Bei ricordi: Giorgio e Francesco a Nizza, lo scorso novembre |
A edicole chiuse (correttezza innanzi tutto...) pubblico sul blog l'integrale dell'articolo che ho scritto per "La Stampa" di oggi in memoria del mio amico Giorgio Faletti. Ricordo che domani. lunedì 7, dalle 15 alle 20 (e martedì dalle 10) c'è la camera ardente al teatro Alfieri di Asti. Sempre ad Asti, martedì 8 alle 15 nella collegiata di San Secondo, si celebrerà il funerale.
Ed ecco l'articolo.
No, non lo voglio ricordare in quel letto d’ospedale.
L’immagine che mi porterò dentro di Giorgio, nei giorni che mi restano prima di
ritrovarlo per sempre, è davanti al pianoforte della mia casa di NizzaMonferrato: lui che suona e canta una sua canzone per mia madre, per
ringraziarla del pranzo buonissimo che gli ha preparato. Dispiaciuto soltanto
che il vecchio pianoforte fosse scordato.
Così era Giorgio Faletti. Un uomo innamorato della vita, dolcissimo
e buono, che amava ciò che faceva, e in ciò che faceva aspirava sempre, pur con
immensa leggerezza, alla perfezione. Che fosse scrivere un best seller da
quattro milioni di copie, o cantare una canzone per una vecchia signora.
Adesso che se n’è andato, ripenso alla nostra lunga
amicizia. Eravamo destinati a incontrarci, quasi coetanei – lui del 1950, io
del ’54 – e quasi conterranei, astigiano lui, torinese per caso e monferrino di
radici e storia io. Non sottovalutate le origini, mai. Quando Giorgio mi
raccontava della sua infanzia in riva al Tanaro, erano le stesse storie, gli
stessi ricordi, che mi porto dentro, delle estati giocate lungo il Belbo. Fiumi
della nostra vita. Ho scoperto che, da ragazzi, nostre nonne ci dicevano la
stessa cosa: che un giorno avrebbero letto i nostri nomi sul giornale perché ci
avevano presi a rubare. A quei tempi, chi non accettava il proprio destino
borghese –medico, avvocato o ingegnere - era, fatalmente, uno che l’avrebbero
preso a rubare, prima o poi.
Ma Giorgio aveva dentro il fuoco. La fuga a Milano, la vita
picaresca del cabarettista squattrinato al Derby – lui e gli altri che si
sarebbero poi presi quel mondo, Teocoli e Abatantuono e Paolo Rossi – fino alla
consacrazione di “Drive In”, nell’85. Lo guardavo in tivù, e lo consideravo un
genio: Vito Catozzo e Il Testimone di Bagnacavallo non erano macchiette per far
ridere. Erano narrazione. Narrazione pura. Aveva il dono, Giorgio. Il dono di
raccontare, di inventare mondi e farli vivere. E al dono aggiungeva la fatica,
la passione. Già allora, guardandolo in tivù, capivo che lui non era uno di
quelli che tirano via alla meno peggio. Giorgio era Tino Faussone, l’operaio de
“La chiave a stella” di Primo Levi. Il piemontese vero, con il culto del lavoro
ben fatto. Ci metteva l’anima. Sempre e comunque. Persino quando, un paio
d’anni fa, il nostro comune amico Massimo Cotto, assessore alla Cultura di
Asti, lo nominò direttore della Biblioteca Astense, lui non la prese
sottogamba: non si sentiva una “celebrity” chiamata ad un ruolo onorifico. Faceva
il direttore della biblioteca con lo stesso impegno minuzioso che spendeva nel
lavoro d’artista: che fosse scrivere, comporre canzoni, dipingere.
Non era però uno di quei perfezionisti odiosi che ti
ammorbano dandosi un sacco di arie. Si prendeva in giro, ironico con se stesso
come e più che con gli altri. Soltanto, pativa il suo essere inclassificabile.
La culturetta italiota non ti perdona, se fai bene e hai successo qualsiasi
cosa tu faccia. Giorgio è uno degli scrittori italiani più tradotti in tutto il
mondo, ha venduto milioni di copie dei suoi romanzi, e i letterati di
professione non gliel’hanno mai perdonata. Quando pubblicò “Io uccido” e volò
in testa alle classifiche, ne dissero di tutti i colori: che il libro lo aveva
scritto un altro, che era robaccia, che non sarebbe durato. E invece,
semplicemente, quel miracolo era il frutto del “metodo Faussone”. Il lavoro ben
fatto. Giorgio scriveva come i grandi autori americani di best seller. Pensando
al pubblico, costruendo storie. E soprattutto documentandosi. Un lavoro di
documentazione certosino: visitava i posti, studiava le carte, raccoglieva
dati. Scriveva con lo scrupolo di uno scienziato, e con l’allegria di un
ragazzo. I lettori capivano, e lo amavano. La repubblica letteraria italiana,
impegnata a contemplarsi l’ombelico, non glielo ha mai perdonato.
Così come i professionisti della musica leggera, e i critici
austeri, non gli perdonarono l’irruzione
nel mondo stantìo della canzone d’autore. Potevano perdonargli le
cabarettate musicali del genere di “Rumba di tango”, la canzone che cantò a
Sanremo nel ’92 con Orietta Berti: ci poteva stare, come lui altri comici – da
Bisio a Salvi – all’epoca si concedevano irruzioni pop. Ma “Signor Tenente”
proprio no. Quella era roba da cantautori impegnati, che ci faceva un giullare
in quel posto? E infatti, dopo l’emozione di Sanremo ’94, quasi nessuno recensì
lo straordinario album, uscito nel ’95, che s’intitolava “L’assurdo mestiere”.
Fu così che diventammo amici: un giorno ci incontrammo e io gli dissi che
consideravo quel disco uno dei più belli degli ultimi dieci anni. Glielo dissi
perché lo pensavo – e lo penso – davvero. Lui ne fu commosso. Non mi è mai più
capitato: mi abbracciò e mi ringraziò come se gli avessi rivelato che era
l’Imperatore della Cina. All’epoca era già il Celebre Autore di Best Seller, ma
in quel momento capii che ciò che davvero gli stava a cuore era la musica.
Penso che fosse la sua vera aspirazione. Essere accettato come musicista. Me ne
sono convinto perché in vent’anni di frequentazione non l’ho mai visto tanto
felice (e l’ho visto felice tante volte, perché era un uomo sostanzialmente e
intimamente felice), non l’ho mai visto tanto felice, dicevo, come quella volta
che Francesco De Gregori gli disse che lo considerava un grande autore di
canzoni. Lui era contento come un bambino. E a proposito di Francesco, ricordo
anche una giornata molto bella, sempre a Nizza, lo scorso novembre: De Gregori
era venuto per partecipare a un festival letterario, e Faletti arrivò da Asti con
Roberta, sua moglie, la donna meravigliosa che gli è rimasta vicina fino
all’ultimo. Erano amici, Giorgio e Francesco. Ovviamente ci trovammo a casa di
mia madre, e fu una giornata serena, bevemmo del buon vino e convinsi Giorgio a partecipare pure lui all’incontro pubblico con Francesco, e fu davvero divertente. La gente era fuori di testa, a vedere quei due insieme sul palco, a
parlare di libri e di musica. Poi andammo a cena a Mombaruzzo. Eravamo così: ci
piaceva la vita, ci piacevano le belle serate fra amici, e ci piaceva stare a
tavola nel Monferrato. Fu allora che Giorgio scoprì che mia madre è una maestra
della finanziera (un tipico piatto della cucina piemontese, di cui soltanto mia
madre conosce i segreti in grazia di Dio) e le chiese di prepararglielo, la
prossima volta. Così combinammo quel pranzo che resta il ricordo che voglio
portarmi dentro di Giorgio Faletti. Fu poco prima di Natale. Giorgio si
lamentava per il mal di schiena, che lo aveva costretto a rinunciare al tour di presentazione del nuovo disco – bellissimo, se mi permettete lo sbilanciamento critico – “Da quando a ora”. Qualche giorno dopo, mentre era in vacanza nella
sua casa all’isola d’Elba, gli avrebbero diagnosticato il tumore. E’ stata la
sua ultima battaglia. Andò a Los Angeles a farsi curare. Sembrava che ce l’avesse
fatta. Massimo Cotto, che teneva i collegamenti, mi diede in primavera la bella
notizia. La bestia era scomparsa, e Giorgio ci scherzava su. Tipico. Era
tornato ad Asti, e io non vedevo l’ora di combinare un altro pranzo a Nizza,
per festeggiare. Invece il male è ricomparso. E Giorgio l’ho rivisto soltanto
su quel dannato letto d’ospedale.
Mi sembrava di conoscerlo
da sempre. Ma forse era davvero così. Ci conoscevamo da sempre. La prima volta
che gli telefonai, un sacco di anni fa, per chiedergli di scrivere un articolo
per “La Stampa”,
non eravamo tanto in confidenza. I piemontesi ce ne mettono, per essere in
confidenza. Ma lui, appena sentì la mia voce, mi disse: “Ciao, come stai,
bell’uomo?”. E io, a parte il “bell’uomo”, capii. Lui era il mio doppio, il mio
fratello. E ho davvero fatto una fatica terribile per scrivere questo articolo.
Ma glielo dovevo. Perché è stato bello conoscerlo.
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