La figlia di Gipo Farassino, Valentina, stamattina pubblica sulla sua pagina Facebook un post (https://www.facebook.com/notes/valentina-farassino/25-aprile/10152124984042989) che considero un bel ricordo di suo padre, e un modo non banale per celebrare la giornata del 25 Aprile. Quindi, piratescamente, me ne approprio e lo riproduco qui sotto. Grazie Vale
Il 25 aprile, a casa mia è sempre stata una giornata strana.
Papà era sempre malinconico.
Quando io e Cate alle elementari preparavamo disegni e letterine che ci dava da fare la maestra per festeggiare l'anniversario della Liberazione italiana, lui ci incoraggiava, anche se i suoi occhi erano segnati dalla tristezza.
Solo molti anni dopo, ho scoperto il perché di quella malinconia.
Oggi lo ammiro ancora di più per non averci mai raccontato la sua verità quando eravamo bambine e vivevamo in un mondo felice e quasi perfetto, almeno dal nostro punto di vista.
Oggi 25 aprile 2014, posto un suo scritto che si intitola "Vincenzina" (mia nonna) e non posso fare a meno di rivedere quegli occhi malinconici. Oggi lo capisco profondamente e, su tante cose su cui posso essere in accordo con lui, c'è una frase che voglio citare e che credo mi rappresenti molto.
Credo rappresenterà anche molte delle persone che leggeranno:
"la vita è porca, dà le carte e ti obbliga a giocare. Qualcuno s’illude di poter barare. Idiota. L’unica, sarebbe di strappargli di mano il mazzo e ridistribuire le carte a tuo piacimento. Sarebbe bello, troppo bello." (cit.)
Da parte mia un pensiero a mio nonno Alessandro, che ho conosciuto attraverso i racconti di papà.
VINCENZINA
Insonnia schifosa! Ti giri e rigiri in un letto come un animale. Tenti di prendere sonno, vuoi avere sonno, forse ce l’hai pure il sonno. Niente. Nervi a fior di pelle, sensibilità acuita al massimo. Capti fruscii, scricchiolii mai avvertiti prima. La pendola del vicino che batte i quarti, le mezze ore, le ore diventa un frastuono insopportabile. Ad occhi chiusi, nell’attesa della fine del mondo, visioni migliaia, milioni di fotogrammi visti e rivisti. Sono i filmati di una vita con tutti gli errori, gli sbagli, i fallimenti e le pochissime cose positive. Alla fine, eccolo che ti assale: è il film più temuto, quello che non vorresti assolutamente rivedere, ma che inesorabilmente ti penetra nelle vene. E’ il grande rimpianto, il rimorso, la tragedia che oggi come oggi potresti forse evitare, perlomeno correggere, modificare. Esamini tutte le varianti, le possibilità che avresti potuto cercare, mettere in atto, tentare. Un senso d’annientamento totale ti sprofonda alla fine nel vuoto del sonno rigeneratore. Ma un attimo prima di piombare nel buio, hai ancora la forza di formulare una domanda: “Esiste un destino, un Fato, un Dio che preordina il tutto per ognuno di noi ? Se sì, chiamalo destino, Fato o Dio o come vuoi, sarebbe la cosa più ignobile che uno possa immaginare. Quindi, non è possibile, né accettabile; è solo una questione di culle: se nasci in quella giusta avrai tutto lo splendore del meglio, se nasci in quella sbagliata ti toccherà tutta la schifezza del peggio. Evidentemente Vincenzina, sua madre aveva beccato una culla fra le più scadenti.
La madre Caterina, donna chiatta e larga come un chiosco di giornali, aveva la concessione di un banco al popolare mercato di Porta Palazzo. Vendeva verdure, con particolare predilezione per i carciofi. Per questo tutti la chiamavano “ Ninin ‘d ij articiòch “,che tradotto potrebbe essere “Nina dei carciofi.” Con quel soprannome e il fisico che si ritrovava, il giorno che decise di farsi una famiglia sua, non poté assolutamente contare sul beneficio della scelta e beccò il primo tonno che cadde dall’albero, per innalzarlo a Principe Consorte. Era un materassaio dal carattere violento, scartato alla visita militare perché non raggiungeva l’altezza minima di un metro e cinquantadue richiesti per l’arruolamento. Si difendeva affermando che anche Vittorio Emanuele Terzo era alto un metro e cinquanta e che nella botte piccola sta il vino buono. Infatti, con il vino aveva molta confidenza e nessuno riusciva a capire se era violento perché era ubriaco o se si ubriacava perché soffriva della sindrome di Toulouse Lautrec a causa della sua statura. Caterina partorì due figli, Pietro e Vincenzina, che allevò alla meno peggio, compatibilmente con il suo lavoro in piazza che la impegnava dalle cinque del mattino alle tredici, ora in cui rincasava per affrontare il suo impegno di casalinga e di madre. Fino a quell’ora, i figli rimanevano affidati alla solidarietà dei vicini. In quel mondo di case a ringhiera con i lunghi ballatoi carichi di panni stesi, su cui si affacciavano piccoli alloggi di un paio di camere, con un unico cesso al fondo d’ogni balcone, i figli crescevano da soli, in una sana promiscuità, sotto l’occhio vigile di mamme e nonne che trovavano naturale badare anche ai figli degli altri. Sul piccolo marito non poteva fare nessun affidamento, poiché quando Giuseppe non era impegnato nel suo precario lavoro di materassaio, invece di occuparsi dei figli preferiva bruciare i pochi spiccioli che aveva in tasca, nelle bettole del quartiere. Ma Caterina a modo suo, teneva un occhio puntato nel futuro in cui intravedeva un minimo d’emancipazione. Volle che i figli Pietro e Vincenzina frequentassero la scuola, perlomeno fino alla terza elementare. In un tempo in cui l’analfabetismo raggiungeva quote dell’ottanta per cento, ottenere la licenza di terza elementare voleva comunque dire saper leggere e scrivere.
Vincenzina amava la scuola, ma terminata la terza elementare, la grossa madre Caterina, dal pulpito dei suoi centodieci chili sentenziò: “La terza è più che sufficiente per la nostra famiglia. E poi è meglio un asino vivo che una scienza morta! “Che cosa avesse voluto dire con le sue lapidarie parole è facilmente immaginabile. Di fatto, Vincenzina lasciò a malincuore la scuola e si trovò ingaggiata come commessa di un banco di scarpe al mercato di Porta Palazzo. Aveva nove anni e con la sua statura non ce la faceva a superare il banco di quel tanto che le desse modo di servire adeguatamente la clientela, ma l’oculato padrone fece costruire una pedana alta cinquanta centimetri, che consentisse a Vincenzina di muoversi nel migliore dei modi e a lui di sfruttare convenientemente il lavoro di una creatura di nove anni. Ma Vincenzina non si curava di certe cose, probabilmente neanche le avvertiva. Amava quel suo lavoro che in qualche modo la poneva al centro dell’attenzione. Tutti, infatti, notavano quella figurina che a dispetto dell’età riusciva ad attirare clienti, li serviva, incassava i soldi e dava il resto con naturale disinvoltura. In un paio d’anni, quella piccola commessa diventò un personaggio noto a tutti i clienti e frequentatori del popoloso mercato rionale. Arrivarono anche, alla famiglia, offerte di lavoro da parte di commercianti con bottega, ma la grossa Caterina, in uno dei suoi rarissimi momenti d’amore materno, stabilì che sarebbe stata la ragazza a decidere se cambiare o no il padrone. A quindici anni, Vincenzina operò la sua prima scelta: accettò un vero impiego come vendeuse da Ormea Bovo, uno dei più stimati negozi di stoffe della città e a diciassette, così, per caso, come si legge nei romanzi incontrò l’amore.
Alessandro era il terzo di cinque figli immigrati con i genitori da Vercelli, zona prettamente agricola, distese a non finire di risaie. Ma il padre aveva poca dimestichezza con la campagna. Bell’uomo, alto, con gli occhi azzurri, era stato firmaiolo in cavalleria e finita la ferma aveva preferito la vita civile, dedicandosi al commercio di cavalli. Con i suoi occhi azzurri e l’aria spavalda da domatore di puledri, aveva fatto colpo su una giovane figlia di modesti bottegai, una donna mite, tutta casa e famiglia, con la quale convolò a giuste nozze mettendo ben presto in cantiere cinque figli nel breve spazio d’otto anni. Il notevole ottimismo del capofamiglia non fu premiato. La crisi delle campagne del primo novecento, l’avvento della prima guerra mondiale, i prodromi del fascismo, crearono insicurezza, miseria e smarrimento nell’animo delle genti semplici di campagna. La paura di non farcela a tirare avanti la baracca, spinse il padre d’Alessandro a liquidare i pochi averi raggranellati in anni di sacrifici e a traslocare con tutta la famiglia a Torino, città di fabbriche che apparivano come balie opulente, agli occhi di chi non possedeva altro che la speranza in Dio, la compattezza di una famiglia numerosa e una cultura fondata sul lavoro. Tutti trovarono bene o male una sistemazione decorosa: il capofamiglia come magazziniere alla Venchi Unica, il primo dei tre figli maschi, un “ ragazzo del 99 “ con la testa calda, che già si era arruolato negli Arditi per dare il suo contributo alla guerra, seguì le squadracce di Mussolini nella “ Marcia su Roma “ e a fascismo insediato, ottenne uno scranno nella corporazione dei panettieri. Il secondo, seguendo la vocazione religiosa partì missionario in India. Il terzo, Alessandro aveva la passione per la musica e non potendo contare sull’appoggio economico della famiglia, per dedicarsi allo studio fece domanda e fu accettato nell’Arma dei Carabinieri Reali dove, a spese della Benemerita frequentò il liceo musicale interno e conseguì il diploma di violino. Fu questo giovane carabiniere che incrociò la strada di Vincenzina. L’uomo, elegante nella sua divisa, parve alla ragazza un autentico Principe Azzurro. E in effetti lo fu, perché anche lui s’innamorò di quella giovane Cenerentola con gli occhi dolci.
I due decisero che appena finita la ferma d’Alessandro nei carabinieri, si sarebbero sposati.
Ma la decisione non fu affatto presa con entusiasmo dai genitori di Vincenzina. Il chiosco di giornali e il nano bevitore si sentivano terribilmente a disagio. La figura di quel carabiniere evocava immagini mai prese in considerazione fino a quel momento. Avvertivano come uno strappo tra la vita sperata, i sogni di Vincenzina, e la realtà della loro povera esistenza tenacemente ancorata alla palude dell’ignoranza e della rassegnazione. La coppia mise in atto ogni forma di dissuasione: dallo sberleffo alla denigrazione, dall’insinuazione velenosa alla calunnia, con il solo risultato di ferire l’anima della ragazza e nello stesso tempo di temprare ogni giorno di più, la sua voglia d’indipendenza e la fiducia nell’uomo dei suoi sogni. Perché Vincenzina era felice. Finalmente qualcuno le parlava dolcemente, le offriva il braccio per strada e la domenica la portava a fare un giro in carrozza al Valentino. Alessandro era più di quanto aveva sperato e insieme con lui faceva progetti, contando i giorni che li separavano dalla fine della ferma. Gli innamorati, come previsto, si sposarono e Vincenzina saltò sul treno del suo futuro. A consolidare la sua felicità, giunse il primo figlio, un maschio. Erano i leggendari anni 30, Alessandro otteneva degli ottimi ingaggi da orchestre alla moda: Balocco, Barzizza, Manuel De Serra, Angelini; tutto pareva andare per il verso giusto. Alessandro però, era uno con i piedi per terra ed intuiva che tutta quell’euforia, quel successo, quel senso di benessere erano solo una faccia della medaglia e temeva che prima o poi la medaglia avrebbe mostrato l’altra faccia: una faccia ben diversa. Vincenzina, al contrario era felice. Aveva tutto ciò che poteva desiderare: il suo Principe Azzurro, un figlio, un tenore di vita piccolo borghese che la ripagavano di quanto aveva sofferto prima del matrimonio. Diceva ad Alessandro: “ Penso che non sia giusto preoccuparsi quando le cose stanno andando nella giusta direzione. E’ di malaugurio!” Ma le intuizioni del marito si dimostrarono purtroppo vere. Le cose cambiarono e drasticamente. Il 29 Settembre 38, a Monaco di Baviera ebbe luogo la storica “conferenza di Monaco, dove si tentò, invano, di evitare la guerra. Il 22 Maggio 1939 a Berlino, il Conte Ciano e il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop siglarono il “Patto d’Acciaio” e da quel momento gli italiani si ritrovarono, volenti o nolenti, legati mani e piedi ai “Cameraten” tedeschi. Il primo Settembre Hitler sferrò l’attacco alla Polonia dando inizio alla devastante seconda guerra mondiale.
Gli eventi precipitarono: Alessandro fu richiamato alle armi e destinato ad un mandamento di provincia. Ovviamente, dovette interrompere ogni attività civile, quindi il suo lavoro di musicista. La famiglia si trovò improvvisamente in ristrettezze finanziarie, ma Vincenzina era una donna forte e non si perse d’animo. Cercò e trovò un impiego da commessa che le consentì di tirare avanti alla meno peggio, nella speranza che fossero vere le voci del “ Minculpop” che davano l’eventuale guerra come una passeggiata, che Mussolini avrebbe compiuto trionfalmente. Il sacrificio era grande: la lontananza dal marito, la preoccupazione per il figlioletto di sei anni che doveva forzatamente affidare alla sorveglianza dei vicini nelle ore in cui lei era al lavoro, il pochissimo riposo, incominciarono ben presto a fare scattare il campanello d’allarme per la salute della donna. Vincenzina ebbe un attacco, per fortuna leggero d’angina pectoris. Il medico raccomandò assoluto riposo: figuriamoci! In quella situazione, l’unica cosa possibile era di raccomandare l’anima a Dio. Ma tutti sanno che Dio è troppo sovente distratto. Infatti, il colpo di grazia venne di lì a poco. Il 10 giugno 1940 il Duce dal suo balcone di Piazza Venezia annunciò ad una folla esultante la sua tragica dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra e due giorni dopo, il 12 giugno, i francesi pensarono bene di compiere la loro prima azione di guerra con un bombardamento, il primo in assoluto, proprio sulla città di Torino. Due bombe colpirono in pieno la casa di Vincenzina, che rimase fortunatamente viva ma imprigionata con il figlio, in un improvvisato rifugio: le cantine dello stabile. Fu un altro colpo alla malferma salute della donna.
La casa, seriamente danneggiata fu dichiarata pericolante e agli inquilini fu ordinato di trovare una sistemazione provvisoria, nell’attesa che il Genio Civile e la proprietà eseguissero lo sgombero delle macerie e decidessero le misure necessarie al restauro e alla sicurezza. Senza casa, con il pericolo d’altri probabili bombardamenti Vincenzina riparò, come unica soluzione possibile a Vercelli in frazione Cappuccini paese d’origine del marito, ospite di parenti mai conosciuti prima.
La situazione si stava facendo drammatica. Lontana dalla sua città, lontana dal marito, con il figlio che proprio quell’anno avrebbe dovuto iniziare la scuola elementare, senza mezzi di comunicazione, isolata in un ambiente estraneo, anche se caritatevolmente accogliente, si rese conto che stava entrando in una dimensione surreale in cui tutto appariva ovattato, lontano; i contorni delle cose, delle persone, anche le più amate diventavano ogni giorno di più, sfumate, trasparenti. Dopo quaranta giorni di quella vita sospesa nel nulla, Vincenzina s’alzò un mattino di buonora, raccolse le poche cose che rappresentavano i suoi averi, prese il figlioletto per mano e salì sul primo treno per Torino. Pensò che era meglio morire sotto le bombe che consumarsi a fuoco lento aspettando la fine. Giunta a Torino, salì su un altro treno e arrivò a Poirino, il piccolo centro di provincia in cui Alessandro prestava il suo servizio militare. La gioia di riabbracciare il suo uomo, le infuse una carica d’energia e d’intraprendenza eccezionali; in 24 ore trovò una famiglia che accettò di prendere a pensione il figlio, che sarebbe comunque rimasto sotto il controllo del padre e ritornò a Torino, dove fortunatamente poté riprendere il suo lavoro di commessa presso il negozio di stoffe, uscito indenne da quei primi bombardamenti. I lavori di ripristino del suo appartamento erano iniziati e le fu data la speranza che nell’arco di tre, quattro mesi avrebbe ottenuto un minimo d’abitabilità. Com’emergenza, tornò alla sua vecchia casa d’origine, dalla grossa Caterina.
Seguirono alcuni mesi che potevano dare l’illusione di una quiete ritrovata. Vincenzina lavorava tutta la settimana attendendo con ansia il sabato sera quando, terminato il lavoro, avrebbe preso il treno per andare a trascorrere qualche ora con il figlio ed il marito. Alessandro, come richiamato alle armi aveva ottenuto il privilegio di lavorare in fureria, dove maturò l’idea di apprendere un nuovo mestiere: quello del consulente contabile, che gli avrebbe consentito, terminata la guerra di avere una valida alternativa alla sua professione di musicista. Nel frattempo aveva fatto domanda di trasferimento a Torino, che se fosse stata concessa gli avrebbe dato modo di riunire la famiglia. Vincenzina non vedeva l’ora di poter rientrare a casa sua, con i suoi cari. La sua speranza era purtroppo confortata solo dalle preghiere e dalle notizie che i giornali pubblicavano, sulle enormi probabilità che il Duce avrebbe avuto di portare vittoriosamente a termine la guerra. Manco a farlo apposta, il 28 Ottobre 1940 Mussolini regala al mondo un'altra prova della sua ingenuità dichiarando guerra alla Grecia: una guerra inutile, ancorché assurda, con il tragico risultato di mandare al massacro migliaia di poveri ragazzi, fra cui gli Alpini della divisione “Julia”. Un mese dopo, Alessandro ottenne il trasferimento a Torino con la possibilità di riunire la sua famiglia. Lavorava in fureria, alla caserma Podgora e come sedentario gli fu accordato il permesso, insperato, di fare un orario d’ufficio; perciò la sera poteva cenare con la famiglia e dormire a casa. Vincenzina tornò a sorridere e sperare, in quell’accettabile situazione, di vedere presto la fine dell’orribile guerra. Alessandro aveva nel frattempo continuato il suo corso per consulenti contabili ed aveva convinto Vincenzina ad accostarsi a questa nuova attività “ Perché – diceva – a guerra finita, se mai finirà, si potrebbe avviare un’attività di consulenze per le piccole aziende” Un lavoro comodo, che si sarebbe potuto esercitare anche nella propria abitazione e che avrebbe potuto essere una notevole integrazione finanziaria alla sua professione. Vincenzina, naturalmente accettò con entusiasmo. L’idea di poter lavorare al fianco del marito, in un’attività “ di concetto” le mise in corpo una carica tale di ottimismo che in breve tempo fu in grado di portare avanti, da sola, tutte quelle mansioni necessarie all’amministrazione ordinaria di una piccola azienda. Quest’attività, a quel tempo era poco diffusa ed incominciarono ad arrivare proprietari di piccole aziende, che avevano capito che affidando a consulenti esterni la conduzione delle loro attività, si sarebbero liberati di quelle pastoie burocratiche per le quali non erano tagliati e che intralciavano il loro lavoro produttivo. Vincenzina pensò che forse, per la sua famiglia stava arrivando un po’ di calma. Certo, c’era la guerra, ogni tanto bisognava precipitarsi nei cosiddetti “ Rifugi antiaerei” per sfuggire alle incursioni notturne, ma se non altro la famiglia era riunita.
Il marito era presente la sera e la notte, il figlio aveva iniziato la scuola elementare e anche la sua salute andava un po’ meglio, sotto il controllo di un cardiologo che grottescamente le aveva raccomandato di “evitare le emozioni”. Evidentemente era scritto che la Storia dovesse viaggiare al contrario delle sue aspettative.
Il 7 Dicembre 1941, senza preavviso alcuno il Giappone attaccò e distrusse la base navale americana di Pearl Harbor. Nello sgomento generale, incastrato nell’Asse Berlino-Roma-Tokio, Mussolini dichiara guerra all’America. Alessandro comprese che sarebbe presto arrivata la reazione dell’America. Decise, con Vincenzina, che appena il figlio avesse terminato la scuola sarebbe stato prudente lasciare la grande città, sicuramente prossimo obiettivo di pesanti bombardamenti. Pensarono che sarebbe stato saggio tornare a Poirino, dove avevano avuto l’opportunità di fare qualche conoscenza durante la ferma d’Alessandro. Logisticamente la località distava solo 25 chilometri da Torino; sarebbe stato comodo sia per Alessandro, che ovviamente sarebbe rimasto in città, sia per Vincenzina che avrebbe potuto saltuariamente tornare a casa sua. Riuscirono ad avere in affitto una stanza sufficientemente grande, presso una cascina, dove trasferirono parte del mobilio della casa di Torino. Il figlio avrebbe frequentato la scuola del posto, il prossimo anno. La decisione fu oltremodo saggia. Iniziarono le incursioni americane con massicci bombardamenti, in particolare nei mesi di Novembre e Dicembre 42 che colpirono le fabbriche Fiat, Lancia, Riv e altre di minore importanza, oltre a molte civili abitazioni, con enormi danni e moltissime vittime fra la popolazione. Nella relativa quiete della provincia, Vincenzina, nel Gennaio 43 diede alla luce il suo secondo figlio, una femmina. Quella nascita portò una gran gioia a Vincenzina e Alessandro, che non potevano immaginare quanto terribile sarebbe stato quell’anno per le loro vite. Vincenzina, a causa degli spaventi subiti non poté allattare la neonata. Il medico disse che aveva il latte acido e avrebbe potuto procurare un’ulcera alla figlioletta. Iniziò per lei e i figli un altro periodo di duri sacrifici. Scarseggiavano enormemente i viveri essenziali per una civile sussistenza.Tutto era tesserato e mentre tanta gente, soprattutto quella di città tirava la cinghia, molti contadini compresi quelli che ospitavano Vincenzina, intuirono che ci si poteva arricchire lucrando sulla fame degli altri, con il famigerato commercio clandestino della “borsa nera”. Si poteva trovare di tutto, pagando “ il giusto prezzo.” Un uovo costava cinque lire, il prezzo di una gallina; pane bianco, olio, latte, burro e tutto ciò che era alla base della vita stessa, fu decuplicato nel prezzo. Vincenzina, aveva dovuto forzatamente interrompere il lavoro di consulente.
Alessandro era a Torino, in caserma tutto il giorno e compiva salti mortali lavorando la sera e la notte, per non perdere quei pochi clienti che assicuravano un minimo mensile per la sopravvivenza dei suoi cari. I proprietari della cascina Boasso che ospitava, naturalmente a pagamento, gli “sfollati”non potevano negare di avere il latte, perché per entrare in casa si doveva obbligatoriamente passare davanti alla stalla gremita di mucche e quindi, bontà loro, concedevano il latte per nutrire la piccola, ad un prezzo decente. Per tutto il resto, inventavano ogni giorno scuse nuove: la produzione era scarsa, la campagna produceva sempre meno, si dovevano rispettare le opzioni dei negozianti. La verità era, che da buoni ipocriti e spietati commercianti, non osavano applicare i prezzi della borsa nera a quei poveri inquilini sfollati. Non vendendo a loro, placavano le voci delle loro coscienze e riempivano sempre più il portafoglio. Semplice. Per contro, Vincenzina doveva, tre volte la settimana spingere la carrozzina, con dentro la bambina, fino ad una cascina più disponibile, distante due chilometri, che non essendo legata da scrupoli di conoscenza, forniva quel minimo consentito dal borsellino della famiglia. Per fortuna a tante necessità provvedeva il figlio maschio, che nonostante la giovanissima età era precocemente cresciuto e aveva capito tutto. Stabilì che rubare ai ladri non è peccato e ogni giorno rincasava con legna, verdure, conigli, galline; un giorno arrivò a casa persino con una capra che fu subito ritornata al legittimo proprietario, per le ovvie ragioni. La vita, pur tra mille difficoltà andava comunque avanti. Alessandro, ogni tanto otteneva un piccolo permesso di 24 ore e arrivava a Poirino per rivedere moglie e figli, portando quasi sempre brutte notizie. Sui vari fronti, le forze dell’Asse subivano ogni giorno perdite disastrose, continuavano le incursioni aeree su Torino e la fine della guerra sembrava sempre più probabile, ma nessuno sapeva ipotizzare il prezzo che avrebbero dovuto pagare gli italiani. Il dieci di Luglio si sparse improvvisamente la notizia dello sbarco americano in Sicilia e forse per festeggiare l’evento, gli stessi americani il 13 Luglio colpirono Torino con il più terribile bombardamento dall’inizio della guerra. Fabbriche e case civili distrutte. Il numero dei morti fra i civili fu agghiacciante. Il 19 Luglio un altro bombardamento, addirittura su Roma. Fu una costernazione nazionale perché Roma era stata dichiarata “Città aperta”. Probabilmente questo doppio crimine affrettò la caduta del fascismo. Il 25 Luglio 43 il Duce, che si era recato in udienza dal Re a Villa Savoia, fu arrestato dai Carabinieri Reali.
Il 3 Settembre 43, a Cassibile fu firmato lo storico “Armistizio” dal Generale Castellano, per l’Italia e dal Generale Smith, su delega d’Eisenhower, per gli Alleati; ma l’annuncio ufficiale fu dato solo l’8 Settembre scatenando, com’era logico il furore dei tedeschi.
Il 9 Settembre, al grido di “Coraggio ragazzi, scappiamo” il Re, Badoglio e gli “Alti Papaveri” lasciarono Roma, di notte come i topi, senza impartire ordini alle truppe, favorendo di fatto, il loro sbandamento. La risposta dei tedeschi non si fece attendere. Il 10 Settembre 43 occuparono Roma e in sostanza l’Italia del Nord, dove diedero il via ad atti di ferocia inaudita. Basti com’esempio la strage di Boves, piccola cittadina del Piemonte in cui il 19 Settembre le S.S. al comando del Maggiore Peiper, si scagliarono improvvisamente sulla popolazione trucidando donne, bambini, sacerdoti senza un motivo plausibile; poiché se era vero che nella zona operavano formazioni partigiane, era pur vero che fino a quel momento non avevano compiuto nessun’azione ostile ai tedeschi. Il 12 Settembre, Mussolini prigioniero a Campo Imperatore, fu liberato dai paracadutisti tedeschi. Portato a Vienna e subito dopo a Monaco di Baviera, il 18 Settembre 43 annunciò la nascita della Repubblica Sociale Italiana. Nello stesso periodo a Brindisi, dove si era stabilito il Re Vittorio Emanuele III si costituì il cosiddetto Regno del Sud che il 13 Ottobre, in seguito alla pressante richiesta degli Alleati dichiarò guerra alla Germania.
Questa ridda d’avvenimenti, così importanti, nel breve arco di sei mesi costituì la base dell’impalcatura su cui si sarebbe consumato il dramma di Vincenzina.
Con la fuga del Re, la proclamazione del Regno del Sud e della Repubblica Sociale Italiana, i tedeschi che nel frattempo avevano occupato Torino consegnarono nelle varie caserme tutti i carabinieri in circolazione ritenendoli, secondo una logica militare schiacciante, dei traditori, perché “Carabinieri Reali” quindi fedeli a quel Re che da Brindisi, aveva dichiarato guerra alla Germania. A loro fu offerta una scelta: aderire alla Repubblica. L’alternativa era semplice: chi non accettava, veniva caricato su vagoni piombati in partenza per la Germania con lo stato di”Prigioniero di guerra”. Alessandro era uno di quei tanti Carabinieri Reali. Vincenzina vedeva un futuro nero come il carbone. Malandata di salute, due figli uno dei quali aveva un anno di vita, la guerra che invece di finire continuava e per di più su due fronti, uno esterno e l’altro interno e come ciliegina sulla torta la prospettiva di perdere il marito in un campo di concentramento tedesco. Pregò, implorò Alessandro di riflettere a fondo sulla situazione, gli suggerì una terza via: scappare in montagna con i partigiani. Ma Alessandro aveva la sua personalità e un senso forse smisurato dell’onestà. Affermò che era un carabiniere, certo non si sentiva più “ Reale” dopo la fuga del Re, che secondo lui avrebbe dovuto aspettare l’ingresso degli americani in Roma e arrendersi cavallerescamente come il Duca d’Aosta all’Amba Alagi, ma non si sentiva di agire o combattere contro la sua gente e il suo Paese. Aveva perso troppi amici sui vari fronti: in Grecia, in Africa, in Russia e lui si era salvato solo perché era troppo vecchio per essere inviato al fronte, quando era scoppiata la guerra. Aveva visto troppi morti innocenti fra i civili, sotto i bombardamenti francesi, inglesi, americani e non si sentiva di schierarsi dalla parte di quelli che fino a ieri tutti consideravano “nemici della Patria”. Sicuramente, anche per ragioni di “spazio-tempo”, non aveva letto Oscar Wilde che definisce l’amor di patria una condizione mentale per idioti, ma una prima decisione l’aveva presa: la Repubblica o la Germania. Una sorta d’accettabile compromesso gli fu offerta da un certo Besveglieri, suo vecchio amico, anche lui carabiniere e musicista, conosciuto ai tempi dell’Accademia. Era stato incaricato dal Comando Repubblicano di allestire una banda musicale il cui compito sarebbe stato quello di suonare la domenica mattina, al cinema Corso, prima e dopo la proiezione di lungometraggi di guerra. Nei restanti giorni della settimana, tutti i musicisti avrebbero svolto un lavoro sedentario inframmezzato a prove d’orchestra. Alessandro accettò e Vincenzina tirò un lungo respiro dopo giorni d’interminabili tensioni.
I primi mesi del 44 furono mesi d’attesa. Vincenzina comunicava con Alessandro per mezzo di lettere che erano recapitate al marito dalla figlia dei padroni di casa, impiegata a Torino e aspettava con ansia il Sabato, giorno in cui la ragazza tornava a Poirino per il fine settimana, recando la lettera di risposta. Alessandro, ogni quaranta giorni otteneva il solito permesso di 24 ore e arrivava a Poirino portando notizie sullo stato della guerra, che nonostante i trionfalismi italiani e tedeschi, sembrava ogni giorno di più avvicinarsi alla disfatta. Il 22 Gennaio 44 gli Alleati erano sbarcati ad Anzio e nonostante fossero stati fermati dalle linee difensive, create dallo stratega Kesselring a Montecassino, erano riusciti a sfondare il fronte il 18 Marzo, quando un contingente polacco era entrato nel Santuario devastato. Subito dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, risposta tedesca all’attentato dei G.A.P in Via Rasella, Radio Londra ascoltata giornalmente dalla famiglia della Cascina Boasso, aveva incominciato a trasmettere notizie su un’imminente grand’offensiva degli Alleati. Offensiva che si concluse il 4 Giugno 44 con la conquista di Roma. Lo stesso giorno gli Alleati sbarcarono in Normandia, con un concentramento di forze aeree e navali inimmaginabili. A quel punto tutti compresero che la fine della guerra era alle porte.
Vincenzina prese un’altra delle sue decisioni: volle tornare a Torino e convinse Alessandro che quella sarebbe stata una decisione giusta. Avrebbero anche cambiato casa, scegliendo un appartamento più grande con una camera per i figli ed un’altra per svolgere convenientemente il lavoro di consulenze contabili. Lei, avrebbe portato avanti l’ufficio con la supervisione del marito. Fu così. Appena il primogenito terminò la scuola, alla fine di Giugno 44, Vincenzina partì per Torino con i suoi figli e per la terza volta ricongiunse la famiglia.
Torino non presentava certo un clima rassicurante. Oltre il pericolo, sempre incombente, di bombardamenti aerei, erano iniziati in città gli atti di sabotaggio per opera dei G.A.P. Nel mese di Marzo vi erano state numerose azioni della squadra comandata da Pesce detto “Visone”, ex combattente nella guerra di Spagna. Per arginare gli attacchi della Resistenza, il 26 Luglio 44 fu costituito, per volere di Pavolini, il raggruppamento delle Brigate Nere, come “Unità antipartigiana”.
Vincenzina si rese conto della situazione e per prima cosa badò a sistemare il figlio, in modo che non corresse pericoli durante la giornata. Lo iscrisse come semiconvittore al Collegio S. Giuseppe dei Fratelli Cristiani. In questo modo il ragazzo sarebbe stato dal mattino alla sera sotto la tutela di validi insegnanti, in un Istituto dotato di rifugio antiaereo. Avrebbe così potuto vivere senza eccessive apprensioni per le incursioni aeree che ormai avvenivano anche di giorno, dato che la contraerea italiana era quasi inesistente. Mise in funzione la sua nuova casa e iniziò subito ad organizzare il lavoro per l’ufficio. Prese a lavorare dal primo mattino fino a tarda sera quando, dopo aver messo a letto i figli, poteva concedersi un meritato riposo. Era soddisfatta della situazione e aveva una sola speranza: che finisse quella maledetta guerra per vivere in pace nel suo ruolo di madre e di sposa.
Il 1944 si chiuse con la “Battaglia delle Ardenne”: I tedeschi riuscirono, per un po’ di tempo, ad arginare l’avanzata degli Alleati verso la Germania, ma dovettero inevitabilmente soccombere sotto la supremazia numerica. Con la pressione angloamericana da Ovest e quella russa da Est, ebbe inizio la fine del Terzo Reich.
A prendere le strade delle montagne erano ormai eserciti di persone, considerate con disprezzo dai primi partigiani che avevano affrontato fatiche disagi e privazioni in mesi e mesi di vita alla macchia. Pare che i partigiani iscritti nelle liste dell’A.N.P.I. nel 1945, fossero a fine Febbraio, circa 8.000 su tutto il NordItalia. Diventarono 130.000 il 15 Aprile, milioni a fine Aprile.
Vincenzina aveva tristi presentimenti, soprattutto per Alessandro che dopo lo sciopero generale del 18 Aprile, era consegnato in caserma in “attesa di decisioni”. Lei, come tutti, viveva in sostanza tappata in casa con i figli. Il 20 Aprile, gli avvenimenti precipitarono. I partigiani calavano a frotte dalle montagne; Occuparono Cuneo, Asti, Saluzzo. Le divisioni Susa e Lanzo si attestarono alle porte della grande città. La mattina del 25 Aprile, la popolazione di Torino fu svegliata da scoppi di bombe e crepitare di mitragliatrici. I fascisti e i tedeschi ancora di stanza a Torino, si trincerarono nel quadrilatero G. Ferraris, XX Settembre, Arcivescovado e Vittorio Emanuele, in attesa di un accordo con i comandi Alleati e partigiani. La mattina del 28 Aprile l’accordo fu raggiunto e lasciarono Torino e Piemonte in direzione della Germania. In città iniziarono i selvaggi “Giorni dell’ira”. Violenze ed orrori inauditi da ogni parte, fucilazioni ad ogni angolo di strada, impiccagioni ad ogni albero della città. Assieme a Brigate Nere, fascisti, cecchini e tedeschi che non erano riusciti a mettersi in salvo, furono trucidate centinaia e centinaia di persone: per sbaglio, per vendetta, per sentito dire, perché assomigliavano a qualcuno. Lo stesso giorno, a Milano, Mussolini, la Petacci, Pavolini ed altri gerarchi, furono appesi cadaveri per i piedi, esposti allo scherno e ludibrio della popolazione inferocita. La spaventosa catena d’orrori, terminò soltanto il Primo Maggio 1945 con l’ingresso delle truppe Alleate in città. La guerra era finita, ma la sorte aveva stabilito che per Vincenzina, la guerra dovesse continuare.
Il 25 aprile le formazioni partigiane occuparono le caserme di Torino che non opposero resistenza. Tutti i militari che si trovavano in caserma, furono posti in stato di fermo per accertamenti e ad uno ad uno furono passati al setaccio da una speciale commissione partigiana. Alessandro era uno di quei tanti fermati. Quando venne il suo turno, espose dettagliatamente la sua posizione, e poiché non risultò in sostanza nulla sul suo conto, tranne l’essere stato un elemento della banda musicale ausiliaria, gli fu chiesto se come ex carabiniere, fosse disposto a collaborare con il servizio d’ordine partigiano, vista la situazione da O.K. Corral che incombeva sulla città. Alessandro accettò di buon grado; gli ridiedero le mostrine da carabiniere e lo comandarono con altri ex, a pattugliare la città al fine di evitare tafferugli o peggio ancora, episodi di giustizia sommaria. La mattina del 28 Aprile uscì dalla caserma Bergia di Piazza Carlina, come uomo libero di un Paese liberato da un Regime durato più di vent’anni. Il minimo che potesse fare un uomo che era marito e padre e da più giorni non aveva potuto comunicare con la famiglia, fu di trovare un telefono e comunicare sue notizie alla moglie. Le disse che avrebbe onorato l’impegno che gli era stato affidato, dopo di che avrebbe fatto una visita a casa per poi ritornare in caserma per la notte. Vincenzina si sentì sollevata da quell’incubo che la opprimeva da giorni; disse ai figli che la Madonna aveva ascoltato le sue preghiere e le aveva fatto la grazia di restituirle il marito. Alle sedici del pomeriggio ricevette un’altra telefonata di Alessandro, che l’avvisava di essere per strada e che tempo mezz’ora al massimo, sarebbe arrivato a casa. Vincenzina e i suoi figli passarono quell’ultima mezz’ora alla finestra del quinto piano. Videro Alessandro che arrivando salutava con la mano, ma all’improvviso accadde un fatto, sul momento incomprensibile da quella distanza: gente che gli correva incontro ed una voce di donna che urlava al suo indirizzo “prendetelo, impicchiamolo, era un pezzo grosso della Repubblica.” Vincenzina intuì che stava per succedere l’ennesimo tragico scambio di persona ed incominciò ad urlare richieste d’aiuto, ma la tragedia stava per seguire il suo corso. Tutto accadde in pochi minuti. A fianco di quel capannello di esagitati che circondavano Alessandro, si fermò un autocarro con le sponde ribaltate dal quale scesero quattro partigiani armati fino ai denti; il fazzoletto rosso al collo li qualificava appartenenti alle Brigate Garibaldi. I quattro, capitanati da un tracagnotto che portava un Machine-Pistole appeso al collo ed una grossa rivoltella in mano, si fecero largo fra i presenti e dopo un attimo di esitazione, diedero il via al linciaggio. Incominciarono a colpire il malcapitato con calci e pugni, un compare prese il fucile per la canna e si diede ad usarlo come una clava. Per tentare di sottrarsi a quei colpi, Alessandro si arrampicò sul pianale dell’autocarro. A quel punto si udì il primo sparo di fucile, che lo colpì al braccio sinistro e subito dopo un colpo di rivoltella che lo raggiunse, forse di striscio, alla testa. Alessandro cadde riverso sul pianale dell’automezzo, seguito dal piccoletto, che come colpo di grazia gli fu sopra e fece partire due scariche di quella “Sega-Hitler”, una in pieno viso e l’altra al corpo.
Tutto questo sotto gli occhi e le urla di Vincenzina e dei suoi figli, inchiodati alla finestra. Di Alessandro non si seppe più nulla.
Dopo quella tragedia Vincenzina ebbe l’ennesimo collasso, sedato fortunosamente da un medico che abitava nello stabile, con ripetute iniezioni di cardiotonici. Quando si riprese, seppe dai vicini che dopo quell’esecuzione sommaria, i quattro erano risaliti sull’autocarro ed erano ripartiti, portandosi appresso il corpo del marito. Qualcuno che aveva assistito al dramma sosteneva che Alessandro era morto. Altri che era soltanto gravemente ferito e che i quattro erano partiti di fretta e furia per portarlo all’ospedale Mauriziano. Nonostante l’assurdità di quest’ultima versione, per Vincenzina spuntò un tenue filo di speranza al quale si attaccò con tutte le sue forze. In questo stato d’animo passò la notte. Il giorno dopo, quasi a rincarare la dose, piombarono in casa gli autori del linciaggio: ubriachi fradici, armati fino ai denti, pretendevano di trovare in casa fantomatici documenti che, a loro parere, avrebbero dovuto fornire la prova che Alessandro era responsabile d’azioni compiute a danno di formazioni partigiane. Ai pianti e alle esortazioni di Vincenzina, i quattro rispondevano con truculente minacce; il tracagnotto, che doveva essere il Capo, raggiunse il colmo dell’infamia puntando una rivoltella alla testa della piccola figlia di due anni, dichiarando che se non saltavano fuori i documenti “ facciamo fuori anche questi, come abbiamo fatto con il padre”. A quel punto i nervi di Vincenzina crollarono. Cadde in ginocchio e abbracciando i due figli disse: “Allora ammazzateci tutti e tre. Almeno la facciamo finita!” Questo estremo gesto di madre, dovette riaccendere un barlume di ragione nel cranio di quelle bestie che desistettero da quel supplizio e si allontanarono con oscure minacce.
Fu soltanto dopo avere controllato in tutti gli ospedali e pronto soccorso improvvisati, e soprattutto dopo che in città si stava lentamente tornando ad un livello accettabile d’ordine e civiltà, che Vincenzina ottenne un breve colloquio con il comando partigiano che si era insediato alla Caserma Bergia, ultima sosta conosciuta d’Alessandro. Le suggerirono la cosa più semplice e razionale da fare in un caso come il suo: chiedere informazioni al Cimitero Generale. Apprese che le salme di tutte quelle persone, vittime di regolamenti di conti, giustizie sommarie, vendette e tragici equivoci, avvenuti in quei “Giorni dell’ira” venivano trasportate al cimitero, dove per legge e per ragioni di salute pubblica, al fine di evitare eventuali epidemie, venivano sepolte in una parte del cimitero denominata “Campo F” che stava per fascisti. Per le poche salme sulle quali erano stati rinvenuti documenti d’identificazione, erano state convocate le relative famiglie; per la stragrande maggioranza dei non identificati, prima dell’interramento erano stati prelevati ad ognuno di loro, piccoli lembi di vestiario che avrebbero potuto consentire l’identificazione a coloro che la richiedevano. Per questi ultimi, per comprensibili difficoltà logistiche ed organizzative, non era purtroppo possibile ottenere informazioni dettagliate sul dove erano stati interrati. Vincenzina, com’era da immaginare, trovò un ritaglio di camicia a righe che inequivocabilmente apparteneva ad Alessandro e fu così che ebbe la prova certa della morte del marito. Ma dovette aspettare fino a Novembre prima di ritrovare la salma d’Alessandro, presenziando a centinaia d’esumazioni eseguite giornalmente, per un massimo di venti fosse.
Nelle grandi città era ancora alta l’euforia per la fine della guerra e da ogni parte continuavano le manifestazioni di giubilo con celebrazioni a favore della resistenza. Come in preda ad un contagio collettivo, non c’era persona che non dichiarasse di avere partecipato alla lotta antifascista e c’era da chiedersi dove fossero finite le moltitudini che fino al giorno prima inneggiavano a Mussolini e al fascismo. Ma è noto che “il popolo corre sempre in soccorso dei vincitori”
Economicamente, il Paese si stava preparando alla grande ricostruzione ma nel frattempo il fenomeno “borsa nera” resisteva e l’idea di un rapido arricchimento stava gonfiando i prezzi in modo spropositato. Generi alimentari, capi d’abbigliamento e “caro affitti” stavano toccando limiti proibiti per la maggior parte della popolazione, allo stremo delle risorse dopo cinque anni vissuti nelle ristrettezze a causa della guerra.
Vincenzina aveva capito che dopo tutto quello che era franato sulla sua famiglia e per i tempi che correvano, l’unica cosa da fare era il tuffarsi, anima e corpo nel lavoro. Ora, era lei l’unico punto di riferimento per i suoi figli. S’impose un rigido orario d’ufficio ed organizzò una distribuzione nelle buche delle lettere, di un volantino ciclostilato che offriva la “consulenza libri paga e matricola e contributi vari”, nel tentativo di accrescere la clientela. Il tentativo riuscì fin troppo bene; in poco tempo arrivarono piccole aziende artigiane, meccaniche e commerciali, in numero tale da rendere necessaria l’assunzione di una giovane impiegata, per svolgere con tranquillità la considerevole mole di lavoro. Aumentava il lavoro, ma di pari passo aumentavano le spese. Vincenzina doveva fare i salti mortali per riuscire a far quadrare i conti ogni fine mese. Alla preoccupazione finanziaria ed ai problemi per la sua salute si sommavano le apprensioni per i figli, soprattutto per il maschio, che dopo la morte del padre aveva decisamente cambiato carattere.
Era diventato taciturno, chiuso in se stesso; aveva smesso di frequentare l’oratorio e la domenica mattina usciva da casa dicendo di andare a messa, ma per la verità se n’andava in piazza d’armi a giocare a football fino l’ora di pranzo. Anche a scuola non andava bene, e più volte erano arrivate alla madre, lamentele scritte da parte degli insegnanti: segnalavano che era un rissoso, attaccabrighe, che le rogne andava a cercarsele anche dove non c’erano. Vincenzina cercava di capire, discretamente teneva d’occhio quel figlio che a lei sembrava più che tranquillo, aveva sempre i libri in mano; ma se la povera donna avesse osservato meglio, avrebbe scoperto che non erano libri di scuola. Il ragazzo leggeva Salgari, Jack London e altri romanzi che pescava nella libreria che era stata del padre. Vincenzina, come unico sfogo parlava con una fotografia d’Alessandro appesa dentro una cornice, su una parete dello studio; gli chiedeva di aiutarla, di consigliarle la via giusta, di darle la forza per tirare avanti. Purtroppo i quadri non parlano e soprattutto non sono in grado di dare consigli.
Verso la fine del 46, l’amministratore dello stabile comunicò che dal primo Gennaio 47 il canone d’affitto sarebbe stato portato a mille lire mensili, cifra esorbitante per quel tempo e in particolare per le entrate di Vincenzina. A malincuore prese una drastica decisione: avrebbe rinunciato a quell’alloggio per uno più modesto e a Giugno, con la fine dell’anno scolastico avrebbe tolto il figlio dal Collegio San Giuseppe. Trascorsero anni di grandi fatiche. Vincenzina viveva praticamente segregata in casa, dal mattino alla sera tappata in quel suo ufficio. Avrebbe avuto bisogno di due o tre persone che la coadiuvassero nel tanto lavoro che s’era impegnata a svolgere, ma conti alla mano non poteva permettersi che una sola collaboratrice in ufficio e una donna ad ore, che le tenesse in ordine la casa e provvedesse a preparare il pranzo per i figli. La femmina, col passare degli anni, si era fatta una signorina molto dolce ed intelligente che amava lo sport e frequentava, con ottimi risultati il liceo linguistico. Il maschio invece continuava a preoccuparla non poco. La madre riceveva dagli insegnanti, continue comunicazioni di biasimo sul comportamento del figlio. Provava, quando poteva, a discutere con il giovane che si stava facendo uomo, ma non riusciva a capirlo. Quando gli chiedeva il perché del suo modo di vivere ed agire, il figlio le ribaltava di centottanta gradi il discorso e chiedeva a lei, come madre, di spiegargli il perché della sua nascita, della perdita del padre, dell’attuale condizione della famiglia, della distruzione di quelli che erano stati i suoi punti di riferimento: la famiglia, la Patria, le tradizioni. Se lei, credente fervente, non sapendo più cosa rispondergli tirava in ballo la “volontà di Dio, ” quel figlio rispondeva che “Dio è un’invenzione delle chiese per privare l’uomo della libertà e autodeterminazione.”
Questi confronti finivano per causare a Vincenzina stati di confusione, per superare i quali si rifugiava nella preghiera e la notte parlava con il ritratto d’Alessandro. Giungeva poi sempre alla solita conclusione: quel figlio che lei amava disperatamente, non aveva colpe. Le sue ribellioni, il tenore blasfemo di certe asserzioni, la sua visione nichilista di quanto lo circondava erano la conseguenza di una vita vissuta all’impiedimento, una girandola di distruzioni e di svalutazione dei valori supremi. Ma di una cosa era certa: quel figlio ricambiava il suo amore e avrebbe sicuramente trovato la sua strada giusta.
Tra le preoccupazioni per i figli, il suo lavoro e la totale mancanza di prospettive, Vincenzina finì per trascurare completamente la sua precaria salute. Inevitabilmente arrivò il primo duro infarto. Fu ricoverata in ospedale e il responso degli esami effettuati, fu lapidario: un blocco alle coronarie. Erano tempi in cui la cardiochirurgia muoveva i primi passi e gli interventi di by-pass, se esistevano erano riservati a pochissimi privilegiati e l’assistenza sanitaria era ancora al di là delle grandi conquiste; basti dire che il mondo aveva appena scoperto la penicillina. Uscita dall’ospedale, non poté nemmeno permettersi una decente convalescenza, poiché il lavoro pressava e lei era l’unica persona in grado di mandare avanti l’ufficio. I pochi sprazzi di felicità li ebbe dai suoi figli, quando entrambi trovarono finalmente la loro strada. Gli infarti si susseguirono sempre a più brevi scadenze e l’ultimo la colpì una notte di Marzo.
Svegliò il figlio che dormiva nella stanza accanto alla sua. Questi capì subito la gravità della situazione e telefonò immediatamente ad un servizio di pronto soccorso. Quando l’autoambulanza arrivò era ormai troppo tardi.
Vincenzina morì quella notte, lei così credente, senza neanche il conforto di uno straccio di prete.
Inutile chiedersi: “Ma è vita, questa?” La risposta è possibile solo se si considera la vita un viaggio obbligato. Si nasce, non per nostra volontà. S’inizia un viaggio che non termina quasi mai per nostra volontà. Solo a volte. Termina per sopraggiunto capolinea, per caso, per sfortuna, per mano d’altri e per chi crede per mano di Dio. C’è chi il viaggio lo paga per intero, chi lo paga a tariffa ridotta, chi non lo paga per niente e chi lo paga anche per gli altri, proprio come Vincenzina. Conclusione: la vita è porca, dà le carte e ti obbliga a giocare. Qualcuno s’illude di poter barare. Idiota. L’unica, sarebbe di strappargli di mano il mazzo e ridistribuire le carte a tuo piacimento. Sarebbe bello, troppo bello.
Gipo
Il 25 aprile, a casa mia è sempre stata una giornata strana.
Papà era sempre malinconico.
Quando io e Cate alle elementari preparavamo disegni e letterine che ci dava da fare la maestra per festeggiare l'anniversario della Liberazione italiana, lui ci incoraggiava, anche se i suoi occhi erano segnati dalla tristezza.
Solo molti anni dopo, ho scoperto il perché di quella malinconia.
Oggi lo ammiro ancora di più per non averci mai raccontato la sua verità quando eravamo bambine e vivevamo in un mondo felice e quasi perfetto, almeno dal nostro punto di vista.
Oggi 25 aprile 2014, posto un suo scritto che si intitola "Vincenzina" (mia nonna) e non posso fare a meno di rivedere quegli occhi malinconici. Oggi lo capisco profondamente e, su tante cose su cui posso essere in accordo con lui, c'è una frase che voglio citare e che credo mi rappresenti molto.
Credo rappresenterà anche molte delle persone che leggeranno:
"la vita è porca, dà le carte e ti obbliga a giocare. Qualcuno s’illude di poter barare. Idiota. L’unica, sarebbe di strappargli di mano il mazzo e ridistribuire le carte a tuo piacimento. Sarebbe bello, troppo bello." (cit.)
Da parte mia un pensiero a mio nonno Alessandro, che ho conosciuto attraverso i racconti di papà.
VINCENZINA
Insonnia schifosa! Ti giri e rigiri in un letto come un animale. Tenti di prendere sonno, vuoi avere sonno, forse ce l’hai pure il sonno. Niente. Nervi a fior di pelle, sensibilità acuita al massimo. Capti fruscii, scricchiolii mai avvertiti prima. La pendola del vicino che batte i quarti, le mezze ore, le ore diventa un frastuono insopportabile. Ad occhi chiusi, nell’attesa della fine del mondo, visioni migliaia, milioni di fotogrammi visti e rivisti. Sono i filmati di una vita con tutti gli errori, gli sbagli, i fallimenti e le pochissime cose positive. Alla fine, eccolo che ti assale: è il film più temuto, quello che non vorresti assolutamente rivedere, ma che inesorabilmente ti penetra nelle vene. E’ il grande rimpianto, il rimorso, la tragedia che oggi come oggi potresti forse evitare, perlomeno correggere, modificare. Esamini tutte le varianti, le possibilità che avresti potuto cercare, mettere in atto, tentare. Un senso d’annientamento totale ti sprofonda alla fine nel vuoto del sonno rigeneratore. Ma un attimo prima di piombare nel buio, hai ancora la forza di formulare una domanda: “Esiste un destino, un Fato, un Dio che preordina il tutto per ognuno di noi ? Se sì, chiamalo destino, Fato o Dio o come vuoi, sarebbe la cosa più ignobile che uno possa immaginare. Quindi, non è possibile, né accettabile; è solo una questione di culle: se nasci in quella giusta avrai tutto lo splendore del meglio, se nasci in quella sbagliata ti toccherà tutta la schifezza del peggio. Evidentemente Vincenzina, sua madre aveva beccato una culla fra le più scadenti.
La madre Caterina, donna chiatta e larga come un chiosco di giornali, aveva la concessione di un banco al popolare mercato di Porta Palazzo. Vendeva verdure, con particolare predilezione per i carciofi. Per questo tutti la chiamavano “ Ninin ‘d ij articiòch “,che tradotto potrebbe essere “Nina dei carciofi.” Con quel soprannome e il fisico che si ritrovava, il giorno che decise di farsi una famiglia sua, non poté assolutamente contare sul beneficio della scelta e beccò il primo tonno che cadde dall’albero, per innalzarlo a Principe Consorte. Era un materassaio dal carattere violento, scartato alla visita militare perché non raggiungeva l’altezza minima di un metro e cinquantadue richiesti per l’arruolamento. Si difendeva affermando che anche Vittorio Emanuele Terzo era alto un metro e cinquanta e che nella botte piccola sta il vino buono. Infatti, con il vino aveva molta confidenza e nessuno riusciva a capire se era violento perché era ubriaco o se si ubriacava perché soffriva della sindrome di Toulouse Lautrec a causa della sua statura. Caterina partorì due figli, Pietro e Vincenzina, che allevò alla meno peggio, compatibilmente con il suo lavoro in piazza che la impegnava dalle cinque del mattino alle tredici, ora in cui rincasava per affrontare il suo impegno di casalinga e di madre. Fino a quell’ora, i figli rimanevano affidati alla solidarietà dei vicini. In quel mondo di case a ringhiera con i lunghi ballatoi carichi di panni stesi, su cui si affacciavano piccoli alloggi di un paio di camere, con un unico cesso al fondo d’ogni balcone, i figli crescevano da soli, in una sana promiscuità, sotto l’occhio vigile di mamme e nonne che trovavano naturale badare anche ai figli degli altri. Sul piccolo marito non poteva fare nessun affidamento, poiché quando Giuseppe non era impegnato nel suo precario lavoro di materassaio, invece di occuparsi dei figli preferiva bruciare i pochi spiccioli che aveva in tasca, nelle bettole del quartiere. Ma Caterina a modo suo, teneva un occhio puntato nel futuro in cui intravedeva un minimo d’emancipazione. Volle che i figli Pietro e Vincenzina frequentassero la scuola, perlomeno fino alla terza elementare. In un tempo in cui l’analfabetismo raggiungeva quote dell’ottanta per cento, ottenere la licenza di terza elementare voleva comunque dire saper leggere e scrivere.
Vincenzina amava la scuola, ma terminata la terza elementare, la grossa madre Caterina, dal pulpito dei suoi centodieci chili sentenziò: “La terza è più che sufficiente per la nostra famiglia. E poi è meglio un asino vivo che una scienza morta! “Che cosa avesse voluto dire con le sue lapidarie parole è facilmente immaginabile. Di fatto, Vincenzina lasciò a malincuore la scuola e si trovò ingaggiata come commessa di un banco di scarpe al mercato di Porta Palazzo. Aveva nove anni e con la sua statura non ce la faceva a superare il banco di quel tanto che le desse modo di servire adeguatamente la clientela, ma l’oculato padrone fece costruire una pedana alta cinquanta centimetri, che consentisse a Vincenzina di muoversi nel migliore dei modi e a lui di sfruttare convenientemente il lavoro di una creatura di nove anni. Ma Vincenzina non si curava di certe cose, probabilmente neanche le avvertiva. Amava quel suo lavoro che in qualche modo la poneva al centro dell’attenzione. Tutti, infatti, notavano quella figurina che a dispetto dell’età riusciva ad attirare clienti, li serviva, incassava i soldi e dava il resto con naturale disinvoltura. In un paio d’anni, quella piccola commessa diventò un personaggio noto a tutti i clienti e frequentatori del popoloso mercato rionale. Arrivarono anche, alla famiglia, offerte di lavoro da parte di commercianti con bottega, ma la grossa Caterina, in uno dei suoi rarissimi momenti d’amore materno, stabilì che sarebbe stata la ragazza a decidere se cambiare o no il padrone. A quindici anni, Vincenzina operò la sua prima scelta: accettò un vero impiego come vendeuse da Ormea Bovo, uno dei più stimati negozi di stoffe della città e a diciassette, così, per caso, come si legge nei romanzi incontrò l’amore.
Alessandro era il terzo di cinque figli immigrati con i genitori da Vercelli, zona prettamente agricola, distese a non finire di risaie. Ma il padre aveva poca dimestichezza con la campagna. Bell’uomo, alto, con gli occhi azzurri, era stato firmaiolo in cavalleria e finita la ferma aveva preferito la vita civile, dedicandosi al commercio di cavalli. Con i suoi occhi azzurri e l’aria spavalda da domatore di puledri, aveva fatto colpo su una giovane figlia di modesti bottegai, una donna mite, tutta casa e famiglia, con la quale convolò a giuste nozze mettendo ben presto in cantiere cinque figli nel breve spazio d’otto anni. Il notevole ottimismo del capofamiglia non fu premiato. La crisi delle campagne del primo novecento, l’avvento della prima guerra mondiale, i prodromi del fascismo, crearono insicurezza, miseria e smarrimento nell’animo delle genti semplici di campagna. La paura di non farcela a tirare avanti la baracca, spinse il padre d’Alessandro a liquidare i pochi averi raggranellati in anni di sacrifici e a traslocare con tutta la famiglia a Torino, città di fabbriche che apparivano come balie opulente, agli occhi di chi non possedeva altro che la speranza in Dio, la compattezza di una famiglia numerosa e una cultura fondata sul lavoro. Tutti trovarono bene o male una sistemazione decorosa: il capofamiglia come magazziniere alla Venchi Unica, il primo dei tre figli maschi, un “ ragazzo del 99 “ con la testa calda, che già si era arruolato negli Arditi per dare il suo contributo alla guerra, seguì le squadracce di Mussolini nella “ Marcia su Roma “ e a fascismo insediato, ottenne uno scranno nella corporazione dei panettieri. Il secondo, seguendo la vocazione religiosa partì missionario in India. Il terzo, Alessandro aveva la passione per la musica e non potendo contare sull’appoggio economico della famiglia, per dedicarsi allo studio fece domanda e fu accettato nell’Arma dei Carabinieri Reali dove, a spese della Benemerita frequentò il liceo musicale interno e conseguì il diploma di violino. Fu questo giovane carabiniere che incrociò la strada di Vincenzina. L’uomo, elegante nella sua divisa, parve alla ragazza un autentico Principe Azzurro. E in effetti lo fu, perché anche lui s’innamorò di quella giovane Cenerentola con gli occhi dolci.
I due decisero che appena finita la ferma d’Alessandro nei carabinieri, si sarebbero sposati.
Ma la decisione non fu affatto presa con entusiasmo dai genitori di Vincenzina. Il chiosco di giornali e il nano bevitore si sentivano terribilmente a disagio. La figura di quel carabiniere evocava immagini mai prese in considerazione fino a quel momento. Avvertivano come uno strappo tra la vita sperata, i sogni di Vincenzina, e la realtà della loro povera esistenza tenacemente ancorata alla palude dell’ignoranza e della rassegnazione. La coppia mise in atto ogni forma di dissuasione: dallo sberleffo alla denigrazione, dall’insinuazione velenosa alla calunnia, con il solo risultato di ferire l’anima della ragazza e nello stesso tempo di temprare ogni giorno di più, la sua voglia d’indipendenza e la fiducia nell’uomo dei suoi sogni. Perché Vincenzina era felice. Finalmente qualcuno le parlava dolcemente, le offriva il braccio per strada e la domenica la portava a fare un giro in carrozza al Valentino. Alessandro era più di quanto aveva sperato e insieme con lui faceva progetti, contando i giorni che li separavano dalla fine della ferma. Gli innamorati, come previsto, si sposarono e Vincenzina saltò sul treno del suo futuro. A consolidare la sua felicità, giunse il primo figlio, un maschio. Erano i leggendari anni 30, Alessandro otteneva degli ottimi ingaggi da orchestre alla moda: Balocco, Barzizza, Manuel De Serra, Angelini; tutto pareva andare per il verso giusto. Alessandro però, era uno con i piedi per terra ed intuiva che tutta quell’euforia, quel successo, quel senso di benessere erano solo una faccia della medaglia e temeva che prima o poi la medaglia avrebbe mostrato l’altra faccia: una faccia ben diversa. Vincenzina, al contrario era felice. Aveva tutto ciò che poteva desiderare: il suo Principe Azzurro, un figlio, un tenore di vita piccolo borghese che la ripagavano di quanto aveva sofferto prima del matrimonio. Diceva ad Alessandro: “ Penso che non sia giusto preoccuparsi quando le cose stanno andando nella giusta direzione. E’ di malaugurio!” Ma le intuizioni del marito si dimostrarono purtroppo vere. Le cose cambiarono e drasticamente. Il 29 Settembre 38, a Monaco di Baviera ebbe luogo la storica “conferenza di Monaco, dove si tentò, invano, di evitare la guerra. Il 22 Maggio 1939 a Berlino, il Conte Ciano e il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop siglarono il “Patto d’Acciaio” e da quel momento gli italiani si ritrovarono, volenti o nolenti, legati mani e piedi ai “Cameraten” tedeschi. Il primo Settembre Hitler sferrò l’attacco alla Polonia dando inizio alla devastante seconda guerra mondiale.
Gli eventi precipitarono: Alessandro fu richiamato alle armi e destinato ad un mandamento di provincia. Ovviamente, dovette interrompere ogni attività civile, quindi il suo lavoro di musicista. La famiglia si trovò improvvisamente in ristrettezze finanziarie, ma Vincenzina era una donna forte e non si perse d’animo. Cercò e trovò un impiego da commessa che le consentì di tirare avanti alla meno peggio, nella speranza che fossero vere le voci del “ Minculpop” che davano l’eventuale guerra come una passeggiata, che Mussolini avrebbe compiuto trionfalmente. Il sacrificio era grande: la lontananza dal marito, la preoccupazione per il figlioletto di sei anni che doveva forzatamente affidare alla sorveglianza dei vicini nelle ore in cui lei era al lavoro, il pochissimo riposo, incominciarono ben presto a fare scattare il campanello d’allarme per la salute della donna. Vincenzina ebbe un attacco, per fortuna leggero d’angina pectoris. Il medico raccomandò assoluto riposo: figuriamoci! In quella situazione, l’unica cosa possibile era di raccomandare l’anima a Dio. Ma tutti sanno che Dio è troppo sovente distratto. Infatti, il colpo di grazia venne di lì a poco. Il 10 giugno 1940 il Duce dal suo balcone di Piazza Venezia annunciò ad una folla esultante la sua tragica dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra e due giorni dopo, il 12 giugno, i francesi pensarono bene di compiere la loro prima azione di guerra con un bombardamento, il primo in assoluto, proprio sulla città di Torino. Due bombe colpirono in pieno la casa di Vincenzina, che rimase fortunatamente viva ma imprigionata con il figlio, in un improvvisato rifugio: le cantine dello stabile. Fu un altro colpo alla malferma salute della donna.
La casa, seriamente danneggiata fu dichiarata pericolante e agli inquilini fu ordinato di trovare una sistemazione provvisoria, nell’attesa che il Genio Civile e la proprietà eseguissero lo sgombero delle macerie e decidessero le misure necessarie al restauro e alla sicurezza. Senza casa, con il pericolo d’altri probabili bombardamenti Vincenzina riparò, come unica soluzione possibile a Vercelli in frazione Cappuccini paese d’origine del marito, ospite di parenti mai conosciuti prima.
La situazione si stava facendo drammatica. Lontana dalla sua città, lontana dal marito, con il figlio che proprio quell’anno avrebbe dovuto iniziare la scuola elementare, senza mezzi di comunicazione, isolata in un ambiente estraneo, anche se caritatevolmente accogliente, si rese conto che stava entrando in una dimensione surreale in cui tutto appariva ovattato, lontano; i contorni delle cose, delle persone, anche le più amate diventavano ogni giorno di più, sfumate, trasparenti. Dopo quaranta giorni di quella vita sospesa nel nulla, Vincenzina s’alzò un mattino di buonora, raccolse le poche cose che rappresentavano i suoi averi, prese il figlioletto per mano e salì sul primo treno per Torino. Pensò che era meglio morire sotto le bombe che consumarsi a fuoco lento aspettando la fine. Giunta a Torino, salì su un altro treno e arrivò a Poirino, il piccolo centro di provincia in cui Alessandro prestava il suo servizio militare. La gioia di riabbracciare il suo uomo, le infuse una carica d’energia e d’intraprendenza eccezionali; in 24 ore trovò una famiglia che accettò di prendere a pensione il figlio, che sarebbe comunque rimasto sotto il controllo del padre e ritornò a Torino, dove fortunatamente poté riprendere il suo lavoro di commessa presso il negozio di stoffe, uscito indenne da quei primi bombardamenti. I lavori di ripristino del suo appartamento erano iniziati e le fu data la speranza che nell’arco di tre, quattro mesi avrebbe ottenuto un minimo d’abitabilità. Com’emergenza, tornò alla sua vecchia casa d’origine, dalla grossa Caterina.
Seguirono alcuni mesi che potevano dare l’illusione di una quiete ritrovata. Vincenzina lavorava tutta la settimana attendendo con ansia il sabato sera quando, terminato il lavoro, avrebbe preso il treno per andare a trascorrere qualche ora con il figlio ed il marito. Alessandro, come richiamato alle armi aveva ottenuto il privilegio di lavorare in fureria, dove maturò l’idea di apprendere un nuovo mestiere: quello del consulente contabile, che gli avrebbe consentito, terminata la guerra di avere una valida alternativa alla sua professione di musicista. Nel frattempo aveva fatto domanda di trasferimento a Torino, che se fosse stata concessa gli avrebbe dato modo di riunire la famiglia. Vincenzina non vedeva l’ora di poter rientrare a casa sua, con i suoi cari. La sua speranza era purtroppo confortata solo dalle preghiere e dalle notizie che i giornali pubblicavano, sulle enormi probabilità che il Duce avrebbe avuto di portare vittoriosamente a termine la guerra. Manco a farlo apposta, il 28 Ottobre 1940 Mussolini regala al mondo un'altra prova della sua ingenuità dichiarando guerra alla Grecia: una guerra inutile, ancorché assurda, con il tragico risultato di mandare al massacro migliaia di poveri ragazzi, fra cui gli Alpini della divisione “Julia”. Un mese dopo, Alessandro ottenne il trasferimento a Torino con la possibilità di riunire la sua famiglia. Lavorava in fureria, alla caserma Podgora e come sedentario gli fu accordato il permesso, insperato, di fare un orario d’ufficio; perciò la sera poteva cenare con la famiglia e dormire a casa. Vincenzina tornò a sorridere e sperare, in quell’accettabile situazione, di vedere presto la fine dell’orribile guerra. Alessandro aveva nel frattempo continuato il suo corso per consulenti contabili ed aveva convinto Vincenzina ad accostarsi a questa nuova attività “ Perché – diceva – a guerra finita, se mai finirà, si potrebbe avviare un’attività di consulenze per le piccole aziende” Un lavoro comodo, che si sarebbe potuto esercitare anche nella propria abitazione e che avrebbe potuto essere una notevole integrazione finanziaria alla sua professione. Vincenzina, naturalmente accettò con entusiasmo. L’idea di poter lavorare al fianco del marito, in un’attività “ di concetto” le mise in corpo una carica tale di ottimismo che in breve tempo fu in grado di portare avanti, da sola, tutte quelle mansioni necessarie all’amministrazione ordinaria di una piccola azienda. Quest’attività, a quel tempo era poco diffusa ed incominciarono ad arrivare proprietari di piccole aziende, che avevano capito che affidando a consulenti esterni la conduzione delle loro attività, si sarebbero liberati di quelle pastoie burocratiche per le quali non erano tagliati e che intralciavano il loro lavoro produttivo. Vincenzina pensò che forse, per la sua famiglia stava arrivando un po’ di calma. Certo, c’era la guerra, ogni tanto bisognava precipitarsi nei cosiddetti “ Rifugi antiaerei” per sfuggire alle incursioni notturne, ma se non altro la famiglia era riunita.
Il marito era presente la sera e la notte, il figlio aveva iniziato la scuola elementare e anche la sua salute andava un po’ meglio, sotto il controllo di un cardiologo che grottescamente le aveva raccomandato di “evitare le emozioni”. Evidentemente era scritto che la Storia dovesse viaggiare al contrario delle sue aspettative.
Il 7 Dicembre 1941, senza preavviso alcuno il Giappone attaccò e distrusse la base navale americana di Pearl Harbor. Nello sgomento generale, incastrato nell’Asse Berlino-Roma-Tokio, Mussolini dichiara guerra all’America. Alessandro comprese che sarebbe presto arrivata la reazione dell’America. Decise, con Vincenzina, che appena il figlio avesse terminato la scuola sarebbe stato prudente lasciare la grande città, sicuramente prossimo obiettivo di pesanti bombardamenti. Pensarono che sarebbe stato saggio tornare a Poirino, dove avevano avuto l’opportunità di fare qualche conoscenza durante la ferma d’Alessandro. Logisticamente la località distava solo 25 chilometri da Torino; sarebbe stato comodo sia per Alessandro, che ovviamente sarebbe rimasto in città, sia per Vincenzina che avrebbe potuto saltuariamente tornare a casa sua. Riuscirono ad avere in affitto una stanza sufficientemente grande, presso una cascina, dove trasferirono parte del mobilio della casa di Torino. Il figlio avrebbe frequentato la scuola del posto, il prossimo anno. La decisione fu oltremodo saggia. Iniziarono le incursioni americane con massicci bombardamenti, in particolare nei mesi di Novembre e Dicembre 42 che colpirono le fabbriche Fiat, Lancia, Riv e altre di minore importanza, oltre a molte civili abitazioni, con enormi danni e moltissime vittime fra la popolazione. Nella relativa quiete della provincia, Vincenzina, nel Gennaio 43 diede alla luce il suo secondo figlio, una femmina. Quella nascita portò una gran gioia a Vincenzina e Alessandro, che non potevano immaginare quanto terribile sarebbe stato quell’anno per le loro vite. Vincenzina, a causa degli spaventi subiti non poté allattare la neonata. Il medico disse che aveva il latte acido e avrebbe potuto procurare un’ulcera alla figlioletta. Iniziò per lei e i figli un altro periodo di duri sacrifici. Scarseggiavano enormemente i viveri essenziali per una civile sussistenza.Tutto era tesserato e mentre tanta gente, soprattutto quella di città tirava la cinghia, molti contadini compresi quelli che ospitavano Vincenzina, intuirono che ci si poteva arricchire lucrando sulla fame degli altri, con il famigerato commercio clandestino della “borsa nera”. Si poteva trovare di tutto, pagando “ il giusto prezzo.” Un uovo costava cinque lire, il prezzo di una gallina; pane bianco, olio, latte, burro e tutto ciò che era alla base della vita stessa, fu decuplicato nel prezzo. Vincenzina, aveva dovuto forzatamente interrompere il lavoro di consulente.
Alessandro era a Torino, in caserma tutto il giorno e compiva salti mortali lavorando la sera e la notte, per non perdere quei pochi clienti che assicuravano un minimo mensile per la sopravvivenza dei suoi cari. I proprietari della cascina Boasso che ospitava, naturalmente a pagamento, gli “sfollati”non potevano negare di avere il latte, perché per entrare in casa si doveva obbligatoriamente passare davanti alla stalla gremita di mucche e quindi, bontà loro, concedevano il latte per nutrire la piccola, ad un prezzo decente. Per tutto il resto, inventavano ogni giorno scuse nuove: la produzione era scarsa, la campagna produceva sempre meno, si dovevano rispettare le opzioni dei negozianti. La verità era, che da buoni ipocriti e spietati commercianti, non osavano applicare i prezzi della borsa nera a quei poveri inquilini sfollati. Non vendendo a loro, placavano le voci delle loro coscienze e riempivano sempre più il portafoglio. Semplice. Per contro, Vincenzina doveva, tre volte la settimana spingere la carrozzina, con dentro la bambina, fino ad una cascina più disponibile, distante due chilometri, che non essendo legata da scrupoli di conoscenza, forniva quel minimo consentito dal borsellino della famiglia. Per fortuna a tante necessità provvedeva il figlio maschio, che nonostante la giovanissima età era precocemente cresciuto e aveva capito tutto. Stabilì che rubare ai ladri non è peccato e ogni giorno rincasava con legna, verdure, conigli, galline; un giorno arrivò a casa persino con una capra che fu subito ritornata al legittimo proprietario, per le ovvie ragioni. La vita, pur tra mille difficoltà andava comunque avanti. Alessandro, ogni tanto otteneva un piccolo permesso di 24 ore e arrivava a Poirino per rivedere moglie e figli, portando quasi sempre brutte notizie. Sui vari fronti, le forze dell’Asse subivano ogni giorno perdite disastrose, continuavano le incursioni aeree su Torino e la fine della guerra sembrava sempre più probabile, ma nessuno sapeva ipotizzare il prezzo che avrebbero dovuto pagare gli italiani. Il dieci di Luglio si sparse improvvisamente la notizia dello sbarco americano in Sicilia e forse per festeggiare l’evento, gli stessi americani il 13 Luglio colpirono Torino con il più terribile bombardamento dall’inizio della guerra. Fabbriche e case civili distrutte. Il numero dei morti fra i civili fu agghiacciante. Il 19 Luglio un altro bombardamento, addirittura su Roma. Fu una costernazione nazionale perché Roma era stata dichiarata “Città aperta”. Probabilmente questo doppio crimine affrettò la caduta del fascismo. Il 25 Luglio 43 il Duce, che si era recato in udienza dal Re a Villa Savoia, fu arrestato dai Carabinieri Reali.
Il 3 Settembre 43, a Cassibile fu firmato lo storico “Armistizio” dal Generale Castellano, per l’Italia e dal Generale Smith, su delega d’Eisenhower, per gli Alleati; ma l’annuncio ufficiale fu dato solo l’8 Settembre scatenando, com’era logico il furore dei tedeschi.
Il 9 Settembre, al grido di “Coraggio ragazzi, scappiamo” il Re, Badoglio e gli “Alti Papaveri” lasciarono Roma, di notte come i topi, senza impartire ordini alle truppe, favorendo di fatto, il loro sbandamento. La risposta dei tedeschi non si fece attendere. Il 10 Settembre 43 occuparono Roma e in sostanza l’Italia del Nord, dove diedero il via ad atti di ferocia inaudita. Basti com’esempio la strage di Boves, piccola cittadina del Piemonte in cui il 19 Settembre le S.S. al comando del Maggiore Peiper, si scagliarono improvvisamente sulla popolazione trucidando donne, bambini, sacerdoti senza un motivo plausibile; poiché se era vero che nella zona operavano formazioni partigiane, era pur vero che fino a quel momento non avevano compiuto nessun’azione ostile ai tedeschi. Il 12 Settembre, Mussolini prigioniero a Campo Imperatore, fu liberato dai paracadutisti tedeschi. Portato a Vienna e subito dopo a Monaco di Baviera, il 18 Settembre 43 annunciò la nascita della Repubblica Sociale Italiana. Nello stesso periodo a Brindisi, dove si era stabilito il Re Vittorio Emanuele III si costituì il cosiddetto Regno del Sud che il 13 Ottobre, in seguito alla pressante richiesta degli Alleati dichiarò guerra alla Germania.
Questa ridda d’avvenimenti, così importanti, nel breve arco di sei mesi costituì la base dell’impalcatura su cui si sarebbe consumato il dramma di Vincenzina.
Con la fuga del Re, la proclamazione del Regno del Sud e della Repubblica Sociale Italiana, i tedeschi che nel frattempo avevano occupato Torino consegnarono nelle varie caserme tutti i carabinieri in circolazione ritenendoli, secondo una logica militare schiacciante, dei traditori, perché “Carabinieri Reali” quindi fedeli a quel Re che da Brindisi, aveva dichiarato guerra alla Germania. A loro fu offerta una scelta: aderire alla Repubblica. L’alternativa era semplice: chi non accettava, veniva caricato su vagoni piombati in partenza per la Germania con lo stato di”Prigioniero di guerra”. Alessandro era uno di quei tanti Carabinieri Reali. Vincenzina vedeva un futuro nero come il carbone. Malandata di salute, due figli uno dei quali aveva un anno di vita, la guerra che invece di finire continuava e per di più su due fronti, uno esterno e l’altro interno e come ciliegina sulla torta la prospettiva di perdere il marito in un campo di concentramento tedesco. Pregò, implorò Alessandro di riflettere a fondo sulla situazione, gli suggerì una terza via: scappare in montagna con i partigiani. Ma Alessandro aveva la sua personalità e un senso forse smisurato dell’onestà. Affermò che era un carabiniere, certo non si sentiva più “ Reale” dopo la fuga del Re, che secondo lui avrebbe dovuto aspettare l’ingresso degli americani in Roma e arrendersi cavallerescamente come il Duca d’Aosta all’Amba Alagi, ma non si sentiva di agire o combattere contro la sua gente e il suo Paese. Aveva perso troppi amici sui vari fronti: in Grecia, in Africa, in Russia e lui si era salvato solo perché era troppo vecchio per essere inviato al fronte, quando era scoppiata la guerra. Aveva visto troppi morti innocenti fra i civili, sotto i bombardamenti francesi, inglesi, americani e non si sentiva di schierarsi dalla parte di quelli che fino a ieri tutti consideravano “nemici della Patria”. Sicuramente, anche per ragioni di “spazio-tempo”, non aveva letto Oscar Wilde che definisce l’amor di patria una condizione mentale per idioti, ma una prima decisione l’aveva presa: la Repubblica o la Germania. Una sorta d’accettabile compromesso gli fu offerta da un certo Besveglieri, suo vecchio amico, anche lui carabiniere e musicista, conosciuto ai tempi dell’Accademia. Era stato incaricato dal Comando Repubblicano di allestire una banda musicale il cui compito sarebbe stato quello di suonare la domenica mattina, al cinema Corso, prima e dopo la proiezione di lungometraggi di guerra. Nei restanti giorni della settimana, tutti i musicisti avrebbero svolto un lavoro sedentario inframmezzato a prove d’orchestra. Alessandro accettò e Vincenzina tirò un lungo respiro dopo giorni d’interminabili tensioni.
I primi mesi del 44 furono mesi d’attesa. Vincenzina comunicava con Alessandro per mezzo di lettere che erano recapitate al marito dalla figlia dei padroni di casa, impiegata a Torino e aspettava con ansia il Sabato, giorno in cui la ragazza tornava a Poirino per il fine settimana, recando la lettera di risposta. Alessandro, ogni quaranta giorni otteneva il solito permesso di 24 ore e arrivava a Poirino portando notizie sullo stato della guerra, che nonostante i trionfalismi italiani e tedeschi, sembrava ogni giorno di più avvicinarsi alla disfatta. Il 22 Gennaio 44 gli Alleati erano sbarcati ad Anzio e nonostante fossero stati fermati dalle linee difensive, create dallo stratega Kesselring a Montecassino, erano riusciti a sfondare il fronte il 18 Marzo, quando un contingente polacco era entrato nel Santuario devastato. Subito dopo l’eccidio delle Fosse Ardeatine, risposta tedesca all’attentato dei G.A.P in Via Rasella, Radio Londra ascoltata giornalmente dalla famiglia della Cascina Boasso, aveva incominciato a trasmettere notizie su un’imminente grand’offensiva degli Alleati. Offensiva che si concluse il 4 Giugno 44 con la conquista di Roma. Lo stesso giorno gli Alleati sbarcarono in Normandia, con un concentramento di forze aeree e navali inimmaginabili. A quel punto tutti compresero che la fine della guerra era alle porte.
Vincenzina prese un’altra delle sue decisioni: volle tornare a Torino e convinse Alessandro che quella sarebbe stata una decisione giusta. Avrebbero anche cambiato casa, scegliendo un appartamento più grande con una camera per i figli ed un’altra per svolgere convenientemente il lavoro di consulenze contabili. Lei, avrebbe portato avanti l’ufficio con la supervisione del marito. Fu così. Appena il primogenito terminò la scuola, alla fine di Giugno 44, Vincenzina partì per Torino con i suoi figli e per la terza volta ricongiunse la famiglia.
Torino non presentava certo un clima rassicurante. Oltre il pericolo, sempre incombente, di bombardamenti aerei, erano iniziati in città gli atti di sabotaggio per opera dei G.A.P. Nel mese di Marzo vi erano state numerose azioni della squadra comandata da Pesce detto “Visone”, ex combattente nella guerra di Spagna. Per arginare gli attacchi della Resistenza, il 26 Luglio 44 fu costituito, per volere di Pavolini, il raggruppamento delle Brigate Nere, come “Unità antipartigiana”.
Vincenzina si rese conto della situazione e per prima cosa badò a sistemare il figlio, in modo che non corresse pericoli durante la giornata. Lo iscrisse come semiconvittore al Collegio S. Giuseppe dei Fratelli Cristiani. In questo modo il ragazzo sarebbe stato dal mattino alla sera sotto la tutela di validi insegnanti, in un Istituto dotato di rifugio antiaereo. Avrebbe così potuto vivere senza eccessive apprensioni per le incursioni aeree che ormai avvenivano anche di giorno, dato che la contraerea italiana era quasi inesistente. Mise in funzione la sua nuova casa e iniziò subito ad organizzare il lavoro per l’ufficio. Prese a lavorare dal primo mattino fino a tarda sera quando, dopo aver messo a letto i figli, poteva concedersi un meritato riposo. Era soddisfatta della situazione e aveva una sola speranza: che finisse quella maledetta guerra per vivere in pace nel suo ruolo di madre e di sposa.
Il 1944 si chiuse con la “Battaglia delle Ardenne”: I tedeschi riuscirono, per un po’ di tempo, ad arginare l’avanzata degli Alleati verso la Germania, ma dovettero inevitabilmente soccombere sotto la supremazia numerica. Con la pressione angloamericana da Ovest e quella russa da Est, ebbe inizio la fine del Terzo Reich.
A prendere le strade delle montagne erano ormai eserciti di persone, considerate con disprezzo dai primi partigiani che avevano affrontato fatiche disagi e privazioni in mesi e mesi di vita alla macchia. Pare che i partigiani iscritti nelle liste dell’A.N.P.I. nel 1945, fossero a fine Febbraio, circa 8.000 su tutto il NordItalia. Diventarono 130.000 il 15 Aprile, milioni a fine Aprile.
Vincenzina aveva tristi presentimenti, soprattutto per Alessandro che dopo lo sciopero generale del 18 Aprile, era consegnato in caserma in “attesa di decisioni”. Lei, come tutti, viveva in sostanza tappata in casa con i figli. Il 20 Aprile, gli avvenimenti precipitarono. I partigiani calavano a frotte dalle montagne; Occuparono Cuneo, Asti, Saluzzo. Le divisioni Susa e Lanzo si attestarono alle porte della grande città. La mattina del 25 Aprile, la popolazione di Torino fu svegliata da scoppi di bombe e crepitare di mitragliatrici. I fascisti e i tedeschi ancora di stanza a Torino, si trincerarono nel quadrilatero G. Ferraris, XX Settembre, Arcivescovado e Vittorio Emanuele, in attesa di un accordo con i comandi Alleati e partigiani. La mattina del 28 Aprile l’accordo fu raggiunto e lasciarono Torino e Piemonte in direzione della Germania. In città iniziarono i selvaggi “Giorni dell’ira”. Violenze ed orrori inauditi da ogni parte, fucilazioni ad ogni angolo di strada, impiccagioni ad ogni albero della città. Assieme a Brigate Nere, fascisti, cecchini e tedeschi che non erano riusciti a mettersi in salvo, furono trucidate centinaia e centinaia di persone: per sbaglio, per vendetta, per sentito dire, perché assomigliavano a qualcuno. Lo stesso giorno, a Milano, Mussolini, la Petacci, Pavolini ed altri gerarchi, furono appesi cadaveri per i piedi, esposti allo scherno e ludibrio della popolazione inferocita. La spaventosa catena d’orrori, terminò soltanto il Primo Maggio 1945 con l’ingresso delle truppe Alleate in città. La guerra era finita, ma la sorte aveva stabilito che per Vincenzina, la guerra dovesse continuare.
Il 25 aprile le formazioni partigiane occuparono le caserme di Torino che non opposero resistenza. Tutti i militari che si trovavano in caserma, furono posti in stato di fermo per accertamenti e ad uno ad uno furono passati al setaccio da una speciale commissione partigiana. Alessandro era uno di quei tanti fermati. Quando venne il suo turno, espose dettagliatamente la sua posizione, e poiché non risultò in sostanza nulla sul suo conto, tranne l’essere stato un elemento della banda musicale ausiliaria, gli fu chiesto se come ex carabiniere, fosse disposto a collaborare con il servizio d’ordine partigiano, vista la situazione da O.K. Corral che incombeva sulla città. Alessandro accettò di buon grado; gli ridiedero le mostrine da carabiniere e lo comandarono con altri ex, a pattugliare la città al fine di evitare tafferugli o peggio ancora, episodi di giustizia sommaria. La mattina del 28 Aprile uscì dalla caserma Bergia di Piazza Carlina, come uomo libero di un Paese liberato da un Regime durato più di vent’anni. Il minimo che potesse fare un uomo che era marito e padre e da più giorni non aveva potuto comunicare con la famiglia, fu di trovare un telefono e comunicare sue notizie alla moglie. Le disse che avrebbe onorato l’impegno che gli era stato affidato, dopo di che avrebbe fatto una visita a casa per poi ritornare in caserma per la notte. Vincenzina si sentì sollevata da quell’incubo che la opprimeva da giorni; disse ai figli che la Madonna aveva ascoltato le sue preghiere e le aveva fatto la grazia di restituirle il marito. Alle sedici del pomeriggio ricevette un’altra telefonata di Alessandro, che l’avvisava di essere per strada e che tempo mezz’ora al massimo, sarebbe arrivato a casa. Vincenzina e i suoi figli passarono quell’ultima mezz’ora alla finestra del quinto piano. Videro Alessandro che arrivando salutava con la mano, ma all’improvviso accadde un fatto, sul momento incomprensibile da quella distanza: gente che gli correva incontro ed una voce di donna che urlava al suo indirizzo “prendetelo, impicchiamolo, era un pezzo grosso della Repubblica.” Vincenzina intuì che stava per succedere l’ennesimo tragico scambio di persona ed incominciò ad urlare richieste d’aiuto, ma la tragedia stava per seguire il suo corso. Tutto accadde in pochi minuti. A fianco di quel capannello di esagitati che circondavano Alessandro, si fermò un autocarro con le sponde ribaltate dal quale scesero quattro partigiani armati fino ai denti; il fazzoletto rosso al collo li qualificava appartenenti alle Brigate Garibaldi. I quattro, capitanati da un tracagnotto che portava un Machine-Pistole appeso al collo ed una grossa rivoltella in mano, si fecero largo fra i presenti e dopo un attimo di esitazione, diedero il via al linciaggio. Incominciarono a colpire il malcapitato con calci e pugni, un compare prese il fucile per la canna e si diede ad usarlo come una clava. Per tentare di sottrarsi a quei colpi, Alessandro si arrampicò sul pianale dell’autocarro. A quel punto si udì il primo sparo di fucile, che lo colpì al braccio sinistro e subito dopo un colpo di rivoltella che lo raggiunse, forse di striscio, alla testa. Alessandro cadde riverso sul pianale dell’automezzo, seguito dal piccoletto, che come colpo di grazia gli fu sopra e fece partire due scariche di quella “Sega-Hitler”, una in pieno viso e l’altra al corpo.
Tutto questo sotto gli occhi e le urla di Vincenzina e dei suoi figli, inchiodati alla finestra. Di Alessandro non si seppe più nulla.
Dopo quella tragedia Vincenzina ebbe l’ennesimo collasso, sedato fortunosamente da un medico che abitava nello stabile, con ripetute iniezioni di cardiotonici. Quando si riprese, seppe dai vicini che dopo quell’esecuzione sommaria, i quattro erano risaliti sull’autocarro ed erano ripartiti, portandosi appresso il corpo del marito. Qualcuno che aveva assistito al dramma sosteneva che Alessandro era morto. Altri che era soltanto gravemente ferito e che i quattro erano partiti di fretta e furia per portarlo all’ospedale Mauriziano. Nonostante l’assurdità di quest’ultima versione, per Vincenzina spuntò un tenue filo di speranza al quale si attaccò con tutte le sue forze. In questo stato d’animo passò la notte. Il giorno dopo, quasi a rincarare la dose, piombarono in casa gli autori del linciaggio: ubriachi fradici, armati fino ai denti, pretendevano di trovare in casa fantomatici documenti che, a loro parere, avrebbero dovuto fornire la prova che Alessandro era responsabile d’azioni compiute a danno di formazioni partigiane. Ai pianti e alle esortazioni di Vincenzina, i quattro rispondevano con truculente minacce; il tracagnotto, che doveva essere il Capo, raggiunse il colmo dell’infamia puntando una rivoltella alla testa della piccola figlia di due anni, dichiarando che se non saltavano fuori i documenti “ facciamo fuori anche questi, come abbiamo fatto con il padre”. A quel punto i nervi di Vincenzina crollarono. Cadde in ginocchio e abbracciando i due figli disse: “Allora ammazzateci tutti e tre. Almeno la facciamo finita!” Questo estremo gesto di madre, dovette riaccendere un barlume di ragione nel cranio di quelle bestie che desistettero da quel supplizio e si allontanarono con oscure minacce.
Fu soltanto dopo avere controllato in tutti gli ospedali e pronto soccorso improvvisati, e soprattutto dopo che in città si stava lentamente tornando ad un livello accettabile d’ordine e civiltà, che Vincenzina ottenne un breve colloquio con il comando partigiano che si era insediato alla Caserma Bergia, ultima sosta conosciuta d’Alessandro. Le suggerirono la cosa più semplice e razionale da fare in un caso come il suo: chiedere informazioni al Cimitero Generale. Apprese che le salme di tutte quelle persone, vittime di regolamenti di conti, giustizie sommarie, vendette e tragici equivoci, avvenuti in quei “Giorni dell’ira” venivano trasportate al cimitero, dove per legge e per ragioni di salute pubblica, al fine di evitare eventuali epidemie, venivano sepolte in una parte del cimitero denominata “Campo F” che stava per fascisti. Per le poche salme sulle quali erano stati rinvenuti documenti d’identificazione, erano state convocate le relative famiglie; per la stragrande maggioranza dei non identificati, prima dell’interramento erano stati prelevati ad ognuno di loro, piccoli lembi di vestiario che avrebbero potuto consentire l’identificazione a coloro che la richiedevano. Per questi ultimi, per comprensibili difficoltà logistiche ed organizzative, non era purtroppo possibile ottenere informazioni dettagliate sul dove erano stati interrati. Vincenzina, com’era da immaginare, trovò un ritaglio di camicia a righe che inequivocabilmente apparteneva ad Alessandro e fu così che ebbe la prova certa della morte del marito. Ma dovette aspettare fino a Novembre prima di ritrovare la salma d’Alessandro, presenziando a centinaia d’esumazioni eseguite giornalmente, per un massimo di venti fosse.
Nelle grandi città era ancora alta l’euforia per la fine della guerra e da ogni parte continuavano le manifestazioni di giubilo con celebrazioni a favore della resistenza. Come in preda ad un contagio collettivo, non c’era persona che non dichiarasse di avere partecipato alla lotta antifascista e c’era da chiedersi dove fossero finite le moltitudini che fino al giorno prima inneggiavano a Mussolini e al fascismo. Ma è noto che “il popolo corre sempre in soccorso dei vincitori”
Economicamente, il Paese si stava preparando alla grande ricostruzione ma nel frattempo il fenomeno “borsa nera” resisteva e l’idea di un rapido arricchimento stava gonfiando i prezzi in modo spropositato. Generi alimentari, capi d’abbigliamento e “caro affitti” stavano toccando limiti proibiti per la maggior parte della popolazione, allo stremo delle risorse dopo cinque anni vissuti nelle ristrettezze a causa della guerra.
Vincenzina aveva capito che dopo tutto quello che era franato sulla sua famiglia e per i tempi che correvano, l’unica cosa da fare era il tuffarsi, anima e corpo nel lavoro. Ora, era lei l’unico punto di riferimento per i suoi figli. S’impose un rigido orario d’ufficio ed organizzò una distribuzione nelle buche delle lettere, di un volantino ciclostilato che offriva la “consulenza libri paga e matricola e contributi vari”, nel tentativo di accrescere la clientela. Il tentativo riuscì fin troppo bene; in poco tempo arrivarono piccole aziende artigiane, meccaniche e commerciali, in numero tale da rendere necessaria l’assunzione di una giovane impiegata, per svolgere con tranquillità la considerevole mole di lavoro. Aumentava il lavoro, ma di pari passo aumentavano le spese. Vincenzina doveva fare i salti mortali per riuscire a far quadrare i conti ogni fine mese. Alla preoccupazione finanziaria ed ai problemi per la sua salute si sommavano le apprensioni per i figli, soprattutto per il maschio, che dopo la morte del padre aveva decisamente cambiato carattere.
Era diventato taciturno, chiuso in se stesso; aveva smesso di frequentare l’oratorio e la domenica mattina usciva da casa dicendo di andare a messa, ma per la verità se n’andava in piazza d’armi a giocare a football fino l’ora di pranzo. Anche a scuola non andava bene, e più volte erano arrivate alla madre, lamentele scritte da parte degli insegnanti: segnalavano che era un rissoso, attaccabrighe, che le rogne andava a cercarsele anche dove non c’erano. Vincenzina cercava di capire, discretamente teneva d’occhio quel figlio che a lei sembrava più che tranquillo, aveva sempre i libri in mano; ma se la povera donna avesse osservato meglio, avrebbe scoperto che non erano libri di scuola. Il ragazzo leggeva Salgari, Jack London e altri romanzi che pescava nella libreria che era stata del padre. Vincenzina, come unico sfogo parlava con una fotografia d’Alessandro appesa dentro una cornice, su una parete dello studio; gli chiedeva di aiutarla, di consigliarle la via giusta, di darle la forza per tirare avanti. Purtroppo i quadri non parlano e soprattutto non sono in grado di dare consigli.
Verso la fine del 46, l’amministratore dello stabile comunicò che dal primo Gennaio 47 il canone d’affitto sarebbe stato portato a mille lire mensili, cifra esorbitante per quel tempo e in particolare per le entrate di Vincenzina. A malincuore prese una drastica decisione: avrebbe rinunciato a quell’alloggio per uno più modesto e a Giugno, con la fine dell’anno scolastico avrebbe tolto il figlio dal Collegio San Giuseppe. Trascorsero anni di grandi fatiche. Vincenzina viveva praticamente segregata in casa, dal mattino alla sera tappata in quel suo ufficio. Avrebbe avuto bisogno di due o tre persone che la coadiuvassero nel tanto lavoro che s’era impegnata a svolgere, ma conti alla mano non poteva permettersi che una sola collaboratrice in ufficio e una donna ad ore, che le tenesse in ordine la casa e provvedesse a preparare il pranzo per i figli. La femmina, col passare degli anni, si era fatta una signorina molto dolce ed intelligente che amava lo sport e frequentava, con ottimi risultati il liceo linguistico. Il maschio invece continuava a preoccuparla non poco. La madre riceveva dagli insegnanti, continue comunicazioni di biasimo sul comportamento del figlio. Provava, quando poteva, a discutere con il giovane che si stava facendo uomo, ma non riusciva a capirlo. Quando gli chiedeva il perché del suo modo di vivere ed agire, il figlio le ribaltava di centottanta gradi il discorso e chiedeva a lei, come madre, di spiegargli il perché della sua nascita, della perdita del padre, dell’attuale condizione della famiglia, della distruzione di quelli che erano stati i suoi punti di riferimento: la famiglia, la Patria, le tradizioni. Se lei, credente fervente, non sapendo più cosa rispondergli tirava in ballo la “volontà di Dio, ” quel figlio rispondeva che “Dio è un’invenzione delle chiese per privare l’uomo della libertà e autodeterminazione.”
Questi confronti finivano per causare a Vincenzina stati di confusione, per superare i quali si rifugiava nella preghiera e la notte parlava con il ritratto d’Alessandro. Giungeva poi sempre alla solita conclusione: quel figlio che lei amava disperatamente, non aveva colpe. Le sue ribellioni, il tenore blasfemo di certe asserzioni, la sua visione nichilista di quanto lo circondava erano la conseguenza di una vita vissuta all’impiedimento, una girandola di distruzioni e di svalutazione dei valori supremi. Ma di una cosa era certa: quel figlio ricambiava il suo amore e avrebbe sicuramente trovato la sua strada giusta.
Tra le preoccupazioni per i figli, il suo lavoro e la totale mancanza di prospettive, Vincenzina finì per trascurare completamente la sua precaria salute. Inevitabilmente arrivò il primo duro infarto. Fu ricoverata in ospedale e il responso degli esami effettuati, fu lapidario: un blocco alle coronarie. Erano tempi in cui la cardiochirurgia muoveva i primi passi e gli interventi di by-pass, se esistevano erano riservati a pochissimi privilegiati e l’assistenza sanitaria era ancora al di là delle grandi conquiste; basti dire che il mondo aveva appena scoperto la penicillina. Uscita dall’ospedale, non poté nemmeno permettersi una decente convalescenza, poiché il lavoro pressava e lei era l’unica persona in grado di mandare avanti l’ufficio. I pochi sprazzi di felicità li ebbe dai suoi figli, quando entrambi trovarono finalmente la loro strada. Gli infarti si susseguirono sempre a più brevi scadenze e l’ultimo la colpì una notte di Marzo.
Svegliò il figlio che dormiva nella stanza accanto alla sua. Questi capì subito la gravità della situazione e telefonò immediatamente ad un servizio di pronto soccorso. Quando l’autoambulanza arrivò era ormai troppo tardi.
Vincenzina morì quella notte, lei così credente, senza neanche il conforto di uno straccio di prete.
Inutile chiedersi: “Ma è vita, questa?” La risposta è possibile solo se si considera la vita un viaggio obbligato. Si nasce, non per nostra volontà. S’inizia un viaggio che non termina quasi mai per nostra volontà. Solo a volte. Termina per sopraggiunto capolinea, per caso, per sfortuna, per mano d’altri e per chi crede per mano di Dio. C’è chi il viaggio lo paga per intero, chi lo paga a tariffa ridotta, chi non lo paga per niente e chi lo paga anche per gli altri, proprio come Vincenzina. Conclusione: la vita è porca, dà le carte e ti obbliga a giocare. Qualcuno s’illude di poter barare. Idiota. L’unica, sarebbe di strappargli di mano il mazzo e ridistribuire le carte a tuo piacimento. Sarebbe bello, troppo bello.
Gipo
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