Omero - sostituitelo con l'archeologo di oggi, e l'abbraccio del mendico cieco con il digitale e la fotogrammetria e le indagini multispettrali e le stampanti 3 D e le tomografie neutroniche e le altre diavolerie che manco sapevo esistessero e che certo non capisco; ma quei versi che invece capisco benissimo spiegano perfettamente in cosa consiste oggi la ricerca che è il pane e il fine ultimo di un museo che si rispetti. La tecnologia interroga gli oggetti, e gli oggetti ci parlano.
I sarcofagi, i corredi funebri, le mummie, gli amuleti, i papiri ci narrano storie e pensieri e quotidianità che riemergono presenti e vivi dal silenzio dei secoli. E tutto questo è la mostra: filmati avveniristici, realtà aumentata, divulgazione scientifica d'alta classe. Non mute parate di reperti indecifrabili, retaggio di una museologia ottocentesca.
Insomma: ho visto qualcosa che non speravo più di vedere a Torino. Ma forse davvero questa mostra e questo museo di vedute e prospettive internazionali non sono a Torino, in questa ridente cittadina le cui vedute e prospettive più ambiziose non si spingono oltre il contendere il titolo di capitale italiana della cultura ad altre ridenti cittadine con analoghe vedute e ambizioni: tipo Ravenna, Mantova, Pistoia.
La non torinesità della mostra e del museo che l'ha pensata giustifica appieno l'assenza, stamattina alla presentazione di "Archeologia invisibile", di un qualsivoglia rappresentante del Comune di Torino e della Regione Piemonte, o delle Fondazione bancarie, che pure siedono tra i soci dell'Egizio.
Quelli del Museo, per la verità, non mi sembravano affranti per le assenze secredenti eccellenti. Forse manco ci hanno fatto caso. La Christillin non è tipo da soffrire per le piccole inadempienze istituzionali. E Christian Greco, figurarsi: lui è un direttore larger than life. Fin troppo, per una piccola città di provincia. Esattamente come il Museo che dirige. Prima o poi toccherà cacciarlo, come aveva promesso qualche politicante dalla vista lunga. Dobbiamo preservare da sgradevoli complessi d'inferiorità i nanetti che s'aggirano per il paesone.
In attesa di sistemare all'Egizio un direttore incapace, così da riportare questo anomalo museo a una dimensione consona al paesone che immeritatamente lo contiene (dire "ospita" mi pare eccessivo, almeno per il mio concetto di "ospitalità"), vorrei però che approfittassero dell'occasione, e visitassero "Archeologia invisibile", gli archeologi d'Egitto che in tempi non lontani si sono esibiti in ridicole crociate e sesquipedali raffiche di minchiate museologiche da bar dello sport. Che vadano a scoprire, una buona volta, che cos'è un museo, che cosa fa, quali sono gli strumenti e gli obiettivi dei ricercatori e degli studiosi che ci lavorano. Potrebbero rimanere sorpresi. Persin sconcertati.
Ma forse non è il caso. Apprendere che un museo non è un deposito dove s'accatastano vecchie carabattole potrebbe scuotere le loro granitiche certezze. Meglio non rischiare turbamenti pericolosi.
Mi rivolgo piuttosto alle mie dilette Antonella e Francesca, donne colte e sensibili e per questo care al mio cuore: ieri mattina non c'eravate, certo impedite da severi impegni istituzionali; però non lasciatevi sfuggire l'occasione, regalatevi un paio d'ore di libera uscita dalla sonnacchiosa Torino e fate una scappata all'Egizio. Non perdetevi una mostra imperdibile. Magari vi suggerirà qualche spunto migliorativo per i musei torinesi.
E non ditemi che purtroppo a Torino mancano i soldi per progettare in grande. "Archeologia invisibile" è costata centomila euro per l'allestimento e i materiali filmati, e seicentomila in totale. Ciò che è esposto, invece, non ha prezzo: sono i reperti dell'Egizio, e soprattutto i frutti del lavoro, delle ricerche, delle tecniche degli egittologi del Museo, e degli studiosi delle massime istituzioni scientifiche mondiali - dal Mit di Boston ai Musei Vaticani, dal British Museum all'American University del Cairo - con le quali da sempre l'Egizio collabora. Perché questo fanno i musei veri: intessono relazioni e scambi internazionali, costruiscono reti, confrontano esperienze e risultati.
Con la forza della sua autorevolezza, il patrimonio del suo lavoro, e con seicentomila euro, l'Egizio ha creato una mostra che ha le carte in regola per andare in giro per il mondo onorando l'immagine del Museo, e fruttando un sacco di sghei. A Torino spendiamo di più per mostre che poi non ci prendono manco a Valpisello di Sotto.
No, care Antonella e Francesca. A Torino non mancano i soldi. Mancano i cervelli.
Sarà forse perché Christian Greco non è Uno. Uno che non sapeva che fare e si è improvvisato a fare qualcosa. Ha viaggiato, ha studiato, ricercato, addottorato e, non stanco, studiato ancora. Sarà che la competenza può ancora fare una qualche differenza? Mah... chiediamocelo.
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