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IL SALONE CE LO FACCIAMO DA NOI. L'ULTIMA CARICA DEL GENERALE APPENDINO

Chiara Appendino (al centro, in un riuscito travestimento) alla battaglia del Little Big Salon. Giordana è quello di spalle col fucile
Partiamo dai fatti. Ovvero la dichiarazione di madamin Appendino sul Salone, rilanciata oggi dall'Ansa: "Stiamo lavorando per un progetto importante che valorizzi la storia trentennale di una manifestazione apprezzata da tutti, e siamo disponibili ad ascoltare proposte e idee. Ma l'ipotesi che a Torino si faccia una sorta di festival culturale e a Milano la vera e propria fiera non ci va per nulla bene, non la sposeremo mai. Martedì, all'incontro con il ministro Franceschini, faremo il punto della situazione, intanto stiamo ovviamente continuando a lavorare".
Questo è quanto. E non è una dichiarazione banale. Non è ancora una dichiarazione di guerra; semmai di non belligeranza. Però contiene un messaggio netto: non mangeremo qualsiasi minestra che vorrete ammannirci, piuttosto saltiamo dalla finestra.
E allora, che cosa succederà martedì? Non ci vuole un veggente per immaginare lo scenario che si potrà aprire. Io ve lo scrivo. Consideratelo un editoriale. O un richiamo alla nostra dignità. Perché in certe storie contano anche le questioni di stile.

Come Chiara si fece il suo Salone. Un racconto possibile


Tramandano le storie che Francesco I di Francia, la sera della disastrosa sconfitta di Pavia, scrivesse alla madre: “Signora, tutto è perduto fuorché l'onore; e la vita, che è salva”.
Pochi giorni prima di un'altra sconfitta, meno cruenta ma altrettanto disastrosa, che i nostri zuavi istituzionali si apprestano a subire in quel di Roma, credo sia giusto interrogarsi su ciò che più convenga al fine di salvare quantomeno l'onore, poiché le vite non sono in pericolo e il Salone del Libro è ormai perso.

E' necessario in primo luogo sgomberare il campo da un equivoco, o meglio una pietosa menzogna che molti hanno alimentato in questi mesi di crisi irreversibile. E cioè che la crisi non sia irreversibile.
Lo hanno fatto credere, spero, a fin di bene: vuoi per non deprimere l'opinione pubblica; vuoi per illudersi di non essere davvero i protagonisti di una così lacrimevole disdetta; vuoi fors'anche perché – per gentilezza d'animo, noncuranza, o cecità – continuano onestamente a illudersi che il Salone del Libro di Torino, così come l'abbiamo costruito in ventinove anni di lavoro, possa superare anche questa tempesta, e sopravvivere.
Ecco, questo toglietevelo dalla testa. Il Salone del Libro di Torino, quel Salone del Libro, è morto. Finito. Out. Kaputt. E nulla e nessuno, tanto meno qualche dottor Frankenstein della politica, potrà mai ridargli una parvenza di vita.

Quello che si va a officiare martedì a Roma è il funerale vichingo di quel Salone che ci siamo giocati con incommensurabile stupidità. Sarà uno splendido funerale vichingo. Una bella nave in fiamme, carica di progettiirrealizzabili, promesse che non saranno mantenute, specchietti perallodole, parole al vento e impegni ipocriti. L'idea è di caricare su quella nave ciò che fu del Salone del Libro di Torino e lasciare che vada, consumandosi nel fuoco e nell'aurora, mentre gli industriosi milanesi si costruiscono la loro Fiera a propria immagine e somiglianza (per la precisione, a immagine e somiglianza di Mondazzoli).
Sulla riva, a contemplare il rogo, i torinesi in lacrime verranno consolati con il “progetto” - raffazzonato alla bell'e meglio da qualche sherpa ministeriale e qualche collaborazionista di secondo rango - di un “Salone unico” fatto della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni. E non più affidabile dell'invito a cenadi un lupo a un agnello.

Questa prospettiva – della cui fondatezza sono convinti tutti, a Torino, tranne alcuni politici che devono, per forza di cose e disciplina di partito, fingere di credere al “Salone unico” - è ineluttabile.
Ci siamo arrivati per colpe nostre, che ho più volte descritto, quindi non mi ripeterò: se non ne siete ancora convinti, o se pensate che alla fine tutto si aggiusterà e riaveremo il nostro amato Salone più bello di prima – o anche solo come prima – beh, padronissimi. Ci sono persone che credono nell'esistenza delle sirene, ma anche in alte verità di fede che la mia logica umana si rifiuta di considerare. La fede smuove le montagne, dicono; vedete un po' se resuscita anche il Salone. Restando però su un piano di razionalità, passerei oltre dando per assodato che abbiamo perso il Salone, e lo abbiamo perso per nostra insipienza.

Ciò, tuttavia, non autorizza nessuno a percularci; a darci ordini, a insegnarci a vivere, a imporci i propri comodi, o a trattarci come maggiordomi un po' cretini. Il cumenda che dichiara che si fa il suo Salone, e semmai Torino potrebbe organizzare degli eventi collaterali, vada a dare ordini alla sua servitù; il mezzemaniche che ci spiega benevolmente, come a ragazzini ritardati, che il Salone si deve fare nei giorni scelti da Milano, perché la Fiera, poverina, ha tanti impegni, non si permetta più, perché qui a Torino ce ne sbattiamo, degli impegni che altri hanno preso per noi.

A dirla in breve: se abbiamo perso la guerra, salviamo almeno l'onore. Risparmiamoci il ruolo miserabile delle popolazioni occupate che s'assiepano con falso giubilo a salutare il passaggio delle soldataglie conquistatrici. Andare a Roma a prendere ordini dai ministeri e dagli editori vincenti non servirà a salvare alcunché: il nostro pezzetto di Salone che ci prometterà quel trattato – una specie di Patto di Monaco della mutua – altro non sarebbe che una larva, un'appendice del gigante milanese destinata ben presto ad appassire e morire nell'indifferenza e nel ludibrio.

Vorrei farvi notare (perché si tende a dimenticarlo) che qui non si tratta di trovare un accordo fra pari: così sarebbe se Torino avesse avuto la malnata idea - come quando s'inventarono MiTo – di andare dai milanesi a proporre una partnership. In tal caso simili discorsi avrebbero un perché: e i futuri soci tenterebbero, a ragione, di ottenere il massimo, come sempre nelle trattative d'affari.
Ma stavolta non è andata così. C'è stata un'azione unilaterale e brutale. Giustificata dalle magagne del Salone, dalle inadempienze della politica e dalla sconsiderata sordità alle richieste degli editori: però l'esproprio è stato spicciativo e rozzo come soltanto i milanesi, quando si tratta di business. Insomma: non ci stiamo spartendo un condominio, una proprietà comune, e nemmeno si discute sui termini di una nostra volontaria donazione. No, questi ci sono entrati in casa e hanno detto che se la prendevano loro; e noi, con il cappello in mano, vorremmo trattare per tenerci almeno uno stanzino con uso del bagno di servizio.
Questo per la precisione. Ma andiamo avanti.

Io capisco il Chiampa. In fondo del Salone gli importa poco, lui preferisce il “manifatturiero”. Poi è un pragmatico. Ed è – pur fra mille riserve – un uomo di partito. Non può rovesciare il tavolo apparecchiato dal suo compagno e amico Franceschini; non può rompere con il governo; né con Milano, ultima metropoli amministrata dal Pd. Martedì tenterà di trovare un accordo onorevole, non ne dubito. Peccato che ciò sia tecnicamente impossibile. Però tenterà.
I rappresentanti del Comune non hanno gli stessi obblighi e gli stessi lacciuoli del Chiampa. Da quando in qua i cinquestelle si preoccupano di fare uno sgarbo al Pd? O al governo? Va bene che madamin Appendino è democristiana dentro, ma non esageriamo. Pertanto l'amministrazione comunale di Torino può smarcarsi; e mi auguro che lo faccia.
Voglio credere che il sindaco e Appendino, quando gli proporranno la prevedibile fregatura, rovesceranno il tavolo.
Possono farlo. Anzi, non possono non farlo. Machiavelli scrive che non è buona politica porre un uomo in condizioni disperate, perché ciò lo spinge ad azioni disperate. Ecco, questo è un caso tipico. 
Ma poi? Ammesso e non concesso che i prodi comunali mandino al diavolo Francis e i suoi coboldi, ce l'hanno un piano B? Dopo che hanno rovesciato il tavolo, che cosa succede?
La strada è una sola, e la dichiarazione di madamin Appendino la indica in maniera inequivocabile. Se ci sarà rottura - e io penso che ci sarà - Torino si farà il suo Salone. In proprio, senza aspettare viatici mondazzoliani o ministeriali. Nelle date che deciderà, nei modi e con le persone che vorrà. Non è difficile, in fondo: la struttura c'è, e solida; un direttore capace saranno pur capaci di scovarlo, e si troverà pure il modo per gestire la parte commerciale, visto che quelli di Eventualmente sono già scappati a Milano.
Insomma: se non sono soltanto chiacchiere e distintivo, Paolo & Chiara dovranno giocarsela. Almeno per marcare la differenza.

Perderanno. Anzi, perderemo. Su questo nutro pochissimi dubbi. Razionalmente, non c'è partita: il Salone di Milano oscurerà e annichilirà comunque quello di Torino. Me se morire proprio si deve, tanto vale morire da eroi, chè da vigliacchi c'è meno gusto. Lo avranno pensato anche i seicento della Brigata Leggera a Balaklava, mentre caricavano i cannoni russi. Sono morti, com'era scontato: ma li ricordano ancora adesso, e hanno fatto dei film su di loro e Tennyson gli ha dedicato una poesia molto emozionante.
D'altra parte, persino un banfone come Custer è diventato un eroe facendosi massacrare, in pochi contro tanti, al Little Big Horn. A volte una sconfitta inevitabile dà più gloria che dieci vittorie facili. Magra soddisfazione, quando ci rimetti le penne. Ma è pur sempre meglio dell'oblio e della vergogna.
E poi non è mai detto. Quando si gioca una partita il risultato non è scritto, come ben potrà testimoniare Allegri a proposito del Siviglia. Non dico che il Salone del Libro di Torino potrebbe essere il Leicester del campionato dei saloni. Però il Leicester ce l'ha fatta, e ciò dimostra che a questo mondo nulla è impossibile.

Un'azione sconsiderata ma eroica, con ogni probabilità destinata al fallimento ma, almeno, tale di inorgoglire i torinesi, sarebbe inoltre una gran mossa politica. D'immagine politica, beninteso. Spiego. Se è vero che i movimenti populisti parlano alla pancia della ggente, beh, che cosa potrebbe escogitare di meglio un movimento populista a Torino, se non un atto d'orgoglio contro un diktat milanese? Rispetto ad altre plaghe del nostro martoriato Paese, qui ha meno attecchito l'odio per il “diverso”, per l'“altro”, per lo “straniero”. Così dicono, così mi sembra, e così mi piace pensare. C'è però un'importante, fondamentale eccezione. Noi, alla lunga, tutto accettiamo e tutto ci facciamo piacere, o quantomeno tolleriamo. Ma Milano, no. Milano è un'altra cosa. Per il torinese, Milano è come l'aglio per il vampiro, il polline per l'allergico, la Juve per il granata (e viceversa). Inaccettabile, indigeribile, intollerabile.

Combinando un simile sgarbo a Milano, la giunta cinquestelle non salverà il Salone di Torino – secondo logica e con ragionevole probabilità destinato comunque alla decadenza, se non all'estinzione nel volgere di poche edizioni – però si beccherà una fraccata di applausi che nemmeno con il reddito di cittadinanza. Perché siamo fatti così. E credetemi: se il Salone ce lo prendeva Genova, ci incazzavamo molto, ma molto di meno.

Commenti

  1. Magari mi sbaglio, però mi pare che pure La Stampa stia remando per spostare il Salone a Milano. Gramellini, autore Gems, in testa. A partire dal fatto che continuano a chiamare l'AIE 'gli editori', quando ci sono tanti editori che non sono nell'AIE e non vogliono andare a Milano.
    Federico Motta ha rilasciato un'intervista su IlLibraio poi rimossa e sostituita piuttosto cafona nei confronti di Torino. Almeno avere il coraggio di dire quello che si pensa.
    Trovo tutto questo abbastanza scandaloso.

    I miei saluti,
    Viola

    RispondiElimina
  2. Guardi, a me non pare, e soprattutto non servono altri rematori, visto come sono messe le cose. Ma chieda a La Stampa, non a me. Io rispondo su ciò che scrivo, e scrivo ciò che penso. Quanto a Motta, di che si stupisce? La linea è quella: http://gabosutorino.blogspot.it/2016/09/a-ciascuno-il-suo-milano-il-salone-noi.html

    RispondiElimina

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