Passa ai contenuti principali

LA RIVOLUZIONE NON E' UN PRANZO DI GALA: UN POST LUNGHISSIMO PER CHIUDERE LA PRATICA "LOVERS"

In marcia verso l'avvenire. Ma il Grande Timoniere e Sergio Leone ci ricordano che la rivoluzione non è un pranzo di gala
Sarà anche colpa del caldo. Non credo, ma tutto può essere, oramai. Di sicuro stiamo andando tutti di testa. Il conflitto ha preso il sopravvento sul confronto. E non mi riferisco soltanto ai fatti di piazza Santa Giulia, benché per certi versi ciò che è accaduto mi commuova: poiché da tempo immemorabile non frequento cortei sovversivi, ma mi capita talora di cenare nei dehors della mia città, mi ringalluzzisce pensare che adesso, per la prima volta dopo più di quarant'anni, ho di nuovo una ragionevole probabilità di beccarmi una manganellata in testa. La prospettiva mi fa sentire giovane e fresco come un ragazzino.
Ma ieri sera per mia malasorte non ero a cena in piazza Santa Giulia, e dunque devo rinviare il mio bagno di giovinezza ad altra occasione (che certo non mancherà, per come siamo messi) e su quella storia mi taccio. 
Ieri sera, mentre in piazza Giulia andavano in scena i favolosi Anni Settanta, io ero al cinema Massimo per la premiazione di Lovers. Finita la cerimonia - piuttosto sottotono, a mio avviso: ma non è di questo che intendo parlare - nel mio piccolo ho vissuto momenti emozionanti e ho rischiato di entrare nella storia minima di questa città come co-protagonista di qualcosa che in Italia non si vedeva più, a mia memoria, dai tempi del Futurismo: ho sfiorato lo scontro fisico per motivi "culturali".
In effetti ho avuto un'animata discussione davanti al cinema Massimo con un paio dei componenti della squadra di selezionatori che hanno affiancato la direttrice di Lovers Irene Dionisio. Avevamo punti di vista diversi sul festival e sulla sua riuscita. E la discussione si è un po' - come dire? - accalorata. Alcune anime pietose sono intervenute appena in tempo, scongiurando spettacoli imbarazzanti. E' l'ordinaria follia che sta avvelenando l'estate calda e triste di Torino.
Poi, per fortuna, dopo gli scazzi cominciano i ragionamenti. E benedetti sempre siano i ragionamenti perché allargano i punti di vista. Un poco alla volta i pezzi del puzzle vanno al loro posto, e vedi il quadro nel suo insieme. Devo dire che non è un quadro bellissimo. Però ha un senso, finalmente. Quindi provo a descriverlo.

La rivoluzione culturale dal presidente Mao all'assessore Parigi: affinità e divergenze

Partiamo da un presupposto: è in atto una "rivoluzione" del sistema culturale torinese. Non lo dicono soltanto i cinquestelle, che sono lì per questo. Me lo ripete spesso anche la Parigi, che si fa un punto d'onore di voler "togliere il tappo" e "liberare nuove energie" e "farla finita con le direzioni artistiche a vita" e rivendica con orgoglio il cambiamento in atto e aggiunge che "non è ancora finita"; e pazienza, aggiunge, se a volte in cambiamento comporta incidenti di percorso - e io penso subito al Museo del Cinema ormai allo sbando - perché alla fine, sostiene Parigi, ci sarà una palingenesi e tutto andrà meglio. 
Vasto e ambizioso programma, sulla carta condivisibilissimo; al momento, negli esiti, piuttosto accidentato. Ma si sa, il presidente Mao ci aveva avvertiti: "La rivoluzione non è un pranzo di gala; non è un'opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un'insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un'altra". 

I torti e le ragioni: dalla teoria alla realtà fattuale

Caratteristica di ogni rivoluzione è estremizzare le posizioni, spaccando il campo fra "noi" (i buoni) e "loro" (i cattivi). Ne consegue che "noi" abbiamo ragione, e "loro" torto. E nell'improbabile ipotesi che "loro" abbiano una qualche ragione, quella ragione sarebbe dettata da motivazioni poco nobili.
Purtroppo la realtà è meno netta. Per cui spesso, e di certo nella piccola e tormentata vicenda di Lovers/Tglff, il problema è che hanno ragione tutti. E tutti hanno torto. Capisco che detta così sa tanto di cerchiobottismo, ma così è. 
Chi il festival lo ha fatto, adesso ammette - magari controvoglia - alcuni errori: i più evidenti, i più esteriori, i più banali.

Errori facili da individuare: 1) il periodo

Il periodo sbagliato, questo sì. E' facile, lo capirebbe un bambino: a metà giugno la gente va al mare, non va al cinema. Semmai all'arena estiva. Antonella Parigi lo ammette. Aggiunge che lei lo ha pure detto a quelli del Comune, ma loro si sono incaponiti. E io non ho difficoltà a crederlo. E' una caratteristica di certi politici: soffrono dell'effetto Dunning-Kruger, non sanno niente ma hanno la verità in tasca e quando si ficcano nella capa un'idea non gliela togli neppure con le cannonate.
Non capisco invece perché tutti - dalla direttrice Dionisio agli assessori Giusta e Parigi, mentre la Leon si è saggiamente dileguata da mo' - riconoscono che il periodo è sbagliato, ma al tempo stesso lo staff di Lovers non ha fatto che ripetermi per cinque giorni di festival che il pubblico è rimasto all'incirca quello dell'anno scorso. Se il pubblico non è diminuito, perché quegli altri dicono che il periodo è sbagliato?

Errori facili da individuare: 2) il brand

Poi qualcuno si spinge a riconoscere che il nuovo nome fa pena: Lovers, e che vuol dire? Non dà riconoscibilità, non è identitario, molta gente non ha neppure capito che dietro quel nome inglese - che non dice nulla e a googlarlo rischi di finire sui siti porno - si cela il "vecchio" Tglff, quello che i torinesi continuano a chiamare Cinema Gay. 
La scelta del nuovo nome è stata un'operazione a freddo, forse dettata dalla volontà di marcare il cambiamento. E' il trend dell'amministrazione cinquestelle. S'è visto pure con il Torino Jazz Festival: non avendo il coraggio di cancellarlo, come avevano promesso, lo hanno dimezzato e ribattezzato "Narrazioni Jazz". Con i nomi proprio non ci azzeccano. 
D'altronde, è sempre un rischio rinunciare a un marchio, un "brand", radicato. Qualsiasi esperto di marketing lo può confermare. Quel rischio lo prendi se ne vale la pena, se ha un senso e se sei in grado di gestirlo. Non lo fai alla cazzo, tanto per fare.

Errori facili da individuare: 3) la sovrapposizione col Pride

I più eretici fra i difensori a oltranza della "rivoluzione" sono persino disposti ad ammettere che la sovrapposizione fra Lovers/Tglff e il Pride è stata dannosa. E' un'altra semplice regola di marketing: il mega evento (al Pride ci sono andati in ottantamila) non rafforza quello meno forte: lo oscura. Pure qui, torna l'analogia con "Narrazioni Jazz", festival inconsultamente abbinato al Salone del Libro e dal Salone del Libro ovviamente sovrastato e cancellato. Anche i flop si costruiscono a tavolino, volendo.

Guardiani della rivoluzione e detrattori della rivoluzione

Questi errori - o "aspetti da rivedere", come preferiscono definirli i politici che li hanno architettati, voluti e sollecitati - sono gli stessi che sottolineano anche i "detrattori" del nuovo corso di "Lovers".
I "detrattori" elencano anche altri errori. Non sto a citarli ancora una volta: una buona sintesi la potete leggere qui. Alcuni mi sembrano molto condivisibili, altri meno. Comunque le critiche poggiano su argomenti non peregrini. Però quelle critiche provengono dai "detrattori": e quindi i tifosi/organizzatori/padrini politici del nuovo corso di "Lovers" - diciamo i "guardiani della rivoluzione" - le considerano strumentali, puri pretesti per sparare sulla "rivoluzione". 
La controprova l'ho avuta in questi giorni. Di fronte alle critiche, i "guardiani della rivoluzione" in genere ribattono non sul punto specifico della critica - spesso opinabile, va da sè; però fattuale - bensì sulla fonte da cui la critica proviene: i "detrattori", appunto. Che - mi fanno notare i "guardiani della rivoluzione" - sono in genere persone che hanno perso, a causa della "rivoluzione" medesima, posizioni di potere. O rendite di posizione. O rendite tout court. Insomma, ci hanno rimesso, o sono stati/si sono sentiti esclusi. 
Non so ciò se sia vero sempre, mai o a seconda dei casi. Ma non ha importanza. Una critica può essere interessata o disinteressata: però il buon senso imporrebbe di valutarla fattualmente - ha o non ha un senso? - e non in base alla provenienza. Se qualcuno mi dice "guarda che se cammini sul cornicione rischi di cadere", io mi domando se effettivamente sto camminando su un cornicione, e a che piano sto, e se so volare; non se chi me lo dice è un amico, un nemico o un angelo vestito da passante.

Diritto di critica, libertà d'informazione e disfattismo

Ancor più grottesca è l'accusa rivolta all'informazione (ok, a me) di aver dato voce ai "detrattori". Ciò, a detta dei "guardiani della rivoluzione", ha alimentato il clima negativo attorno al festival. E' un argomento che ho riascoltato anche ieri sera, durante l'animata discussione di cui sopra.
Ciò accade in ogni situazione di conflitto e di crisi: in occasione di guerre o rivoluzioni sanguinose la diffusione di critiche agli alti comandi viene bollato come "disfattismo" e in genere conduce il disfattista di fronte a un plotone d'esecuzione. Con modalità meno cruenta, oggi si attribuisce all'informazione la responsabilità dei mali che essa racconta: a questo punto, tanto varrebbe sostenere che i terremoti sono causati dai sismografi.
Lo step successivo consiste in genere nell'attribuire all'informazione oscure complicità con i "detrattori". Con me non ci provano neppure, perché conservano un ragionevole senso del ridicolo, e a nessuno piace farsi sfanculare. Però ritengono che sia un errore dare voce ai "detrattori", in quanto - sostengono i "guardiani della rivoluzione - trattasi di voci interessate e quindi malevole; in grado peraltro di gettare discredito sulla rivoluzione, e quindi dannose per il bene comune del popolo. 
Per me questi garula possono andare a scopare il mare con una forchetta. Buona regola di un giornalismo onesto è riportare le critiche non smaccatamente inconsistenti, perché anche le critiche sono un fatto, e i fatti si raccontano. Stop. Del resto me ne fotto.
Sulla scorta di quello che ho capito, invece, secondo i "guardiani della rivoluzione" l'informazione dovrebbe valutare cosa sia potenzialmente dannoso per il bene supremo (del popolo, della rivoluzione, o più banalmente di un festival cinematografico) e mettere la sordina alle voci di dissenso - specie se "interessate". Teoria certo suggestiva, ma che in passato ha prodotto effetti collaterali non tutti commendevoli.

La radicalizzazione dello scontro e la prevalenza del cretino

La situazione è peggiorata dalla radicalizzazione dello scontro. Ieri la direttrice Irene Dionisio mi raccontava di aver subito attacchi pesantissimi e personali sui social. Non stento a crederlo. La percentuale di dieci a uno nel rapporto cretini-non cretini è un dato comune all'umanità intera, e non vedo motivo per cui dovrebbe variare nel piccolo mondo che ruota attorno a un festival cinematografico.
Ma quest'ultimo deprimentissimo aspetto di una vicenda di per sé deprimente ci introduce alla questione centrale - e in quanto centrale sottaciuta dai più - dell'intera "operazione Lovers". 

Dai difensori ci guardi iddio

Non appena, com'era prevedibile, dal pianeta maledetto dei social si sono levate le prime critiche a Lovers - e mi riferisco a quelle sensate, non agli attacchi ad personam - gli assessori Giusta e Parigi hanno fatto quadrato in difesa della direttrice Irene Dionisio. Difesa un po' di circostanza quella di Giusta, che però s'è assunto la responsabilità di aver scelto "il periodo sbagliato". Più appassionata quella di Antonella Parigi, che nel suo celebre post ha toccato i vertici del sublime con la mitica asserzione: "Se devo dire, più del numero di spettatori mi importa di aver dato l'opportunità ad una giovane e brava regista di provare". Massì, e allora fai pilotare un Jumbo Jet con 400 passeggeri a uno giovane e bravo che ha la patente nautica, così dai anche a lui l'opportunità di provare.
Ma attenzione: l'aspetto singolare di queste difese è che i critici più severi ma anche più attendibili in realtà hanno puntato il dito contro molti aspetti del "nuovo" festival, ma in genere hanno riconosciuto alla direttrice intelligenza, passione e impegno. Per cui viene da sospettare che difendere Irene sia una strategia piuttosto contorta per stornare l'attenzione dalle vere responsabilità, che sono politiche.
E nel prossimo, chilometrico capitolo vi spiego perché la penso così.

Gran pippone finale: come un alpino in Russia

Vogliamo dire che Lovers ha avuto poco pubblico? Diciamolo pure, con riserva: tanto presto avremo i dati, mi auguro attendibili.
Vogliamo dire che il programma era poco "pop", che c'erano troppi documentari noiosi e troppi film intimisti, e scarse commedie divertenti? Diciamolo pure, però non dimentichiamo che un direttore ha il diritto e direi pure il dovere di immaginare il "suo" festival; e Irene Dionisio ha immaginato un festival molto cinefilo, molto qualitativo, e magari meno "facile" che in passato. E' una colpa? Io dico di no. Irene è stata se stessa: è una regista, e quindi un'autrice, e ha creato un festival secondo la propria sensibilità autoriale. La libertà di un direttore di festival, e per di più regista, dev'essere assoluta, in campo artistico. Ci mancherebbe ancora.
Con questo, non dico neppure che affidare al direzione a una regista sia di per sé una cattiva idea. A certe condizioni, mi piace che un regista diriga un festival. Al Tff abbiamo avuto Moretti, Virzì, Amelio. Ciascuno ha dato al Tff la propria benefica impronta. Ma Moretti, Virzì e Amelio erano, giustappunto, direttori artistici. Si occupavano poco delle mille faticose, noiose, avvilenti, delicate, complesse incombenze che fanno parte della costruzione di un festival. Per quello c'era Emanuela Martini (e grazie al cielo c'è tuttora, benché ancora per poco, temo...). Emanuela Martini è una grandissima esperta di cinema. E' appassionata e intelligente. E fin qua, pure Irene Dionisio c'è. Però Emanuela Martini è anche - e mi vien da scrivere "soprattutto" - una professionista. Professionista della direzione di festival.
Lorsignori, che pretendono di tutto sapere e tutto decidere, devono ficcarsi in testa una buona volta (l'ho ripetuto mille volte e mille volte lo ripeterò) che nel mondo normale esistono gli specialisti. Gli esperti. Coloro che sanno ciò che fanno. 
E anche organizzare un festival è un LAVORO. Un mestiere con regole e tecniche proprie. Specifiche. Che si apprendono con la gavetta, con l'esperienza, cominciando dal basso per arrivare ai vertici. Come qualsiasi altro mestiere al mondo. Organizzare festival non è un hobby, non è un'appendice di qualche altro lavoro, non è che "tipo" fai il regista e allora per forza sai dirigere un festival; sennò io che faccio il giornalista dovrei "tipo" fare bene anche il rotativista, l'editore, l'edicolante e lo strillone. Ciascuno di noi, salvo leonardesche eccezioni, sa fare bene un solo mestiere. Il suo.
E se chiami un regista a dirigere un festival anziché un film, devi dargli il supporto necessario per operare con serenità. Devi coprirgli le spalle, tutelarlo. Irene Dionisio invece è stata messa lì e mandata allo sbaraglio come gli alpini in Russia, scarpe di cartone e moschetto 91 e il consiglio di vendere cara la pelle.
Con poco tempo, pochi soldi, e scarsi appoggi, sia interni che esterni, Irene s'è dovuta confrontare con una realtà devastata e devastante, difficile da gestire persino per un vecchio lupo di festival. Figurarsi per una giovane donna di trent'anni alla sua prima esperienza in un settore così difficile e irto di spine.
Immagino che qualcuno di lorsignori abbia voluto approfittare del marasma che regna al Museo del Cinema per mostrare i muscoli e cambiare l'aria ("aria fresca! aria fresca!"). Cambiare pur di cambiare, per certificare la propria volontà e potenza di cambiamento. Sono convinti, lorsignori, di avere sempre e comunque ragione, e che basti un tratto di penna, un editto, un'ordinanza, una nomina, una regia investitura, per forgiare la realtà secondo i propri voleri. Ma nella realtà dei fatti non funziona così, a meno che non si disponga di ampi gulag. E manco quelli alla lunga bastano. La realtà non fa sconti, e se ne fotte dei piccoli cesari che la vorrebbero asservita alle loro misere burbanze.
La vicenda di Lovers è lì a dimostrarlo.
Il cambio di direzione al Tglff non è stato indolore, e  tanto meno condiviso. Ha creato lacerazioni, risentimenti, disinganni. Lo strappo era inevitabile, come sempre quando muta qualcosa che è rimasto troppo a lungo immutato. Andava fatto, non dico di no. Ma subito dopo lo strappo urgeva la ricucitura. 
Si dovevano recuperare i dissidenti, rassicurare i nostalgici, rabbonire i trombati, riannodare i legami spezzati, lisciare gli stakeholder. C'era una comunità da riconciliare, coinvolgere, motivare. 
Ai tempi della rivoluzione francese il problema degli scontenti che si ritenevano in qualche modo danneggiati o delusi dalla rivoluzione fu risolto con il ricorso alla ghigliottina. Oggi si suggerisce il ricorso alla diplomazia, alla mediazione. 
Quello - anche quello - è il lavoro di un direttore professionista. Non un direttore artistico, che può non esserci portato o non averne voglia; bensì una figura di governo. Con l'autorevolezza, le relazioni, la credibilità e l'abilità necessarie per capire che sotto il festival s'era innescata una bomba a orologeria. La bomba orologeria che sempre s'innesca in certe situazioni: la fatidica frase "lascia che corra, prima o poi va a sbattere". 
Vi pare brutto? Vi pare ingeneroso? Benvenuti sul pianeta Terra. Lo so che a Papalla è diverso, purtroppo qui non è Papalla, qui ci sono solo esseri umani: magari vi parranno piccoli, meschini, incattiviti, maligni. Ma uomini siamo, non papallesi. E Papalla è lontana.
Nessuno ha disinnescato la bomba. 
Farlo era il compito d'un direttore d'esperienza, attrezzato per la bisogna. In mancanza, quell'opera di diplomazia - direi anzi di politica nel senso migliore di arte del possibile, di capacità di superare barriere e abbattere muri - sarebbe toccata al presidente, oppure al direttore, del Museo del Cinema: ma il presidente del Museo del Cinema aveva altri guai per la testa, e il direttore semplicemente non c'era. Irene è stata lasciata sola, seduta sopra la bomba a orologeria.
Dite che c'è anche un presidente di Lovers? Non siate ipocriti. Minerba è stato cacciato dal suo trentennale scranno di direttore, non se n'è andato sua sponte e cantando uno yodel di felicità. Malgré soi, ha interpretato il ruolo di presidente per quello che è nella sostanza: un maldestro tentativo di spacciare un diktat per una scelta consensuale. Nella migliore delle ipotesi una consolazione, un'onorificenza, l'orologio in similoro che l'azienda una volta ti regalava quando ti mandava in pensione. Soltanto Irene Dionisio credeva, o fingeva di credere, in una sorta di "direzione condivisa".
Minerba non s'è immischiato, perché riteneva - e ritiene - che immischiarsi non rientri nelle prerogative della sua presidenza biennale. Fa presenza quando deve fare presenza, ma non si permette di mettere lingua. Né lo vuole.
C'era un'altra possibilità, per Irene: appoggiarsi allo zoccolo duro del festival, alla squadra che lo ha pensato e realizzato per tanti anni e che lo conosce alla perfezione. Ma bisognava cambiare, no? Dare opportunità a giovani talenti, no? Aria fresca!, ripetevano lorsignori, aria fresca! Nulla può fermare i figli della rivoluzione. Quindi Irene ha cambiato la squadra, e i pochi veterani rimasti in servizio non sono stati utilizzati al meglio. Loro, logicamente, non si sono dannati per dispensare consigli non richiesti. 
Morale: Irene Dionisio ha fatto, nel periodo sbagliato e con un rebranding discutibile, un festival nuovo, di non facile presa sul pubblico, e inviso per vari motivi a significative componenti della comunità che si riconosceva nel vecchio Tglff. Mancava soltanto uno squadrone di seicento cavalleggeri da guidare alla carica contro i cannoni di Balaklava.
Quella di Irene è stata una scelta coraggiosa, non discuto. Ma l'arte della politica insegna - leggetevi Machiavelli, ragazzi, leggetelo e rileggetelo... - che quando si va alla guerra bisogna stare "in su la golpe e in su'l lione": occorre essere scaltri, oltre che coraggiosi. E ricordate le parole dell'arcivescovo Turpino a Orlando, nella gola di Roncisvalle: "Viltà non è l'ardire che ragiona, e la misura val più che il coraggio". Orlando non diede retta a Turpino, non suonò il corno per chiedere aiuto, così entrò nella leggenda. Ma ci rimise la pelle. E con lui Turpino e gli altri compagni, che magari avrebbero avuto preferenza di no.
Nessuno ha disinnescato la bomba. 
I rancori si sono esacerbati. La comunità del festival si è divisa. I sospetti reciproci hanno alzato i muri. E nel pieno del festival la bomba è esplosa, gettando Irene e i suoi nello sconforto e creando attorno a Lovers un "sentiment" (visto che l'inglese se voglio lo so usare anch'io?) per niente positivo. Non dico che ciò abbia allontanato il pubblico. Ma quando le cose cominciano ad andare male, è probabile che continuino andando peggio. E' una delle leggi di Murphy, di lì non si scappa.
Trasformare il Tglff in Lovers era di per sé una sfida complessa e rischiosa. La direttrice ha lavorato con rigore e coerenza, costruendo un festival non brutto - almeno a parer mio - epperò difficile, per niente piacione. Poteva funzionare a condizione che il pubblico si sentisse coinvolto, e si sentissero coinvolte tutte le componenti della comunità che per trent'anni è stata l'humus del Tglff, sostenendolo con solidarietà. 
Indipendentemente dai numeri - che pure contano - ho purtroppo avuto l'impressione che il clima di solidarietà attorno a Lovers non si sia ricreato. Non è scattata la scintilla.
Questa, lo so, non è un'analisi scientifica. E' una sensazione. Ma per me vale più delle accuse e difese che ho letto e ascoltato e riferito nei giorni scorsi, e che ancora mi assediano. Il fatto stesso che tante accuse e tante difese abbiano accompagnato l'esordio di Lovers è, di per sé, un fallimento. Un giocattolo - magari vecchio e usurato - è stato rotto, e quello nuovo non ci ha fatti sognare. Questo è quanto. 
Però non addossate ogni responsabilità a Irene Dionisio; neppure con il pretesto di difenderla. Avrà pure commesso degli errori, come li commette ogni essere umano. Ma se è intelligente - e non ho motivo di dubitarne - può ancora correggersi, previo pellegrinaggio alla Madonna dell'Umiltà.
Ho meno fiducia, invece, nel ravvedimento operoso di chi - per leggerezza, supponenza, noncuranza o eccessiva baldanza - dall'alto degli scranni del potere ha creato i presupposti di un risultato che, comunque lo si legga, impone per il futuro serie riflessioni, e oneste autocritiche.

Commenti

Post popolari in questo blog

L'AFFONDAMENTO DELLA SEYMANDI

William Turner, "Il Naufragio" Cristina Seymandi Tanto tuonò che piovve. Sicché posso abbandonare, almeno per un post, la spiacevole incombenza di monitorare i contraccolpi dell'emergenza virale. La storia è questa. Ieri in Consiglio comunale un'interpellanza generale ( qui il testo ) firmata pure da alcuni esponenti grillini o ex grillini, ha fatto le pulci a Cristina Seymandi, figura emergente del sottogoverno cinquestelle che taluni vedono come ideale continuatrice, a Palazzo Civico, del "potere eccentrico" di Paolo Giordana prima e di Luca Pasquaretta poi . E che, come i predecessori, è riuscita a star sulle palle pure ai suoi, non soltanto a quelli dell'opposizione. L'interpellanza prendeva spunto dell'ultima impresa della Seymandi, la mancata "regata di Carnevale" , ma metteva sotto accusa l'intero rapporto fra costei, Chiarabella e l'assessore Unia, di cui è staffista. Alla fine Chiarabella, nell'angolo, h

LE RIVELAZIONI DI SANGIU: "GRECO NON HA DECIFRATO LA STELE DI ROSETTA". E ADESSO DIREI CHE BASTA

È una storia da dimenticare È una storia da non raccontare È una storia un po' complicata È una storia sbagliata Cominciò con la luna sul posto E finì con un fiume di inchiostro È una storia un poco scontata È una storia sbagliata La ridicola pantomima è finita com'era cominciata, sempre con un tizio che giudica un egittologo senza sapere un cazzo d'egittologia. Il fratello d'Italia laureato in giurisprudenza Maurizio Marrone pontifica che Christian Greco è un egittologo scarso , e - dopo una settimana di silenzi imbarazzant i, strepiti da lavandaie e minchiate alla membro di segugio  blaterate da una scelta schiera di perdigiorno presenzialisti e critici col ciuffo - un altro fratello d'Italia, il giornalista Gennaro Sangiuliano, sancisce che no, Greco è "un apprezzato egittologo" benché - sfigatone! - "non abbia decifrato la stele di Rosetta" (questo è un capolavoro comico, non siete d'accordo?).  Il presidente della Regione Cirio s'a

RIAPRE IL MUSEO REGIONALE DI PERCULATE NATURALI

Ma che te tagli? Tanto rumore per poca sostanza “Oggi riapriamo finalmente uno dei luoghi più amati dai piemontesi. Siamo orgogliosi dei risultati, il 2024 è l’anno della rinascita del Museo Regionale di Scienze Naturali che torna a essere fruibile per cittadini, turisti, scuole e associazioni”. Non t'allargare, Alberto: chi si loda s'imbroda. Se non riportasse alla memoria ricordi sgraditi all'anima centrodestrista, la dichiarazione corretta a proposito dell'asserita "riapertura" del Museo Regionale di Scienze Naturali sarebbe piuttosto "ce n'est qu'un début, continuons le combat".  Ieri il Museo non è stato "riaperto": semplicemente (e lo racconto, con sapidi dettagli, nell'articolo di oggi sul Corriere ) s'è trattato di una paraculata pre-elettorale, per cui sono state inaugurate - con gran tagliamento di nastri e tour d'elefanti - tre sale di quello che, chissà quando, sarà il rinnovato Museo Regionale di Scienze Nat