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LA ZUPPA DEL DEMONIO: BUONA, SANA E ITALIANA

"Signora badi ben che sia fatto di Moplen": equo compenso per chi s'è venduto il futuro distruggendo il proprio passato
Ieri sera sono andato al Cineporto per l'anteprima di La zuppa del demonio, il documentario di Davide Ferrario che da oggi potete vedere al Fratelli Marx e al Centrale. E conviene vederlo, dopo essersi tirati giù due o tre Maalox preventivi. Conviene vederlo, per togliersi ogni residua illusione che questo paese possa, prima o poi, riscattarsi. Poi decidete voi se ringraziare o maledire Ferrario e tutti i suoi compici (da Sergio Toffetti alla Film Commission, da Ogr-Crt a Microcinema) per l'acidità di stomaco che, nonostante i Maalox, vi allieterà il resto della nottata.
La zuppa del demonio è un film di montaggio che, utilizzando i materiali d'epoca conservati dall'Archivio Nazionale del Cinema d'Impresa di Ivrea, racconta l'utopia del progresso che - tra illusioni e disillusioni - ha accompagnato la storia dell'Italia del Novecento. Ferrario lo paragona alla Creatura di Frankenstein: fatto di pezzi di film morti, ritrova una vita propria; e suscita insieme orrore e tenerezza. Orrore per come in un secolo abbiamo - inseguendo il mito dell'industrializzazione inarrestabile e benefica - devastato il nostro passato, precludendoci per sempre un futuro; e tenerezza per la gioiosa incoscienza con cui abbiamo perpetrato quel crimine autolesionistico convinti - come sempre gli italiani quando delinquono - di fare il bene nostro e dei nostri figli e nipoti.
Ferrario è capace di mantenere sulla realtà uno sguardo disincantato ma sereno. "
La zuppa del demonio - spiega - è il termine usato da Dino Buzzati nel commento a un documentario industriale del 1964, Il pianeta acciaio (io ve lo linko qui: guardatelo, merita! Ndr), per descrivere le lavorazioni nell’altoforno. Cinquant’anni dopo, quella definizione è una formidabile immagine per descrivere l’ambigua natura dell’utopia del progresso che ha accompagnato tutto il secolo scorso. È questo il tema del nostro film: l’idea positiva che per gran parte del Novecento (almeno fino alla crisi petrolifera del 1973-74) ha accompagnato lo sviluppo industriale e tecnologico. Perché è facile oggi inorridire davanti alle immagini (proprio de Il pianeta acciaio) che mostrano le ruspe fare piazza pulita degli ulivi centenari per costruire il tubificio di Taranto che oggi porta il brand dell’ILVA: eppure per lungo tempo l’idea che la tecnica, il progresso, l’industrializzazione avrebbero reso il mondo migliore ha accompagnato soprattutto la mia generazione, quella nata durante il miracolo economico italiano. Per raccontare questa eccentrica epopea abbiamo deciso di evitare commenti di storici, interviste ad esperti e didatticismi vari. Abbiamo preferito andare alla sorgente, usando i bellissimi materiali dell’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea, dove sono raccolti cento anni di documentari industriali di tutte le più importanti aziende italiane. Abbiamo fatto parlare il film con le loro voci e le loro immagini, riservando al montaggio il compito di esprimere il nostro punto di vista di narratori. Quello che più ci interessava non era svolgere un discorso storico, politico o sociologico: ma provare a restituire il senso di energia, talvolta irresponsabile ma meravigliosamente spencolata verso il futuro, che è proprio ciò di cui sentiamo la mancanza oggi. Non per macerarsi in una mal riposta nostalgia: ma per capire come siamo arrivati dove stiamo ora”.
Quindi, ciascuno tragga dal film le conclusioni che ritiene giusto trarre. Io ci ho trovato straordinari spunti di riflessione. Intanto, la meravigliosa coazione a ripetere gli stessi errori, tipica del genio italiano: la prima metà del secolo corre felice verso la catastrofe istigata dal mito totalitario del progresso muscolare: un mito destinato a culminare nel disastro della guerra. E dopo la batosta, eccoci a riprendere, stavolta con una perversità quasi unica in Europa ma tipica del Terzo mondo, quello stesso modello di sviluppo, per lanciarci verso un nuovo miracolo italiano (siamo il paese dei miracoli, ogni vent'anni c'è un truffatore che ce ne promette uno) e verso una catastrofe ancor più definitiva di una guerra perduta. Nel film di Ferrario - per dire le coincidenze - si ascolta il canto d'epoca di un idiota estasiato perché per industrializzare la Puglia hanno "scavato di fronte al mare": con gli esiti che tutti, e soprattutto le popolazioni e i turisti del Gargano, hanno potuto nei giorni scorsi apprezzare.
Sempre a proposito di idioti: sono ammirevoli, nel film, i commenti dei nostri intellettuali acuti, da Marinetti in poi, che esaltano l'harakiri di un paese che avrebbe potuto vivere delle bellezze ereditate da secoli meno decerebrati; e che ha preferito invece le meravigliose "città d'argento", i monumenti di un'industria che si cala su un paese contadino spazzando via miserie e ulivi centenari (parole sempre di Buzzati, che se si limitava a scrivere Il deserto dei Tartari faceva più bella figura): regalando alle popolazioni contadine lavoro, benessere e, come alla fine s'è visto, nuova disoccupazione, nuova miseria, e molto più cancro. Al solito, l'unico che aveva capito era Pasolini, che non a caso nelle scuole italiane non viene studiato: il suo dolente capolavoro, il memorabile articolo La scomparsa delle lucciole, è doverosamente citato nel film di Ferrario. 
Alla fine della festa gli intellettuali e i giornalisti, come sempre gli intellettuali e i giornalisti, col senno di poi hanno capito tutto, e con identica sicumera hanno cominciato a predicare sulle rovine. Non prima di aver chiesto scusa, da buoni intellettuali e giornalisti politically correct: esemplare in tal senso l'autoassolutorio sermoncino di Giorgio Bocca: “Tutte le cose che adesso ci appaiono orrende, allora ci sembravano bellissime: il Natale della Rinascente, l’ingorgo, i pacchi dei regali, il panettone Motta, il consumismo dirompente. Godevamo, con pochissima ironia e molto compiacimento, di queste luci che si accendono e si spengono. Chi non ha visto (...) quegli anni non può capire la fuga a occhi chiusi verso il benessere e le radici della crisi economica e morale di oggi. (...) Ci lasciammo trascinare dalle speranze? Guardammo l’Italia con occhi troppo rosei? Probabilmente sì, probabilmente la nostra infatuazione neocapitalistica fu ingenua. Ma quel periodo (...) fu veramente particolare, felice. Era un miracolo all’italiana, ma un po’ miracolo era”. Questo nobile delirio (ho apprezzato in particolare l'immagine degli "occhi troppo rosei", sintomo di congiuntivite o di eccesso di acidi) chiude, giustamente, il film di Ferrario. Film che resta fedele all'impegno di non emettere sentenze, ma di mostrare i fatti: ovvero la felicità ebete degli italiani che negli Anni Sessanta, dopo aver distrutto il paese, passano all'incasso riempiendosi la vita di frigoriferi, automobili e villette del geometra. Un'equa mercede per un popolo privo del minimo rispetto di se stesso: e che difatti vediamo sorridere appagato per le strade delle città deturpate e lungo le autostrade del boom che uniscono un'Italia senza più padri da ricordare e senza più figli da rispettare. Il film termina con la crisi petrolifera del 1973. Non è necessario andare oltre: come sia finita, lo vediamo ogni sera in tv, all'ora del telegiornale.



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