Nicola Lagioia |
Grandi speranze
Al Forum del Libro, comunque, Nic ha parlato da direttore del Salone del Libro. Con molto orgoglio e obiettivi ambiziosi. Non dà l'impressione di voler giocare in difesa. Anzi. Vuole un Salone di lotta e di governo, un "luogo dove l'editoria incontra la politica" per spiegare alla politica i problemi le aspettative le esigenze dell'editoria. Un Salone che sia il collante di un "sistema editoriale" in grado di fare massa critica e ottenere dal potere quantomeno l'attenzione e il rispetto di cui godono altri settori dell'industria culturale.
Ma per dare forza al Salone, dice Lagioia, è necessaria un'assunzione di responsabilità da parte della città. E non soltanto a livello locale: l'impegno - dice Lagioia - "o è nazionale, o non è".
Vasto e ambizioso progetto, per come siamo messi.
Però Nic Lagioia, lo sapete, è un sognatore serio che come tutti i sognatori seri talora ci azzecca. Riconosce, bontà sua, che attorno al Salone "ci sono turbolenze" - ecco, "turbolenze" mi pare un capolavoro d'eufemismo... - però (aspettate, adesso metto su la musica di sottofondo del discorso del presidente in "Independence Day"...) "dobbiamo tirarci fuori della turbolenza e iniziare a dialogare fra noi per essere all'altezza del compito che ci tocca: se non riusciremo a svolgere un compito nazionale la colpa sarà solo nostra. E allora avremo fallito".
Alla fine del discorso Lagioia se ne va, e me ne vado anch'io. Lui si trascina il suo trolley da perenne viaggiatore. Io, con fine intuizione, deduco che è di partenza e gli offro uno strappo fino a Porta Nuova.
Strada facendo discutiamo delle prossime scadenze. Il 28 novembre, mi dice, si saprà l'esito dei bandi per i dipendenti. Lui spera di ritrovarsi la sua squadra di sempre (o almeno quel poco che ne resta) e cominciare finalmente a lavorare pancia a terra per mettere in piedi l'ennesima edizione d'emergenza del Salone del Libro: avranno cinque mesi a disposizione, come al solito. Si vede che qui a Torino ci piace vincere difficile. E meno male che i nostri competitor milanesi erano delle pippe, altrimenti a quest'ora stavamo sottoterra.
Strada facendo discutiamo delle prossime scadenze. Il 28 novembre, mi dice, si saprà l'esito dei bandi per i dipendenti. Lui spera di ritrovarsi la sua squadra di sempre (o almeno quel poco che ne resta) e cominciare finalmente a lavorare pancia a terra per mettere in piedi l'ennesima edizione d'emergenza del Salone del Libro: avranno cinque mesi a disposizione, come al solito. Si vede che qui a Torino ci piace vincere difficile. E meno male che i nostri competitor milanesi erano delle pippe, altrimenti a quest'ora stavamo sottoterra.
Il destino di un marchio
Nic è preoccupato per il destino del marchio. Teme che finisca nelle mani sbagliate, magari di qualcuno che decida di portare il Salone in un'altra città. Gli ribatto che la cosa in sé non mi allarmerebbe: in fondo, obietto, per parecchi anni il Salone del Libro lo abbiamo chiamato Fiera del Libro perché non potevamo utilizzare il marchio "Salone", e nessuno se n'è accorto. La gente ci andava lo stesso. La gente se ne frega, di nomi e marchi. Il Salone quello è: a Torino, a inizio maggio, con i libri, gli stand, gli incontri, la folla, le code, le polemiche, il clima di festa mobile, i selfie e tutto l'ambaradan. Poi chiamalo Fiera, chiamalo Kermesse, chiamalo pure Giuseppe o Anastasio: se lo fai come cristo comanda, la gente ci va. E non va da un'altra parte, come hanno imparato a proprie spese i banfoni dell'Aie.
E la trovata del "crowdfunding" per acquistare il marchio? Beh, può essere interessante come esperimento sociale. Nic si limita a un generico apprezzamento per il bel gesto. Io invece sono curioso di vedere quanti torinesi saranno davvero disposti a cacciare dieci euro per la generosa impresa. Ma dubito che abbia senso sul piano pratico: ammesso e non concesso che racimoli davvero i cinquecentomila euro, poi che te ne fai?
Il marchio lo vendono all'asta, non in un negozio che tu entri, chiedi quanto costa, paghi e ti porti a casa il bell'oggettino. In un'asta ci sono i rilanci, e all'asta del Salone sono previsti rilanci di ventimila euro: se qualcuno è seriamente intenzionato a prendersi il marchio e tu puoi offrire al massimo cinquecentomila euro, lui deve semplicemente rilanciare e tu che fai? Improvvisi un "instant crowdfunding" per tirar su altri ventimila euro? E se l'altro rilancia ancora? Dai, ragazzi, il gesto è bello, ma francamente mi auguro che intervenga qualche acquirente bene intenzionato, e con i soldi veri: tipo le Fondazioni bancarie, se non direttamente gli enti locali che non hanno un picco manco a rivoltargli le tasche. Certo però che è inquietante, essersi ridotti a questi passi.
Il marchio lo vendono all'asta, non in un negozio che tu entri, chiedi quanto costa, paghi e ti porti a casa il bell'oggettino. In un'asta ci sono i rilanci, e all'asta del Salone sono previsti rilanci di ventimila euro: se qualcuno è seriamente intenzionato a prendersi il marchio e tu puoi offrire al massimo cinquecentomila euro, lui deve semplicemente rilanciare e tu che fai? Improvvisi un "instant crowdfunding" per tirar su altri ventimila euro? E se l'altro rilancia ancora? Dai, ragazzi, il gesto è bello, ma francamente mi auguro che intervenga qualche acquirente bene intenzionato, e con i soldi veri: tipo le Fondazioni bancarie, se non direttamente gli enti locali che non hanno un picco manco a rivoltargli le tasche. Certo però che è inquietante, essersi ridotti a questi passi.
Umiliati e offesi
Ma ciò che davvero urla vendetta al cospetto del cielo è la faccenda del prezzo. La base d'asta a 500 mila euro per marchio e allestimenti. E' una valutazione ipocrita, gli dico. Quando si vende qualcosa all'asta, è ovvio che si parta da una base inferiore al valore reale: altrimenti non si vede perché mai si dovrebbe fare un'asta. Quindi è ufficiale che la valutazione di duecentomila euro - quella che ha portato al patatrac la Fondazione per il Libro - era del tutto irrealistica, una sottostima che prima o poi qualcuno dovrà giustificare.
D'altra parte cinquecentomila euro sono un prezzaccio, anche per un'asta, rispetto alla vecchia stima di circa un milione per il marchio e un milione per gli allestimenti. Quindi capisco la solenne incazzatura dei fornitori, che rischiano di ottenere ben poco di quanto gli spetta: dichiarano 7 milioni di crediti nei confronti dell'ex Fondazione; nessuno ha manco preso in considerazione la loro proposta di business plan; e sentono puzza di bruciato ogni giorno di più. Per molti di loro non incassare quei soldi può significare il fallimento.
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