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Le banche, presumo, non entrano in Fondazione per il piacere di fumarsi un pacco di euro a titolo benefico. E' ovvio che, pagando, pretendano; e pretendendo, comandino. Com'è ovvio che Comune e Regione, pur se resteranno formalmente "soci di maggioranza", non hanno più un soldo per far ballare un orso; e il ruolo di chi non ha soldi vale quello del personaggio che nelle commedie arriva alla fine del terzo atto e dice "Il pranzo è servito".
In tale prospettiva, era assai lucido l'editoriale di Guido Boffo ieri su "La Stampa". Un ragionamento che non fa una grinza. E' logico pensare che, presto o tardi (più presto che tardi), il Salone del Libro diventi un'entità privata, nelle mani delle banche. Ciò di per sé non sarebbe una tragedia per nessuno, considerato come l'hanno gestito gli enti pubblici (cfr. "La minchiata perfetta: l'affondamento del Salone").
Ma c'è un ma. La privatizzazione del Salone ad opera delle banche non sarebbe una tragedia per nessuno, tranne che per le banche. Le banche non sono un'istituzione caritatevole. Sono il tempio del profitto - me ne rendo conto ogni volta che discuto con il mio sportellista preferito.
Ora: posso immaginare che Intesa - massimo creditore della Fondazione per il Libro tramite la controllata Banca Prossima - non abbia nessun interesse a lasciar fallire il proprio debitore. Ma francamente stento a convincermi che degli istituti di credito pensino di trarre un ragionevole profitto dall'organizzazione di un Salone del Libro. Altrettanto francamente, se la mia banca mostrasse simili velleità comincerei a guardarmi intorno per cercare qualche destinazione meno creativa per i miei pochi risparmi: le scommesse sportive, ad esempio.
Non c'è dubbio che la prossima edizione del Salone del Libro si farà grazie l'intervento delle banche; e il salvataggio implicherà l'azzeramento dei vertici a Salone concluso, e la nomina di un nuovo presidente, un nuovo CdA e un nuovo direttore che abbiano la fiducia dei padroni bancari (le istituzioni pubbliche si limiteranno a dire "Il pranzo è servito"). Ma poi? L'ipotesi più ottimistica è quella indicata da Boffo: le banche si prendono il Salone, e bon.
Una storia alternativa
In città circola però anche una storia diversa che mi sa tanto di fantapolitica, ma con una sua perversa plausibililità. Io l'ho sentita ripetere, con varianti minime, da più fonti, in genere attendibili e ben informate.Le cose, narra questa storia alternativa, starebbero così: le banche non hanno nessuna intenzione di invischiarsi nella Fondazione, e neppure nel Salone. Intervengono quest'anno (con il retropensiero di sganciarsi appena possibile) per salvare non tanto il Salone, quanto Fassino.
La situazione in effetti era disperata. L'incombente "due diligence" metterebbe a nudo la brutta situazione dei conti. C'era il rischio concreto che il Salone 2016 non si facesse. Ciò, a un mese dalle elezioni, avrebbe generato un contraccolpo emotivo nei torinesi tale da infliggere il colpo di grazia alle chances di rielezione di Fassino. Eventualità che preoccupa non poco - et pour cause - gli ambienti finanziari.
L'intervento diretto degli istituti bancari (che Comune e Regione sollecitavano fin da settembre) sarebbe quindi maturato adesso per scongiurare un terremoto istituzionale. E avrebbe il respiro corto: passiamo la boa delle elezioni comunali, poi si vedrà. Anzi: poi ciascuno per sé e Dio per tutti.
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