Marco Mathieu ha smesso di vivere ieri, vigilia di Natale, all'età di 57 anni. Era in coma dal 13 luglio 2017, quando fu colpito da un ictus a Roma, mentre viaggiava a bordo della sua Vespa.
Per me Marco è stato prima un riferimento musicale, era il bassista dei Negazione e una delle figure più influenti della scena hardcore punk degli anni Ottanta. In seguito è diventato un amico, amicizia nata in occasione di un'avventurosa trasferta in Iraq al seguito degli Africa Unite, di cui Marco in quel periodo (1994, se ben ricordo) era il road manager. E infine un collega, e ricordo come se fosse oggi il giorno quando mi annunciò che sarebbe entrato nella redazione di GQ; ed io commentai, con il sarcasmo affettuoso proprio dei nostri rapporti, che ormai questo mestiere lo facevan cani e porci; e Marco scoppiò nella sua solita, gargantuesca risata, e lo avresti riconosciuto al buio, per quella risata.
In realtà Marco aveva un gran talento, per il giornalismo come per la musica o per qualsiasi altra attività a cui si dedicasse: fece un'ottima carriera a Repubblica, e intanto scrisse anche libri, reportage di guerra ("A che ora è la fine del mondo" è uno dei migliori racconti della guerra nell'ex Jugoslavia che mi sia capito di leggere) e storie di musica e calcio, che restavano i grandi amori di Marco, cuore granata e capitano della Nazionale Scrittori.
Ieri Marco ha cessato di vivere. Se n'era già andato, dal mondo che era il suo e che non ha smesso di ricordarlo, quel maledetto giorno di luglio; e per chi lo ha conosciuto e amato questi quattro anni sono stati una straziante appendice, appena alleviata da una speranza tenue, irragionevole, ma che non s'è mai spenta, fino all'ultimo. Adesso Marco davvero non c'è più, e non mi pare possibile. E forse non è vero. Lo spirito continua.
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