In un articolo sul Corriere di stamattina espongo le amare riflessioni che mi ha ispirato il desolante confronto fra la risposta della Scala alla pandemia, con il lussureggiante show di lunedì in diretta su Raiuno, e i poveri tentativi on line delle nostre una-volta-eccellenze-culturali. Sforzi generosi, per carità, ammirevoli se pensiamo agli anni e anni d'errori e infime scorrerie della politica che hanno devastato e impoverito l'intero tessuto cittadino. Ma povere cose se confrontati alla volontà e capacità che Milano pur nell'emergenza riesce a mettere in campo, con esiti inimmaginati e inimmaginabili in una Torino prostrata, livida e sprofondata di sua stessa mano, senza una guida, una visione, una progettualità, e senza una classe dirigente in grado di affrontare il disastro.
E giusto stamattina, mentre ancora ci rimuginavo su, apro un giornale e che cosa leggo? Che adesso Torino è la "Capitale della Street Art". Capitale autonominata, senza dubbio. Frutto forse della fretta di qualche titolista: sono stato troppo a lungo nei giornali per non sapere quanto si lavori con i minuti contati, e quanto in certi momenti sia inevitabile il ricorso al luogo comune. Ma 'sta cosa della "Capitale di..." è un vezzo che a Torino non è indice di semplice provincialismo, bensì di un mood che da tempo ci affligge, una mentalità da nobili decaduti, ricchi ormai solo d'orgoglio, di memorie e di creditori, che s'atteggiano a Grandi di Spagna ma con le pezze al culo. D'altra parte, però, è una panacea per il politico infingardo alla ricerca di meriti mai guadagnati, sicché s'inventa la capitale di qualcosa e se la rivende ai boccaloni - che non mancano mai - come se fosse chissà quale ambito traguardo, chissà quale luminoso risultato.
Ora. La notizia che vivo nella Capitale della Street Art di per sé potrebbe anche emozionarmi, non fosse che viene ad aggiungersi al cumulo di altre “capitali” che da anni, e ormai con frequenza pressoché giornaliera, vengono attribuite alla città dove sono nato in un'epoca ormai remota quandi Torino era soltanto, banalmente, la Capitale dell'Automobile. Però lo era per davvero.
Il mio trisnonno Ferraris Domenico fu Francesco ebbe anch'egli la ventura di vedere una Torino capitale: prima del Regno di Sardegna, poi d'Italia, e comunque per davvero.
Pure mio nonno Enrico visse, all'inizio del Novecento, in una capitale: sempre Torino, allora capitale del cinema. Ma per davvero, non come adesso (e in proposito vi rimando a questo illuminante scritto di Davide Ferrario).
Tutte le altre capitali che ci raccontano e ci raccontiamo sono capitali cantate e suonate per autoconsolazione e/o autointortamento, fanfaronate degne di quei ganimedi di provincia che al bar narrano imprese amorose fenomenali quanto farlocche mentre gli amici si fingono ammirati e intanto sghignazzano di gusto alle spalle del ridicolo cacciapalle. La normalità, le solite cose che puoi trovare in qualsiasi città civile medio-grande - il festival, la stagione teatrale, le conferenze, le sagre paesane, i tizi che disegnano sui muri... - a Torino diventano motivo di capitalizzazione immediata. E non è necessario strafare: spesso basta una scorreggina nell'universo per suscitare gridolini d'ammirazione e capitalizzazioni d'ufficio.
Con l'unica eccezione, forse, del Salone del Libro – che comunque non ci rende “capitale del libro” manco pucazzo, dato che i libri si fanno a Milano – non è altro che un rosario di vorrei-ma-non-posso l'infinita sequela di “capitali” che giornalmente ci attribuiamo: capitale del cinema (ma dove?), dell'arte contemporanea (e ridacci, i grandi mercati stanno altrove, i grandi musei pure,,,), dell'innovazione (ah già, i droni!), della cultura (stiamo freschi), del fumetto (giuro, una volta l'ho visto stampato su non so che giornale). E Capitale d'Estikatzi no? Farebbe molto esotico.
Il mio trisnonno Ferraris Domenico fu Francesco ebbe anch'egli la ventura di vedere una Torino capitale: prima del Regno di Sardegna, poi d'Italia, e comunque per davvero.
Pure mio nonno Enrico visse, all'inizio del Novecento, in una capitale: sempre Torino, allora capitale del cinema. Ma per davvero, non come adesso (e in proposito vi rimando a questo illuminante scritto di Davide Ferrario).
Tutte le altre capitali che ci raccontano e ci raccontiamo sono capitali cantate e suonate per autoconsolazione e/o autointortamento, fanfaronate degne di quei ganimedi di provincia che al bar narrano imprese amorose fenomenali quanto farlocche mentre gli amici si fingono ammirati e intanto sghignazzano di gusto alle spalle del ridicolo cacciapalle. La normalità, le solite cose che puoi trovare in qualsiasi città civile medio-grande - il festival, la stagione teatrale, le conferenze, le sagre paesane, i tizi che disegnano sui muri... - a Torino diventano motivo di capitalizzazione immediata. E non è necessario strafare: spesso basta una scorreggina nell'universo per suscitare gridolini d'ammirazione e capitalizzazioni d'ufficio.
Con l'unica eccezione, forse, del Salone del Libro – che comunque non ci rende “capitale del libro” manco pucazzo, dato che i libri si fanno a Milano – non è altro che un rosario di vorrei-ma-non-posso l'infinita sequela di “capitali” che giornalmente ci attribuiamo: capitale del cinema (ma dove?), dell'arte contemporanea (e ridacci, i grandi mercati stanno altrove, i grandi musei pure,,,), dell'innovazione (ah già, i droni!), della cultura (stiamo freschi), del fumetto (giuro, una volta l'ho visto stampato su non so che giornale). E Capitale d'Estikatzi no? Farebbe molto esotico.
Un minimo di realismo induce taluni a limitare i voli pindarici, accontentandosi di più prosaiche capitalizzazioni del vermuth, del grissino e dell'amaro San Simone (almeno quello è un titolo che nessuno ci può contestare). E soltanto il covid, pur fra mille tragedie, ci ha impedito quest'anno di essere la capitale delle baracchette di Cioccolatò e della salama da sugo (con le altre meraviglie del Natale coi fiocchi).
Un amico alquanto radicale propone la formazione di un comitato di salute pubblica che provveda a cacciare fuori dai confini della città i prossimi inventori di “capitali”, dopo averli conciati con pece e piume come nel West i ciarlatani che vendevano pozioni miracolose.
Seppur meritatissima, mi sembra una pena eccessiva e poco umana. Purché non tirino troppo la corda. Con la “capitale della street art” siamo arrivati al punto di rottura. Il primo che salta su con la “capitale dei treni a vapore” rischia grosso.
Un amico alquanto radicale propone la formazione di un comitato di salute pubblica che provveda a cacciare fuori dai confini della città i prossimi inventori di “capitali”, dopo averli conciati con pece e piume come nel West i ciarlatani che vendevano pozioni miracolose.
Seppur meritatissima, mi sembra una pena eccessiva e poco umana. Purché non tirino troppo la corda. Con la “capitale della street art” siamo arrivati al punto di rottura. Il primo che salta su con la “capitale dei treni a vapore” rischia grosso.
Purtroppo no: la capitale della salama da sugo è Madonna Boschi, ridente villaggio di poche anime nella campagna ferrarese, e a settembre ci sono andato apposta in pellegrinaggio per l'annuale sagra. Sulla salama da sugo, Torino non può proprio competere.
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