Da oggi, naturalmente, gli inviati al Lingotto faranno del loro meglio per scovare la «polemica» di giornata; fosse pure una polemicuzza da quattro soldi, purché dia notizia, titolo, like, faccina indignata. La cultura da sola pare che non faccia traffico in rete. Mi sa però che troveranno lungo: il nuovo Salone, sorto dal crogiolo incandescente della crisi e riforgiato da mastro Lagioia, adesso, nelle mani accudenti di monnalena Benini, vuole essere più che mai la casa di tutti, anche dei condòmini un po' vivaci. Felpato, ecumenico, inclusivo, accondiscendente. Democristiano, si diceva una volta: e decidete voi se ciò sia un bene o un male.
Poi, si sa, il Salone è come il Festival di Sanremo: un palcoscenico mediatico, un megafono per ogni causa. Al Lingotto in questi giorni almeno due righe on line non si negano a nessuno, e quindi possiamo tranquillamente mettere in conto la manifestazione ai cancelli, la mezz'orata di indignazione, il sit in, financo l'alzata d'ingegno del mattocchio di turno. La contromisura è pronta: sedare, sopire, la buriana passa e il Salone resta. Alla fine si accerterà che pure quest'anno il pubblico è aumentato, si celebrerà il superamento del record precedente (se ben ricordo, nel '24 eravamo a quota 222 mila), e – diceva Chiambretti per l'appunto a Sanremo – comunque vada sarà un successo. Liscio come l'olio. A meno che stamattina, durante il giro inaugurale al Lingotto, il ministro Giuli non avvisti un comico in agguato fra gli stand, o peggio un intellettuale organico (al Salone forse se ne trova ancora qualche esemplare, tipo foca monaca in una riserva marina). Non accade; ma se accade, non garantisco nulla.
Timeo Danaos et dona ferentes, temo i Greci pur se recan doni, diceva il troiano che aveva qualche sospetto sul cavallo di legno. S'è visto com'è finita. Di conseguenza non mi entusiasmano le voci, sempre più insistenti, sulla volontà del ministero della Cultura di entrare nella compagine societaria del Salone del Libro. Ok, i doni non mancherebbero, un simile matrimonio presuppone una dote adeguata, soldi freschi e garantiti dallo Stato, e sputaci sopra. Ma è un po' presto per immaginarsi il ministro Giuli che per fare lo splendido arriva al Salone con i soldi già belli e pronti, una mezza milionata tanto per gradire. Non siamo ancora a questo punto. Anzi, non so neanche se il ministro Giuli è seriamente interessato all'operazione: ieri al Salone ho pure provato a domandarglielo un paio di volte, senza ottenere risposta; era di fretta, c'era un gran casino, magari manco ha capito, o magari mi ha preso per un comico.
So invece per certo che se ne discute nelle segrete stanze, e mi è stato confermato da più fonti che l'ipotesi è concreta, e a Torino ne sarebbero ben lieti.
Ecco, non riesco a condividere tanta letizia. Mi spiego. Nessuno fa niente per niente, chi paga comanda, e il governo (qualsiasi governo) può rivelarsi un socio parecchio ingombrante, specie in materia di nomine al vertice. Ricordate il predecessore di Giuli, l'estroso Sangiuliano, che pretendeva di fare e disfare all'Egizio, forte del potere di designare il presidente, potere attribuito al ministero a rigor di statuto? Lì l'abbiamo scampata bella: solo le conseguenze del gustoso affaire Boccia ci hanno salvati da un diktat in potenza disastroso per il nostro museo più importante. D'altronde, l'estroso Sangiu un paio d'anni fa s'era pure immischiato nel guazzabuglio per la successione di Lagioia al Salone, con la famosa «garbata richiesta» di infilare nel futuro comitato editoriale almeno tre consulenti di sua fiducia: e pensate che con il Salone, fino a prova contraria o a nuovi accordi, il ministro della Cultura in punta di diritto non c'entra un piffero.
Ora, non penso che i governi siano per loro natura tutti malvagi e volti al malfare (beh, insomma, non ne ho la matematica certezza...), ma Roma è Roma, Torino è Torino, e sono persuaso che un'istituzione culturale torinese si gestisca meglio da Torino; non perché i politici torinesi siano più svegli, ma se non altro perché conoscono (beh, dovrebbero...) la realtà di cui si devono prendere cura.
Certo, il denaro fa sempre comodo; e in un mondo perfetto è auspicabile, direi doverosa, la presenza dello Stato nella gestione delle nostre eccellenze culturali. La tendenza è quella: ad esempio è cosa ormai quasi fatta l'ingresso del Mic nella fondazione del Museo del Cinema. Eppure, chissà perché, mi torna alla mente quella favola del lupo magro e affamato che schifa il cane ben pasciuto ma con il segno del guinzaglio al collo dicendogli «caro amico, goditi pure le tue gioie, io non baratto la mia libertà per un regno». Figurarsi per un pugno di euri.
Gabo: «Il ministero della Cultura entrerà nella compagine societaria del Salone del Libro?».
Ministro Alessandro Giuli: «Il ministero ha molta cura e attenzione per il Salone del Libro. In questo momento non posso né confermare né smentire, però siamo e saremo sicuramente molto molto presenti».
Alla buonora. Sono infine riuscito a ottenere una risposta che, tradotta dal ministrese, significa «sì, ma dobbiamo ancora mettere a punto qualcosa, e comunque ve lo dirò quando vorrò io». Così l'ipotesi di un Salone colonizzato dal governo si fa più che concreta e questa, come scrivevo ieri, non è necessariamente una buona notizia. Va detto che l'attuale titolare della Cultura è un tipo rassicurante, a parte i tatuaggi inquietanti nascosti sotto la camicia immacolata e il completo con panciotto di taglio impeccabile. Senz'altro più rassicurante del suo predecessore che progettava la cacciata dall'Egizio di Christillin e Greco, mentre Giuli con la Christillin si profonde in baci e abbracci, e progetta di coinvolgere l'Egizio in due grandi mostre a Roma. Quanto al direttore (quello che secondo Sangiuliano non era poi quel granché, «non ha mica decifrato la stele di Rosetta»), Alessandro Giuli dichiara che Christian Greco e Gabriel Zuchtriegel (che dirige Pompei) «sono i due migliori direttori che abbiamo in Italia». Questo in privato, in pubblico opta per un meno tranchant «tra i migliori che abbiamo», ma insomma, la sostanza non cambia. Quindi ritengo che con Giuli in casa neanche il Salone correrebbe grossi rischi: soprattutto questo Salone soporifero che – parola del suo presidente Giulio Biino - «è luogo d'incontro, non di dibattito»: qualsiasi cosa ciò significhi, non sembra descrivere un Salone tale da inquietare il potere. Nessun potere.
Però i ministri vanno e vengono, e non sempre ti può capitare un simpatico dandy in grado di intrattenerti con una dotta lectio sui riti dionisiaci come quella ammannita ieri allo stand della Regione Campania, dove Giuli è arrivato con il consueto codazzo di reggiborse, guardiotti e intellettuali: non organici, beninteso (gli intellettuali, gli altri non saprei), in quanto Giuli stesso sostiene che gli intellettuali organici erano patrimonio della sinistra e non esistono più.
Tra gli intellettuali (non organici, per carità!) impegnati nel rito della salutatio matutina al ministro, già giovedì s'era distinto Mario Turetta che, dopo aver marcato stretto il Giuli in giro tra gli stand, l'ha infine rapito per portarlo a farsi le foto ricordo ai Musei Reali. Invece ieri ho avvistato nel codazzo ministeriale – oltre all'immancabile sorella del ministro, riconoscibile dal sobrio serpente tatuato sull'avambraccio – l'intellettuale non organico Pietrangelo Buttafuoco, Luigi Mascheroni che scrive sul «Giornale» e pertanto non è organico, e Manuela Lamberti del cda dello Stabile in rappresentanza degli intellettuali inorganici locali, nonché un Alain Elkann un po' provato (in effetti al Salone s'aggirano alcune bande di lanzichenecchi) che con un amichevole «diamoci del tu» rifila al ministro il suo ultimo libro.
Quando il minivan che ci porta al Lingotto rallenta di fronte alla nota gelateria «Silvano» di via Nizza, Antonello Venditti abbassa il finestrino e al gruppo di ragazzi che l'ha riconosciuto domanda «oh, sono buone le granite?». I ragazzi annuiscono, ma il minivan già riparte, non c'è tempo per le granite, al Salone si va di fretta.
Con Venditti ci vediamo sempre volentieri, credo di poter dire che siamo amici. Però darsi un appuntamento al Salone significa affrontare l'inferno in terra, attraversare a passo di corsa i padiglioni gremiti e rimbombanti, sciorinare risorse atletiche e tattiche straordinarie, e le distanze sembrano ogni giorno più infinite. Di solito con Antonello ci diamo un gancio all'NH Lingotto, l'hotel che è un po' il quartier generale del Salone, nella hall incontri chiunque; ma ieri Antonello era sceso in un altro albergo, vicino a Porta Nuova, e non ci eravamo intesi, per cui in prima battuta mi ritrovo a bussare invano alla camera 109 dell'NH e poi, appurato che la camera è quella ma l'albergo un altro, affronto una trasferta in taxi che, in tempo di Salone, è un viaggio. Raggiunta la camera 109 dell'albergo giusto, trovo Antonello che sta guardandosi la tappa del Giro d'Italia. È al Salone per presentare il suo nuovo libro «Fuori fuoco», ricordi sparsi di una vita «complicata» (lui la definisce così), ma peno gran fatica a convincerlo a parlarne in un piccolo video che mi hanno chiesto dal giornale. Antonello non lo intervisti: lui parte e parla di quel che gli passa per la mente al momento. Stavolta ce l'ha con la crisi del voto, le urne disertate, «ma ti rendi conto che milioni di persone pagano per votare a Sanremo, ma non vanno a votare alle elezioni? Sì, c'è sfiducia, disaffezione, certo, però credo dipenda anche dalle nuove abitudini, non si esce più, è come con il cinema, tutti davanti alla tv e le sale sono vuote, si è persa l'abitudine, l'idea di uscire per andare al cinema, e così anche per le votazioni, c'è una generazione di giovani che proprio non sono abituati, non conoscono la cabina elettorale, ma se si votasse da casa, al computer, scommetti che voterebbero?». Più o meno così, ma con digressioni infinite e infinite sigarette, finché non arriva l'assistente a richiamarci all'ordine, il Salone chiama. Lascio Antonello davanti alla sala Oro, dove lo aspetta il pubblico, e affronto ancora una volta la folla del sabato pomeriggio per raggiungere l'unico luogo quieto del Lingotto: la pista sul tetto. Ok, sudi le sette camicie a raggiungerla risalendo a passo a passo l'elicoidale, ma una volta in cima trovi il Salone che vorresti: aiuole lussureggianti, incontri non intasati, frescura, un bar civile dove sedersi e conversare quietamente, e alla Pinacoteca Agnelli pure la bella mostra di Salvo. Un altro Salone è possibile.
Dice: ma una simile folla - «una folla gentile», precisa la direttrice Annalena Benini - che paga un biglietto per vedere dei libri non è già di per sé una bellissima notizia? Boh, non è nuova. E sarebbe davvero bellissima se i libri oltre a vederli li comprassero tutti, sempre, Salone o non Salone. Invece sospetto il banale effetto-evento: si muovono le masse per qualsiasi salone, e anche per la Sagra del Peperone di Carmagnola. E poi per i torinesi il Salone è una festa comandata, non puoi mancare. Comunque, nota lieta, quest'anno sono aumentati gli abbonati che si sciroppano i cinque giorni al completo, eroi gentili della cultura.
Dice: il Salone non è un circo, non cerca il sensazionale, è il luogo della parola, dell’incontro, del dibattito. Della parola senza dubbio, tutti parlano senza posa, da uscirne rintronati. Incontri sì, incontri gente che conosci, siamo tutti qui. Quanto al dibattito, chi l’ha visto? Ogni evento è un compartimento stagno e sommesso: «gentile», lo definirebbe Annalena. La destra cautelosa per non sembrar fascia; la sinistra abilissima a non sembrar sinistra; pure i politici in sordina, manco si fanno vedere alla lounge del Circolo che una volta bazzicavano peggio che Montecitorio. Tutti a camminar sulle uova, e no, il dibattito no, non era preventivato. Ognuno predica ai convertiti adoranti giusto per l’oretta prescritta dai tempi cronometrati degli incontri, e poi via, avanti il prossimo, e non rimane nulla, al massimo qualche frase a effetto che durerà lo spazio di un clic online. Ma è questione di punti di vista: «Beh, non ci sono state scazzottate perché siamo persone civili», scherza l'Annalena, e aggiunge seria «il Salone è un posto dove gli animi sono disponibili al confronto gentile». Gentile è la parola chiave dello stile beniniano.
Fatto sta che l’unico straccio di notizia peperina da montarci la fuffa giornalistica per cinque giorni è rimasto l’allarmante ma non imminente progetto d’invasione ministeriale: ancora ieri ne abbiamo ciarlato al bar con il fratellone d’Italia Marrone, lui ovviamente convinto che il governo deve entrare nella struttura societaria del Salone perché se mette i soldi deve avere voce in capitolo («Lo Russo è freddo ma io spero che la concordia istituzionale lo induca a rivedere la sua posizione» auspica il fratellone, ma sta fresco, quello manco ci pensa), io altrettanto ovviamente contrario perché so che il potere romano è per sua natura screanzato e prepotente. Dopo tanto discutere conveniamo gentilmente di non essere per niente d’accordo e che se lo fossimo sarebbe preoccupante per entrambi.
Fine del dibattito, fine del Salone. E l’ultimo spenga la luce e chiuda la porta. Con gentilezza.
Tutti sorridenti e felici, leggeri e gentili per il rito di chiusura. Ma dietro le quinte devono essere volati gli stracci, per la faccenda del ventilato ingresso del ministero della Cultura nella «governance» del Salone. I privati dell'associazione Torino Città del Libro, proprietari del marchio del Salone e quindi del Salone stesso, per tre giorni hanno lasciato che i politici banfassero e dessero aria ai denti dividendosi fra favorevoli (la Regione di centrodestra e la sua emanazione Circolo dei Lettori) e contrari (il sindaco Lo Russo) e ok, adesso i banfoni protesteranno che le cose non sono così semplici e faranno distinguo poetici, ma la sostanza questa è. Sicché dopo tre giorni di banfate dei politici e relativi portavoce, domenica sera i privati hanno bruscamente ricordato ai banfoni che il Salone è per l'appunto loro proprietà privata, c'è una cabina di regia con gli enti pubblici però loro nell'organizzazione ci investono almeno 11 milioni a botta contro i due e mezzo scarsi di Regione, Comune e Stato, e non c'è nessuna «governance» in cui entrare: la «governance» sono loro e stop. Se il ministero vuole finanziare qualche progetto specifico, si accomodi, ma con loro deve parlare. Il pragmatismo dell'imprenditore contro il pressapochismo ciarlone del politico.
Sembrava morta lì, i fautori dell'occupazione ministeriale respinti con perdite (di faccia). Ma già ieri c'era chi, sottotraccia, lasciava intendere che il muso duro dei privati sarebbe foriero di cupe conseguenze, e intanto sottolineava che, con i soldi degli enti pubblici, gli organizzatori privati del Salone si pagano l'intero programma culturale, viaggi e alloggio per gli illustri ospiti e via spendendo. «Senza i contributi pubblici questi mettono su una grossa libreria e basta», si sintetizzava con ardita metafora.
Vero anche questo. Com'è peraltro vero che chi possiede il marchio di un format di successo come il Salone non durerebbe gran fatica a trovare uno sponsor, al limite un socio, interessato a rimpiazzare il contributo pubblico. Magari in un'altra città, con un centro fieristico all'onor del mondo che a Torino manca benché da anni la politica ne cianci senza costrutto.
Lo ammetto, trattasi di ipotesi estrema, tremenda e tremendista: però la Storia ci insegna che i grandi incendi nascono da piccole scintille, qualche schioppettata al confine può degenerare in una guerra devastante. Sarà il caso quindi che tutti si diano una calmata, tirino un respiro profondo e da domani ricomincino a parlarsi da personcine assennate, risparmiandosi rotture cruente, alzate d'ingegno intempestive e fughe in avanti sregolate. Rallentare conviene a tutti. Pure al sottosegretario alla presidenza della Regione Claudia Porchietto che, per giustificare il ritardo con cui si presenta alla cerimonia di chiusura del Salone, non trova di meglio che confessare tra il serio e il faceto di aver infranto ogni limite di velocità in autostrada, pur di arrivare in tempo. Bell'esempio che ci danno le istituzioni.
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