Madamine, il catalogo è questo: ampia scelta di principesse e dame della premiata agenzia matrimoniale "Savoia" |
Delle tre principali funzioni di un museo, quella di mostrare al pubblico le opere della collezione o delle mostre temporanee è senz'altro la più percepita dal pubblico stesso; e purtroppo spesso accade che le collezioni passino in secondo piano, e nell'opinione comune un museo diventi quasi esclusivamente il contenitore di mostre acchiappa-visitatori.
Ma altrettanto, se non più importanti, sono le altre due funzioni: conservare le collezioni e studiarle; in una parola, valorizzarle.
Una gestione museale sana riesce ad equilibrare le tre funzioni. Non trascura le mostre di grande richiamo, che non solo fanno bene al bilancio ma consentono anche al visitatore di ammirare capolavori che altrimenti avrebbe difficoltà a vedere, perché proprietà di privati o di musei non precisamente dietro l'angolo; e al tempo stesso riesce, tramite la conservazione e lo studio delle opere della propria collezione, a restituirle e rivelarle alla comunità con esposizioni che, se difficilmente possono aspirare a risultati da blockbuster, hanno comunque un significativo valore scientifico e didattico, e spesso riescono ad essere interessanti, sorprendenti e dilettevoli per chiunque, non soltanto per gli specialisti e gli studiosi.
Per alcuni anni a Torino ha prevalso la linea delle mostre blockbuster, che hanno fatto la fortuna di alcuni musei - penso ad esempio al periodo "impressionista" della Gam - con l'effetto collaterale negativo di farci trascurare le collezioni permanenti; e penso ancora alla Gam, e in particolare al neglettissimo Ottocento. Purtroppo, la forza delle collezioni permanenti dei musei torinesi è quella che è; l'ho detto più volte, e con il massimo rispetto, che gli Uffizi sono un'altra cosa.
Poi, negli ultimi cinque anni, l'esaurirsi delle risorse e le contemporanee furie giacobine anti-blockbusters dell'amministrazione grillina hanno terremotato l'intero sistema museale torinese (tranne l'Egizio, che quello non l'ammazza nessuno). La perdita di presenze è stato il primo, più evidente contraccolpo della nuova situazione. Ma, se vogliamo vedere il bicchiere mezzo pieno (esercizio che mi riesce difficile, lo ammetto), la necessità ha aguzzato l'ingegno dei direttori e conservatori di buona volontà, costretti volenti o nolenti a fare il fuoco con la legna che hanno in casa, per tamponare l'assenza delle mostre blockbuster. Ciò non poteva certo riportare nei nostri musei le grandi masse di visitatori, ma in compenso ha riportato l'attenzione sul patrimonio permanente, specie su quello di solito non visibile, conservato nei depositi dei nostri musei.
La curatrice Annamaria Bava mi spiega come parla un ritratto |
Dev'essere ben chiaro nei famosi depositi non si celano, come credono certi fini intellettuali di mia conoscenza, chissà quali capolavori; spesso si tratta di opere interessanti per gli studiosi, e pertanto degne di essere conservate, ma nessun un direttore è tanto scemo da tenere in cantina la Gioconda. Però le sorprese non mancano; e comunque opere che prese singolarmente direbbero ben poco, se collegate fra loro e messe in dialogo da un bravo curatore possono raccontare storie affascinanti, e offrire al visitatore spunti di riflessione inediti e apprendimenti inaspettati.
Queste riflessioni mi facevano compagnia ieri mattina, mentre visitavo le due nuove mostre aperte alla Galleria Sabauda e alla Gam.
Quella della Sabauda si intitola "Come parla un ritratto": qui il team curatoriale Bava-Morandotti-Spione-Villano ha selezionato - nell'ambito di un progetto didattico con l'Università - una serie di dipinti che abitualmente giacciono nei depositi della Sabauda, o sono conservati nelle sale meno visitate di Palazzo Reale. Dipinti poco visti, insomma, e poco visti pour cause, dato che - con qualche eccezione - si tratta perlopiù di opere di scarso valore artistico, lavori di pittori di corte che all'incirca svolgevano il ruolo oggi ricoperto dalle macchinette per le foto-tessera. Onesti artigiani, insomma, che assolvevano alle esigenze dell'epoca: i sovrani si scambiavano infatti i ritratti dei propri rampolli per combinare matrimoni dinastici, altri ritratti servivano a celebrare il potere, altri ancora per appendere sui muri di corte i volti di coniugi, amanti, figlioletti e amici, più o meno come noi li conserviamo nelle memorie dei nostri smartphone.
Presi singolarmente, quei quadri direbbero ben poco al visitatore comune. Invece, riuniti seguendo un filo narrativo, e ben spiegati nel catalogo e nelle didascalie della mostra, prendono vita, per l'appunto "parlano", e raccontano la Storia, ora eroica, ora grottesca come sempre la Storia, dell'ascesa dei Savoia tra le dinastie europee, e delle loro mene per raggiungere l'agognata corona reale. A questi meriti visibili al visitatore, ne va poi aggiunto un altro: l'esposizione è soltanto il punto di arrivo di un processo di studio, e talora anche di restauro, irrinunciabile per un museo. E per fortuna i Musei Reali non ci rinunciano.
"Castelfusano" di Alfredo De Andrade, ora in Wunderkammer |
In conclusione, sono molto contento che alla Sabauda e alla Gam ci siano queste due piccole mostre che meritano senz'altro una visita.
Ma sarei ancora più contento se nel futuro dei musei torinesi ci fossero anche tante mostre blockbuster (e ripeto "anche", non "invece") che creano valore aggiunto, giro economico eccetera eccetera. Ora non ci sono più scuse, prima o poi la pandemia finirà, e intanto a Torino ci sarà un nuovo sindaco e spero vivamente che il nuovo venuto metta subito la testa a partito e non si inventi qualche altra idiozia per devastare i nostri musei.
Adesso alla Gam dovrebbe arrivare quella su Fattori, prodotta da un redivivo Sole 24 Ore. Spero che accada, e che sia l'inizio di un ritorno a una gestione più equilibrata dei nostri musei. I ragazzini hanno giocato abbastanza, adesso facciamo le persone serie, please.
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