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QUATTRO STORIE DEL FESTIVAL

Welles e maritozzi: souvenir della notte horror
A chiusura del capitolo Festival aggiungo ancora un "bonus post" con i pezzi che ho scritto per La Stampa durante il Tff. Ormai non sono più di bruciante attualità, né di particolare interesse: più che altro lo faccio per archiviarli da qualche parte.

Viaggio al termine della notte horror (22 novembre)

Il momento della verità è alle quattro: resistono soltanto i veri insonni o i veri matti. Gli altri – quelli sensati o con la palpebra pendula – prendono atto che sei ore di sbudellamenti e porte che cigolano possono bastare; così ingollano l’ultimo maritozzo  gentilmente offerto e se ne vanno a nanna. Anche Samuel Romano, cantante dei Subsonica e finora mio fratello nella notte della paura, decide di lasciare. Saluto con malcelata invidia lui e i suoi amici che raggiungono il letto, twitto un fintamente ardimentoso “Sono le 4 e ci tocca ancora un film. Quando il gioco si fa duro i duri osano restare” e resto con la cinquantina di irriducibili che incollati alle poltrone del cinema Massimo si accingono ad affrontare  gli ultimi tremori prima che i tram riprendano a sferragliare annunciando che la “Notte Horror” del Festival è finita.
Quando – per masochistico gusto della sfida – mi sono preso l’incarico di seguire per il giornale la maratona cinematografica del Festival – tre film di paura da mezzanotte di sabato alle sei di domenica – avevo in testa un piano semplice e astuto: mi procuro il biglietto per il film delle 22,30 al Massimo, mi sdraio sull’accogliente poltrona e mi faccio un sano pisolo: così verso mezzanotte mi sveglio come un autentico vampiro, pimpante e assetato di sangue, già sul posto e pronto al mio dovere di cronista dall’inferno.
Ma leggere bene i programmi è sintomo di prudenza cinefila che ancora non m’appartiene: avrei altrimenti scoperto che “The girl in the photographs” di Nick Simon, il film delle 22,30 al Massimo, è l’ultima produzione del compianto Wes Craven, e non un film d’amore come mi ero immaginato io per motivi che ancora mi sfuggono. La mefistofelica direttrice Emanuela Martini ha pensato bene di far precedere la “Notte Horror” da un antipastino con due tizi che affettano ragazze imprudenti; e insomma, di dormire non se ne parla neanche.
Tra una coltellata e l’altra facciamo mezzanotte, e si comincia davvero: il Massimo accoglie la lunghissima coda di aspiranti terrorizzati. La sala è zeppa e variegata: gruppi di ragazzi che tentano un po’ di caciara preventiva e cinefili duri  puri con barba e occhiale hipster; coppie d’ogni età e sciami di solitari da sala, razza meravigliosa per cui il cinema è esperienza privatissima e non occasione sociale; c’è anche una signora che s’è portata il lavoro a maglia e tricotta quieta in attesa di farsi  terrorizzare. Io mi aggrego a Samuel e ai suoi amici, piazzandomi vicino a una simpatica psicologa – fosse mai che mi servisse un sostegno d’urgenza.
Il primo film, “The Devil’s Candy”, la caramella del diavolo, gioca sul sicuro: ci sono il satanismo, il metal rock, il pittore posseduto, e ovviamente l’assassino psicopatico munito di sega. Classiconi. Così quando il pittore posseduto spacca la testa all’assassino psicopatico si leva dalla platea un applauso da stadio con fischi e hurrà che neanche per un gol di Ronaldo. Alla fine del massacro, verso le due, Mole Cola, caffé e cornetti – tutto gratis, paga lo sponsor - sono il meritato premio dei liberi e dei forti che in baldanzosa schiera si apprestano ad affrontare il terzo film di paura. Però al momento la paura vera è non terminare la coda per le toilette prima che inizi la proiezione.
Rientro in extremis in una sala ancora quasi piena, mentre già sullo schermo uno sconsiderato si aggira con il figlioletto in una foresta d’Irlanda dove le maligne presenze potrebbero mancare soltanto se il sindacato delle streghe proclamasse uno sciopero a oltranza. Il guaio è che lo sciopero non c’è, e che io non riesco ad addormentarmi: per cui mi godo il solito assedio delle presenze oscure alla casa maledetta nel bosco stregato. E poi ci si stupisce se molti diffidano degli agenti immobiliari.
Il film si intitola “The Hallow”. Non mi sembra che sconvolga il pubblico: i più sono veterani del cinema horror, e gli altri leggono i giornali e guardano la tivù, quindi non si lasciano spaventare da quattro bavose creature striscianti nelle tenebre. Lo spavento arriva invece dall’orologio: alla boa delle quattro pochi se la sentono di fermarsi per l’ultimo film. Anche parecchie barbe si arrendono e lasciano il Massimo discettando con competenza su tecniche di squartamento e altri effetti speciali. Io, ligio al dovere, tengo la posizione. Ma del film, “February”, posso dirvi poco. Ci sono due ragazzette che restano sole nel tipico college americano sperduto tra i boschi; poi il sonno misericordioso scende a cancellare anche l’ultima paura. Al risveglio mi aspetta un altro orrore: non distribuiscono più le brioches. La cinquantina di superstiti alle sei meno venti si ritrova in mezzo a una gelida via Montebello, senza il conforto di un cappuccino.
Mi stringo nel giaccone e vado al mio destino. All’edicola sotto casa compro “La Stampa”. In prima pagina c’è scritto “La paura nel cuore dell’Europa”. Rimpiango già i fiumi di sangue finto che mi hanno fatto compagnia per tutta la notte.

I film non sono mai troppi (22 novembre)


Troppi film al Tff? E’ una vecchia convinzione del direttore del Museo del Cinema Alberto Barbera. Ancora una volta l’ha ribadita, ricordando che la Mostra di Venezia – da lui diretta – di film ne programma una cinquantina. Pochissimi, rispetto ai duecento e passa proposti a Torino da Emanuela Martini.
Non credo che ciò sia il sintomo di una rottura fra i due direttori. Piuttosto, parlerei di diverse prospettive frutto delle differenti vocazioni delle rispettive rassegne. Venezia è un gigante del business. Presenta i blockbuster della stagione, le opere dei registi celebri, fa mercato più che ricerca, e si rivolge soprattutto agli addetti ai lavori. Torino è invece un festival che ha nel pubblico la sua forza e la sua ragion d’essere. E’ il festival del cinema di chi va al cinema. E ha il dovere prioritario di soddisfare la sua folla di cinefili offrendo infiniti stimoli. Il Tff non è soltanto una vetrina della produzione contemporanea più o meno mainstream: è scoperta e riscoperta, curiosità, sperimentazione. Le retrospettive e i documentari, a Torino, sono importanti come o forse più del concorso lungometraggi. E non è detto che chi frequenta le retrospettive ami anche i documentari, o viceversa. Un grande pubblico richiede una grande varietà di proposte. Ok, forse duecento film sono tanti. Ma di certo per i cinefili del Tff cinquanta sarebbero una miseria.

Davide Ferrario: cercando un altro cinema (23 novembre)

Il pensiero ce lo siamo levati: ieri hanno portato a Madonna il film di Davide Ferrario “Sexxx”, che Sua Maestà desiderava vedere. Non è andato di persona Ferrario: il regista è notoriamente schivo. E quando ci siamo sentiti non mi è sembrato neppure troppo emozionato. “Massì – mi dice – lo vedrà, sono contento… Almeno se ne è parlato un po’: se non era per Madonna, figurati se i giornali si filavano un film sulla danza…”. Insomma, il tono è questo, piuttosto melanconico. “Sai, è lunedì”, mi fa. E allora? “Come tutti i lunedì, sto guardando i dati dei cinema del weekend, e siamo alle solite: ecco qui, settecentomila spettatori, duecentomila… Ma dove andiamo, con numeri così?”. I numeri si riferiscono alle presenze nelle sale dove si proiettano film italiani di qualità. Togli il cinepanettone “Matrimonio al Sud”, e siamo al muro del pianto: i settecentomila sono per “Loro chi?” e “Gli ultimi saranno ultimi”, i duecentomila per il Rubini di “Dobbiamo parlare”. Briciole, rispetto ai blockbuster americani.
“Uno si chiede se abbia ancora un senso fare i film”, borbotta Ferrario. Ce l’ha? “Come lo intendevamo una volta, no. Dobbiamo prendere atto che tutto è cambiato. La commedia, ormai... Ha più senso fare altre cose. Il cinema italiano funziona quando punta su un pubblico specializzato, sulle proiezioni-evento, su un tipo nuovo di documentario: ho fatto questa cosa sull’Accademia Carrara di Bergamo che riapre e beh, andrà nelle sale con duecentoventi copie. Capisci? Duecentoventi. ‘Dopo mezzanotte’ ne aveva settanta. E per quel genere di proposte il pubblico c’è: è un pubblico particolare, d’accordo, sono le scuole, o gli appassionati di arte, o che so, di danza, e vengono a una proiezione come andrebbero a teatro, o a visitare un museo. I numeri magari non grandissimi. Però ci sono. Crescono. Credo che il futuro sia lì: come in tivù, dove i canali specializzati un po’ alla volta superano le reti generaliste. Può piacere o no: ma la situazione è questa, e se piove devi usare l’ombrello, c’è poco da discutere. Il film  sugli Uffizi ha avuto un milione di spettatori. Quanti film italiani di fiction possono sperare altrettanto? Ed è inutile prendersela con la distribuzione. Inutile dare la colpa dei nostri insuccessi ai giornali e ai critici. I giornali e i critici non contano più, non ti fanno arrivare la gente in sala. La gente sceglie secondo logiche diverse dal passato. Tutto qui. Non possiamo fermare il cambiamento: solo cercare di capirlo, e attrezzarci”.
Eppure al Festival le sale sono piene, obietto dal profondo della mia ingenuità. “Ah sì, questo è vero. Ed è molto bello. Ma il Festival è un’isola, una parentesi. Mi domando quale destino hanno poi i film dei festival. Quanti trovano una distribuzione. E soprattutto un pubblico”. 

Barbera non torna indietro (25 novembre) 

Sgombriamo subito il campo da ogni equivoco. Questo articolo riguarda il Torino Film Festival, non i futuri assetti del Museo del Cinema. Di conseguenza non vi dirà se Alberto Barbera, direttore del Museo che concluderà il suo mandato tra un mese, si aspetta una riconferma.  Immagino che se l’aspetti, come chiunque ha lavorato bene tenendo ferma la rotta pur tra bufere non da ridere. Potrei aggiungere che ha le chance per essere riconfermato. Sarei disposto persino a scommetterci una ventina di euro, se le quote sono interessanti. Però non ne abbiamo parlato, oggi a pranzo. Un po’ per tigna mia – odio sentirmi rispondere “no comment” – e un po’ per rispetto istituzionale suo, perché la decisione spetta al Chiampa e a Fassino; e siamo troppo sensati, Alberto ed io, per tentare di entrare nella testa di quei due.  A pranzo – da Eataly alla Mole, penne con crema di melanzane, buone – abbiamo invece parlato con leggerezza dell’unica, faticosa “polemica” che anima un Torino Film Festival  perfetto sotto ogni profilo ma carente sul piano della conflittualità che eccita i media... (a questo punto sospendo, perché l'articolo è ancora disponibile nella sua versione per Stampa Premium, e mi pare scorretto pubblicarlo free).

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