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PROIETTI ALLA PROVA DEI MOSCHETTIERI

Gigi Proietti durante le prove della sua puntata de "I Tre Moschettieri"
Il "teatro seriale" è la nuova frontiere. Dopo lo Stabile lo scorso anno con "6Bianca", in questa stagione è il TPE a misurarsi con un progetto di "teatro a puntate". All'Astra sono già iniziati i lavori di montaggio e allestimento della sala per ospitare il kolossal teatrale "I Tre Moschettieri" che andrà in scena in otto episodi dal 18 febbraio al 1° maggio. 
Il progetto del TPE - Teatro Piemonte Europa riprende un evento di trent'anni fa: nella stagione ‘86/’87 il romanzo di Dumas venne riadattato da Aldo Trionfo, Ghigo De Chiara, Aldo Nicolaj, Ettore Capriolo, Renato Nicolini e divenne uno sceneggiato in 12 puntate che fu rappresentato per 120 giornate al Teatro dell’Aquila, il primo caso di spettacolo seriale nella storia del teatro italiano.

A trent'anni di distanza Beppe Navello ripropone "I Tre Moschettieri" all'Astra per un serial teatrale in 8 puntate affidate ad 8 registi diversi, alcuni della storica squadra dell’Aquila (Beppe Navello, Gigi Proietti, Ugo Gregoretti, Piero Maccarinelli), altri scelti tra i collaboratori di TPE, Emiliano Bronzino, Myriam Tanat, Andrea Baracco e Robert Talarczyk. In questi giorni è impegnato con le prove Gigi Proietti, regista della seconda puntata (27 febbraio-4 marzo). Prima di lui, Ugo Gregoretti ha già provato la settima puntata (15-21 aprile).

Il TPE non è nuovo a simili imprese: tutti ricordano, nel 2010, l'epopea fluviale de "I Demoni" di Peter Stein, undici ore e mezza di rappresentazione no-stop.

Bonus track: Perché i Tre Moschettieri? Risponde Beppe Navello

“I Tre Moschettieri non vuole essere soltanto il revival di un fortunato spettacolo fiume inventato per il Teatro Stabile dell’Aquila esattamente trent’anni fa, nella stagione 1986/87; ma la risposta a una serie di domande che la società italiana e le istituzioni pubbliche pongono ai teatranti del nostro paese da qualche tempo e che non si possono più eludere. Provo a formularne alcune qui di seguito.

Come si può ricollocare il teatro al centro della vita sociale da dove è stato emarginato in una posizione più appartata ed elitaria, nel corso degli ultimi decenni? Quale deve essere il suo rapporto con il pubblico in un’auspicabile ripresa di successo nazionalpopolare duraturo? Cosa occorre fare per assicurare continuità di lavoro e maturazione professionale agli attori italiani sempre più umiliati dal precariato, dal lavoro nero e dalla occasionalità delle offerte di scrittura? Come si possono inseguire modelli virtuosi di organizzazione delle attività teatrali come quelli di altri paesi europei come la Francia, la Germania, i paesi del Nord e addirittura dell’Est, eredi della tradizione dei teatri di stato, con masse artistiche e tecniche che garantiscono eccellenza di prestazioni e posti di lavoro a vita? Il divario con quei modelli non è per noi ormai incolmabile? E infine la richiesta più pressante e ingenuamente riproposta da amministratori pubblici, politici e giornalisti: come si possono attirare risorse finanziarie private accanto a quelle dello Stato, dei Comuni e delle Regioni per sostenere il teatro?

Le risposte che si danno di solito a queste domande nei convegni di economia della cultura sono sempre insidiate dal dubbio, senza speranza di soluzione esaustiva. Ecco perché abbiamo pensato I Tre Moschettieri: una risposta sul campo, con i mezzi del teatro, autoironica e irriverente.

Prima di tutto per stabilire un patto con il pubblico che duri dal 18 febbraio al primo maggio, attraverso 56 repliche previste per 11.400 spettatori; il che, detto in altro modo, significa due mesi e mezzo da trascorrere all’Astra, in un piazza seicentesca di Parigi, insieme a cinquanta attori, dodici tecnici e un racconto appassionante che non si attarda in analisi psicologiche, in approfondimenti formali, in lentezze estetizzanti ma dovrà catturare interesse con il ritmo, l’azione e la sorpresa; e poi  abbiamo voluto legare a TPE una straordinaria compagine di attori, per lo più giovani e giovanissimi, con una scrittura che assicura 114 giornate di lavoro (per qualcuno ulteriormente cumulabile con la partecipazione a qualche altro spettacolo nostro in questa stessa stagione). Cioè circa cinque mesi di contratto; per offrire loro un’opportunità professionale d’eccezione con otto registi prestigiosi, diversi per gusto, stile, sensibilità, appartenenza generazionale e persino per provenienza geografica; ci siamo anche ripromessi di provocare e divertirci rispetto all’ansia con la quale lo spettacolo dal vivo è quotidianamente invitato ad essere attrattivo per sponsor privati e risorse di mercato (spingendoci fino al paradosso di interrompere l’azione teatrale per dare spazio a spot pubblicitari).
Non è anche questa la più convincente applicazione possibile della riforma ministeriale? Quella che riconoscendoci insieme a una ventina di altri teatri nell’eccellenza italiana, ci chiede in contropartita radicamento nel nostro territorio, incremento della produzione, sostegno all’occupazione giovanile, moltiplicazione delle giornate lavorative? Ma le riforme del teatro, nei secoli, hanno avuto successo soprattutto quando hanno saputo trovare il loro pubblico: è per questo che siamo in trepida attesa di verificare se i nostri 25.000 spettatori vorranno applaudirci anche in questa pericolosa avventura per cinquantasei volte”.

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