Sesso e nobiltà: la sala dedicata a Giacomo Grosso |
Dunque, "a grande richiesta" come si dice nello show business, da domani il meglio della collezione ottocentesca della Gam torna visibile con una mostra, curata da Riccardo Passoni e Virginia Bertone, alla quale la stessa transitorietà (fino al 7 aprile) conferisce il carattere dell'Evento, e in quanto tale "imperdibile". Almeno così si augurano alla Gam, dove da qualche tempo scarseggiano i visitatori, nonché le idee.
Funzionerà? Mah. Sperarlo è lecito. Intanto devo premettere che mostrare le proprie collezioni è il minimo sindacale per qualsiasi museo, e la prospettiva della prolungata chiusura del secondo piano esigeva pronte contromisure. Prima dell'estate si vagheggiava di mostre itineranti, ma intanto mi pare giusto che si cominci a esporre il patrimonio della Gam nella Gam medesima: per le tournée vedremo poi. E non dimentichiamo che l'Ottocento rappresenta la prima ragion d'essere dalla Gam, erede del Museo civico torinese fondato quasi centosessant'anni fa per accogliere - primo in Italia - quell'arte che era, all'epoca, "contemporanea".
Ciò detto, è anche vero che l'Ottocento italiano non sta al top dell'interesse del pubblico (e men che meno del mercato). Ed è un peccato, per quanto comprensibile: a parte Fontanesi e i suoi satelliti che occhieggiano all'Impressionismo, molte delle pur splendide opere in mostra appartengono a un gusto molto lontano dal nostro. Questo vale soprattutto per la pittura di genere (storico, mitologico, devozionale, e poi paesaggi, scenette bucoliche, rudi paesani e eleganti nobildonne...) specchio del sentire borghese, e sovente piccolo borghese, della nuova Italia, che agli occhi del profano d'oggi appare fatalmente datato, se non stucchevole.
Tuttavia quell'arte specchio del suo tempo ha un doppio fascino: intanto ci racconta un'epoca, i miti e gli ideali di una Nazione neonata, miti che bene o male ancora appartengono alla nostra memoria collettiva (ritrovarsi di fronte all'iconico "Pietro Micca" di Gastaldi è come incontrare una vecchia conoscenza che avevamo perso di vista...); e in secondo luogo ci fa scoprire, o riscoprire, il valore artistico - almeno in termini relativi - di opere troppo a lungo trascurate, o quantomeno date per scontate.
Poi ci sono i capolavori dei Maestri - Fontanesi, Induno, Pellizza, Cremona, e ci aggiungerei pure gli oggi troppo trascurati Delleani e Grosso - che sono, per l'appunto, capolavori tout court.
Morale delle favola: vale la pena di visitarla, 'sta mostra? Secondo me sì, perché è roba nostra, è un patrimonio della città che altrimenti chissà quando rivedremo. E poi perché, sotto quella patina un po' gozzaniana del tempo che fu, possiamo ritrovare piccoli gioielli, suggestioni fascinose, scampoli di vita. Un'arte che racconta, se volete didascalica ma fruibile da chiunque, e in tal senso davvero popolare. Di quando in quando se ne sente la necessità. Tanto non mancherà l'occasione (incombe la settimana di Artissima...) di uscire da una mostra senza aver capito un tubo ma con la convinzione di aver goduto di un alto piacere intellettuale.
Io sono stato più volte a visitare la collezione dell'800, perché è l'unica che mi interessa. L'arte del Novecento non la capisco, e anche quando me la spiegano rimango ugualmente perplesso (sebbene non sia uno di quelli che dice "Lo potevo fare anch'io"). Purtroppo qui a Torino quelli che altrove sono problemi temporanei si trascinano per anni (vedi Museo di Scienze Naturali e Galleria Sabauda, e restiamo nell'ambito dei musei sennò la lista è lunga). Se, come spesso capita per i musei, il problema sono gli spazi, perché non affittare o acquistare l'ex-palazzina della Juventus che è proprio lì accanto (la quale a sua volta è abbandonata e in preda al degrado) ?
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