Appena quattro giorni scarsi, compresa la serata d'inaugurazione alla Mole; una trentina di proiezioni al cinema Massimo; budget mai tanto risicato, 216 mila euro rispetto ai 320 mila dell'anno scorso (e cambia ben poco se il Museo del Cinema largisce l'obolo delle affissioni a proprio carico...); giurie casalinghe, composte da studenti torinesi; e ospiti generosi - tra cui Gina Lollobrigida e Achille Lauro - che intervengono gratis, per amicizia (grazie a tutti loro).
Sarà un'edizione di Lovers in formato mignon, quella che vedremo dal 22 al 25 ottobre. Ma intanto sono riusciti a farla, ed era tutt'altro che scontato. Per quest'anno va bene così. Non si poteva pretendere di più dalla direttrice Vladimir Luxuria e la sua squadra. Considerate la pandemia, la perdita di risorse del Museo, la difficoltà dei viaggi che rendono improbabile l'arrivo degli ospiti stranieri, le incertezze sull'andamento dei contagi, e considerato infine l'incombente ombra di nuove restrizioni che pesa sul destino di ogni evento con pubblico, dobbiamo riconoscere in Vladi & Co i classici ingenui che non sapendo che l'impresa era impossibile, l'hanno compiuta. Onore al merito. Hanno salvato la trentacinquesima edizione del Lovers Festival.
Ma su un punto bisogna essere ben chiari. L'emergenza tutto giustifica e molto spiega; però l'emergenza finirà. Speriamo presto, speriamo in tempo per la trentaseiesima edizione, ad aprile prossimo.
E finita l'emergenza il riferimento non sarà, non potrà né dovrà essere, il Lovers mignon del 2020. Il budget dovrà essere quantomeno reintegrato, se non aumentato, rispetto al 2019 - quando già s'era detto che ulteriori tagli non erano ammissibili. E con il ripristino di un budget dignitoso si dovrà tornare a una dimensione accettabile del Festival. Perché, diciamolo senza giri di parole, il simulacro di quest'anno è un generoso tentativo per mantenere acceso il motore, in attesa di tempi migliori. Ma non è, non è neppur lontanamente, il festival che vogliamo, che abbiamo conosciuto, che dobbiamo continuare a far crescere. Nessuno pensi di trasformare una soluzione d'emergenza in un format permanente. Non riduciamo un grande festival internazionale a un festivalino di provincia. E se non ce lo possiamo permettere, beh, pazienza: prendiamone atto, e rispolveriamo pure l'opzione dell'accorpamento, del festival unico, o dell'accidente che sarà. Chiudiamo pure la baracca, se necessario. Ma senza ipocrisie. Guardiamo in faccia la realtà. Da adulti.
Sono strasicuro che nessuno oggi accarezza progetti tanto criminali: ma è meglio mettere le carte in tavola. Che di 'sti tempi non si sa mai.
Lo scrivo qui, e approfondisco la questione nell'articolo sul Corriere di domani (che potete leggere in anteprima a questo link) perché da molto tempo ormai ho come la sensazione che ci sia un atteggiamento strano, da parte di certuni, nei confronti dei tre cinefestifal del Museo: quasi che fossero un fastidioso dovere da assolvere, e se possibile da minimizzare.
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