Notiziona! Il Museo del Cinema NON dà la Stella della Mole a Karla Sofía Gascón
Ha suscitato sconcerto (e invidia) negli ambienti cinematografici mondiali la notizia che Karla Sofía Gascón (foto) è scampata alla nemesi delle cinecelebrities di passaggio da Torino: la controversa attrice trans spagnola, vincitrice a Cannes come migliore interprete femminile con il film "Emilia Pérez", ha infatti presenziato ieri all'inaugurazione del Lovers Festival senza beccarsi sui denti il puntuto manufatto che ormai da un lustro il Museo del Cinema distribuisce copiosamente ai divi e dive che capitano a tiro. Causando peraltro seri problemi logistici ai malcapitati (come lo ficco in valigia 'sto coso?) i quali di conseguenza tendono ad abbondonarlo in albergo o nel cassonetto.«Non sono frocione, non mi chiamo Frifrì...», cantava Lino Banfi in «Fracchia la belva umana» di Neri Parenti. Era il 1981, e quella era la normale comicità del nostro cinema popolare. Per nulla normale in quell'Italia – non solo cinematografica – era invece, sempre nel 1981, «Dalla vita di Piero», il primo film di Ottavio Mai e Giovanni Minerba, che ribaltava la convenzione del personaggio omosessuale schernito, denigrato, ridotto a macchietta. «Dalla vita di Piero» riscosse larghi consensi al Festival Cinema Giovani nonché in vari festival internazionali, suggerendo a Mai e Minerba l'idea di una rassegna di cinema «a tematiche omosessuali». Così, con il sostegno di un assessore fuori dagli schemi come Marziano Marzano, esordiva nel 1986 «Da Sodoma a Hollywood», che presto sarebbe diventato il Tglff, Torino Gay & Lesbian Film Festival: il primo in Europa, il terzo nel mondo.
Titolo e contenuti suscitarono non pochi sturbi nella Torino più pudibonda; né contribuiva a rasserenare i benpensanti l'immagine-logo con Charlot e la creatura di Frankenstein in coccolosa intimità. Molto è cambiato da allora, la società si è evoluta, e il festival è diventato un patrimonio condiviso di Torino «città dei diritti», con buona pace di certa destra che non rinunciava agli anatemi di principio, arrivando – la giunta Cota – al dispettuccio meschino di negare al Tglff il patrocinio della Regione.
Eppure la prima vera crisi fu innescata, come spesso accade, dai benintenzionati: la giunta Appendino nel 2017, presumo con l'intento di «rinnovare» il festival, decise di cambiargli nome e direttore. Il nome, passi: forse Lovers gli sarà sembrato più «moderno» del chilometrico (o troppo esplicito?) Torino Gay & Lesbian Film Festival. E in fondo Lovers è un marchio che sta bene su tutto: un festival, un gelato, un rossetto.
Il cambio di direttore fu un'altra faccenda. Brutta brutta. Giovanni Minerba era al timone fin dall'inizio: la sua figura, per la comunità del festival, era un riferimento forte e la decisione d'imperio assessorile di sostituirlo con la regista Irene Dionisio scatenò una polemica infuocata che investì in pieno la prima edizione del ribattezzato Lovers, largamente boicottata. Tuttavia la direttrice nella bufera seppe tenere botta, e già l'anno successivo Lovers si riprese, tacitò i malumori e riconquistò il pubblico. Sicché nel 2019, alla scadenza del mandato triennale, Irene Dionisio poté lasciare in eredità un festival in buona salute a Vladimir Luxuria, la cui riconferma, alla luce di cinque anni ben spesi, mi sembra oggi doverosa, benché il Museo del Cinema rinvii ogni decisione al dopo-festival.
Ma mentre Lovers taglia il traguardo dei quarant'anni – quarant'anni che i tre direttori e Marzano rievocheranno mercoledì 16 in un incontro al Massimo – qualcuno potrebbe domandarsi se e quanto sia ancora necessario un festival di film «a tematiche omosessuali», oggi che quelle «tematiche» hanno conquistato gli schermi mainstream, e manco le serie tv rinunciano a schierare almeno un personaggio lgbtqi+. La mission di un festival nato per mostrare quei film ai quali il pregiudizio negava visibilità nelle sale e nelle tv «normali» sembrerebbe esaurita in una società, e in un cinema, nei quali finalmente la normalità è l'amore fra gli esseri umani in quanto tali, senza etichette o discrimini.
Purtroppo non è così. Molti film di «Lovers» ci raccontano la cupa attualità dei paesi che tuttora negano e reprimono la sacrosanta normalità dell'amore: ma oggi pure in quello che con fallace sicumera consideravamo il «civile Occidente», quei diritti che credevamo acquisiti per sempre sono sotto attacco, e tanti già cancellati con un tratto di penna. Succede negli Usa, succede da noi: non per imposizione di teocrazie oscurantiste, ma per volontà degli eletti del popolo. E dunque abbiamo ancora e più che mai bisogno dei film che aprono la mente e cambiano la vita. Abbiamo bisogno di Lovers.
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