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IN 25 MILA AL TJF: MA DOVE PUO' ARRIVARE IL FESTIVAL?

Giorgio Li Calzi (a sin.) e Diego Borotti, direttori del Tjf
Ieri era l'ultimo giorno del Torino Jazz Festival e così nel pomeriggio ho fatto un salto alle Ogr per ascoltare le prove dei simpatici Rava e Boltro, che sono garbate persone oltre che trombettisti eccelsi, ed è sempre un piacere fargli un ciao quando capita occasione. Era un sabato da trombettisti, evidentemente, tanto che appena arrivato alle Ogr mi sono imbattuto nel direttore del Tjf Giorgio Li Calzi, e abbiamo chiacchierato un po'. Gli ho fatto i complimenti, com'è giusto: il suo Festival non soltanto ha riempito le sale per otto giorni filati, che già è un bel risultato; ma le ha riempite senza trucchetti da avanspettacolo, con un  programma di qualità. Gliel'ho detto, a Li Calzi: quello che hanno confezionato lui e il suo sodale Diego Borotti è un Festival con una fisionomia ben precisa; una logica interna, un progetto leggibile e coerente. Con una consequenzialità, insomma. Anche aspra, a volte; non sempre facile per il grande pubblico: eppure il pubblico ha risposto bene, il che dimostra che la qualità può essere apprezzata anche se non rientra nel mainstream. Certo, non mancavano i nomi che non possono non piacere, purché ti piaccia questo genere di musica. Un Randy Brecker, ad esempio, non lo discuti; vai e lo ascolti. Ma insomma, ho visto ben occupati i settecento e fischia posti del Conservatorio pure per le sperimentazioni di Fred Frith, che onestamente sono una lamata pazzesca per chi ambirebbe a trascorrere un paio d'ore ascoltando motivetti piacevoli; eppure quasi tutti i presenti non sono sgattaiolati via dopo la prima mezz'ora, il che va a imperituro onore del pubblico torinese.

Presenze stabili

Sono valutazioni che avevo già fatto per l'edizione dell'anno scorso, e fa piacere ripeterle. Li Calzi mi ha risposto che sì, anche loro sono soddisfatti, è andata pure meglio di quanto sperassero. Mi ha detto che hanno avuto 25 mila spettatori, e la cifra, se confermata, segna una continuità rispetto ai 22 mila dichiarati nel 2018, quando il Festival durò un giorno in meno. Tra partensi: l'anno prossimo tornerà a otto giorni, dal 26 aprile al 3 maggio. 
Venticinquemila mila presenze sono un eccellente risultato. Ovvio, non possiamo parlare di evento di massa. Sono meno di tremila al giorno. Ne ha avute di più Lovers in cinque giorni, con un budget di 300 mila euro contro i 700 mila del Tjf. Ma non ho nessuna nostalgia delle ganassate del Tjf vecchia maniera, con i concerti gratuiti in piazza, quando si conteggiavano come spettatori pure quelli che portavano a spasso il cane, e magari pure i cani, e alla fine i coriferi comunali strillavano che c'erano stati 200 mila spettatori, o anche di più, fate voi.
No, quelle puttanate no. Anch'io sono dell'idea che il jazz va ascoltato in luoghi adatti, con la disposizione adatta - passeggiare mangiando il gelato non è la disposizione adatta - e pagando: poco, se volete, una cifra simbolica, ma lo spettatore deve fare una scelta consapevole. E' una questione di rispetto. La gratuità svilisce il prodotto artistico.
Però non raccontiamoci favolette. Il Tjf adesso è un bel festival, ma non è un festival di massa; né potrà diventarlo, così com'è oggi concepito. Per svariati motivi.

Le masse non ci sono; né sapremmo dove metterle

Il primo motivo è tautologico: il jazz non è una musica per le masse. Vasco Rossi lo è. E lo era John Paul Jones quando suonava il basso nei Led Zeppelin: non adesso che suona con i Tres Coyotes al Conservatorio. Secondo motivo, i posti nelle sale. Che sono quelli che sono: 2500 alle Ogr, 750 al Conservatorio, al Piccolo Regio 300. Quest'anno i sold out sono stati tanti. E se il Festival è ai limiti della capienza, crescere ancora diventa impossibile. 
L'impasse è evidente. Metti che un giorno Li Calzi e Borotti si ritrovino per le mani un budget superiore ai 700 mila euro di quest'anno (soldi cacciati ovviamente in massima parte dai soliti "sponsor del sindaco", Iren e Intesa). E' un'ipotesi di scuola, sia chiaro: dubito che i due direttori riusciranno a spuntare di più dai finanziatori. Hanno già fatto i salti mortali per trovare gli 80 mila euro extra che sono serviti per l'anteprima piemontese del Festival.
Però ammettiamo che trovino i soldi, e decidano - poni - di investirli nel concertone di qualche star gabellabile a forza come "jazzy". Ovvio che servirebbe una location adeguata. Arriverebbe pubblico nuovo. E per molti versi cambierebbe l'attuale progetto del Tjf. Sta ai direttori artistici decidere se farlo o meno. Ma si tratta, per l'appunto, soltanto di ipotesi: se invece il Torino Jazz Festival è questo che conosciamo, beh, allora questi sono i numeri che può raggiungere. Un migliaio o due in più, magari: però sempre lì stiamo.

Ma esiste il "pubblico da fuori Torino"?

Terzo punto, il bacino d'utenza e la comunicazione. Oggi, ammettiamolo senza ipocrisie, il Tjf si rivolge principalmente al pubblico locale. Non a caso non risultano studi che certifichino le presenze di spettatori da fuori Piemonte, o dall'estero; e men che meno le ricadute economiche di quelle presenze. Non si parla più del ROI, "il ritorno economico dell'investimento" per il Tjf: era insoddisfacente ai tempi di Fassino, e ciò fornì il facile destro ai cinquestelle per demolire il Tjf di Fassino; ma temo che sia insoddisfacente anche per il Tfj dei cinquestelle. Nella relazione finale del Tjf 2018 infatti i portavoce del potere si limitano a citare il noto "aumento delle presenze turistiche in città nel periodo fine aprile-metà maggio", attribuendolo imparzialmente al Festival Jazz (22 mila spettatori) e al Salone del Libro (144 mila visitatori unici più le 26 mila presenze dell'Off). Un po' come nella barzelletta del topolino che correva con gli elefanti e gridava "facciamo un bel casino, eh? Facciamo un bel casino!". 
Siamo seri: ricordo che all'epoca domandai al presidente di Federalberghi, Comoletti, se gli albergatori avessero beneficiato di un movimento di turisti per il Festival Jazz, e lui mi rispose che nessun albergatore - fra quelli che aveva sentito - aveva notato arrivi di clienti per il Festival, né clienti informati dell'evento. E quest'ultimo particolare (gli ospiti degli alberghi di Torino non sapevano che ci fosse un Festival jazz a Torino) deve farci riflettere.
Per intanto, in mancanza di prova contraria, riconosciamo che oggi il Tjf è - come sempre è stato - un festival che si rivolge principalmente ai torinesi. Ciò rappresenta un problema? Per me no. Sono lorsignori che l'hanno menata per anni sul fatto se attraesse o non attraesse turisti. Adesso i lorsignori del momento non parlano più di turisti e dicono che il Festival ha una funzione sociale, coinvolge la cittadinanza, abbatte le barriere fra i quartieri e crea cultura di base e senso di collettività: e a me sta benissimo così. Tanto non gestisco un albergo. 
E in fin dei conti la scarsa visibilità oltre la cinta daziaria non è un problema del solo Tjf. Sono pochi gli eventi torinesi che davvero richiamano grandi pubblici da fuori città: mi vengono in mente  le partite di calcio, il Salone del Libro, Artissima, il Salone del Gusto, una volta alcuni grandi concerti rock... Continuate voi, se volete e potete.

La comunicazione costa. Ed è una cosa seria

Tum, Dleng, Cha, Tin: in sostanza, la nuova linea di succhi di frutta e soft drink
Peccato, però: proprio per l'identità originale che il Tjf di Li Calzi e Borotti ha saputo darsi, ci sarebbero le potenzialità per farne un - magari piccolo - cult nazionale e fors'anche internazionale. Qualcosa che davvero richiama gente da fuori. Non come adesso, che non lo conoscono manco i turisti che già sono a Torino e vedono i manifesti coi barattoli e pensano che stiamo lanciando una linea di soft drink e succhi di frutta.
Certo: se poi i turisti del jazz arrivassero davvero, si dovrebbero trovare soluzioni alternative alle Ogr e al Conservatorio, per aumentare la disponibilità di posti. Mica puoi far partire uno da Parigi per il Festival e dirgli "vabbé, se il concerto alle Ogr è sold out ci sono quelli nei club, che sono pure gratis...". Quello ti manda a cagare: ce li hanno pure loro, i club, e mica partono da Parigi per venire al Caffè Neruda ad ascoltare il bravo jazzista locale.  
Comunque il problema oggi non esiste, e per farlo esistere in futuro sarebbe necessario comunicare il Festival fuori Torino in maniera convincente, ampia e professionale. Ciò richiederebbe un budget adeguato, e gestito da gente competente, così da ottenere riscontri davvero significativi. Quest'anno si sono visti pochi manifesti del Tjf persino a Torino: figurati cosa ne hanno saputo non  dico a Parigi, ma a Lione o a Milano. E se poi, magari, si ideasse una campagna pubblicitaria più convincente dei barattoli... 

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