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QUELLA ALL'EGIZIO E' UNA GRANDE MOSTRA: E VI SPIEGO PERCHE'


Christillin e i direttori di Pompei, Osanna,
 e dell'Egizio, Greco
La straordinaria mostra "Il Nilo a Pompei", aperta da domani al Museo Egizio, non ci costa niente. Cioé, ha un budget di 800 mila euro: però i soldi sono in parte (150 mila) dello sponsor Serenissima Spa; e per il resto - la bellezza di 650 mila cocuzze - arrivano dai guadagni del museo: biglietteria e attività didattiche. Non credo che siano tantissimi i musei al mondo che si autofinanziano al 100 per cento le loro grandi mostre.
D'altra parte, il business è florido. Dall'inaugurazione del 1° aprile scorso siamo a 880 mila visitatori: chiudere con un milione di presenze i primi dodici mesi del "nuovo corso" sembra un obiettivo ragionevole, se considerate che il 27 marzo è Pasqua. Tanto più che adesso andare all'Egizio è d'obbligo, perché c'è da vedere una mostra memorabile.

Questo è solo un inizio

L'ho visitata in preview, questa prima mostra dell'Egizio. E' ospitata nella nuova area di 600 metri quadrati che sarà destinata proprio alle esposizioni temporeanee. Perché altre seguiranno, e presto: il direttore Christian Greco ha un piano complesso di mostre future che esploreranno i legami e le influenze fra l'antica civiltà egiziana e tutto ciò che è venuto dopo, fino alla contemporaneità. La prossima tappa, dice Greco, riguarderà "la metastoria del nostro Museo". Non una parola di più. Penso che sarà il racconto dell'Egizio, la sua fondazione, le sue vicende, i direttori e gli studiosi che ci hanno lavorato: in fondo, nel 2024 cade il bicentenario, e in qualche modo vorranno celebrare.

Cinquecento pezzi, molti dal Sud. E nessuno protesta

Ma non 'sto a strologarmi più di tanto: adesso, e fino al 4 settembre, c'è questa, di mostra, e vi assicuro che è super. Sono oltre 300 pezzi; più della metà in prestito da una ventina di altri musei, in primis Pompei e l'Archeologico di Napoli. E - fa notare divertito Greco - nessuno si è sdraiato davanti al portone dell'Egizio per impedire che le casse entrassero. I canai li riservano a quelle in uscita, nella - peraltro ancora remota - eventualità che l'Egizio apra una succursale a Catania. Boh.

Una Grande Mostra

All'Egizio la segnaletica antinfortunistica è in stile
Ma parliamo di cose serie. "Il Nilo a Pompei" è ciò che io definisco una "Grande Mostra", con le maiuscole. Non uno di quei "blockbuster" che si comprano chiavi in mano: è una produzione propria, nata dalla collaborazione fra il museo torinese, la Sovrintendenza di Pompei e il Museo Archeologico di Napoli, che rientra in un progetto scientifico serio, e al tempo stesso sa essere divulgativa, emozionante, interessante. 
Ciò non è poco, né poco importante. Troppo spesso da noi le grandi mostre (con le minuscole) arrivano già confezionate. Le importiamo e basta. Alcune, come quella di Matisse in corso a Palazzo Chiablese, hanno un senso logico, aiutano a capire, lasciano qualcosa al visitatore. Altre, invece, sono operazioni in cui la curatela è un optional: assemblaggi di opere più o meno celebri ottenute da musei (come quello d'Orsay) che in cambio del prestito incassano un affitto che usano per finanziarsi le loro, di mostre. Quelle belle, ma anche utili. Con un'anima e un filo logico.

Che cos'è una Grande Mostra

"Apollo Milani" dal Museo Archeologico di Firenze: è in mostra all'Egizio
Mi spiego. E perdonate se la spiegazione è un po' lunga, ma quando ce vo' ce vo'. Guy Cogeval, presidente del Musée d'Orsay - colui che ha prestato a Torino i quadri di Monet e si appresta a prestare quelli di Manet - quando organizza una mostra a casa sua fa qualcosa di diverso da ciò che abbiamo visto con "Monet" alla Gam. Ha per esempio proposto "Splendeurs et Misères. Images de la prostitutions 1850-1910". Enorme successo internazionale, quella mostra faceva capire delle cose: ad esempio, si capiva che le ballerine di Degas erano prostitute che i ricchi sceglievano durante lo spettacolo; si coglieva il senso profondo della pittura di Toulouse Lautrec; si capiva la centralità della prostituzione nella rappresentazione artistica di quegli anni a Parigi. Come sempre dovrebbe essere, se ne usciva sapendo qualcosa in più di quando era entrati. Se ne usciva, se permettete l'enfasi, "migliori".

Una dichiarazione di resa

Non credo che uno come Cogeval firmerebbe mai in proprio una mostra intitolata "Monet", con un sottotitolo banale come "Dalle collezioni del Musée d'Orsay". Non lo farebbe perché quel titolo e quel sottotitolo in realtà sono un'ammissione e una resa: "Non fatevi illusioni - dicono - non abbiamo niente da raccontarvi. Accorrete numerosi semplicemente perché ci sono i quadri di un pittore così famoso che lo conoscono tutti, almeno di nome". I capolavori ci sono, ma spesso non c'è un senso: i quadri vengono esposti in ordine cronologico, o per soggetti: i paesaggi, i ritratti, le nature morte... Sai che immane sforzo curatoriale.
E vi voglio dire questo: se anche riunissimo i cento quadri più celebri del mondo, dalla "Maestà" di Duccio a "Guernica", dalla "Gioconda" all'"Urlo", ma senza dargli un senso, senza costruire una narrazione, senza condurre il visitatore a nuove scoperte, a una nuova visione, non faremmo una Grande Mostra. Faremmo un baraccone culturale. Venderemmo tanti biglietti e tanti gadget. Ma non renderemmo un vero servizio al pubblico. E forse non sarebbe neppure un megasuccesso internazionale. 

La provincia culturale

Ci pensavo guardando i dati diffusi giustappunto a proposito di "Monet" alla Gam: la più visitata d'Italia, vista da 313 mila persone. In gran parte però piemontesi, e con appena un 3 per cento di presenze straniere. Insomma, i risultati ci sono, ma non facciamo il salto di qualità definitivo. E rischiamo di scivolare nella provincia culturale. Una provincia dove un amministratore locale di seconda fila può imbastire una polemica contro quella che è una pratica propria di tutti i musei importanti. E può farlo perché manca egli stesso - così come molti suoi interlocutori - degli strumenti valutativi minimi per affrontare correttamente la questione; è egli stesso la riprova del fallimento di una politica culturale che non è riuscita a darglieli, quegli strumenti. Ma qui il discorso si svia, e si fa troppo lungo. Magari un'altra volta. 
Torniamo alle mostre necessarie e a quelle inutili.
Affresco dal tempio di Iside a Pompei, in mostra al Museo Egizio
Dunque, dicevamo. La mostra "blockbuster" - tipo Monet alla Gam - ci manda in estasi, ma il pubblico, alla fin fine, è desolatamente locale. Forse, ho pensato, se  la gente non arriva da tutta Europa a vedere la mostra torinese su Monet, il problema non è (o non è soltanto) la comunicazione, bensì la qualità del prodotto; non è il fumo ma l'arrosto.
Prima vi ho citato, come esempio positivo, la mostra di Matisse a Palazzo Chiablese. Quella sì, mi ha dato qualcosa: mi ha spiegato molto sulla storia dell'arte e i rapporti fra i grandi artisti del Novecento. Di Monet ricordo tanti bei quadri: ma nulla che già non sapessi prima di entrare alla Gam.

Non mancano i soldi, mancano i cervelli 

Qualcuno obietterà che non ci sono i soldi per le Grandi Mostre. No, ragazzi: non sono i soldi che mancano. Mancano i cervelli. Mancano i curatori veri. E manca la voglia di andare oltre il semplice conteggio dei visitatori, le code da fotografare per i giornali, la prosopopea dell'Evento fine a se stesso. 
Portare a Torino capolavori da mezzo mondo è senz'altro importante e meritorio, però non basta. Il visitatore dovrebbe uscire dalla mostra con qualcosa che non sia il semplice piacere voyeuristico di aver ammirato con i propri occhi un dipinto famoso di cui continuerà a non sapere nulla, se non che esiste davvero e non è soltanto una fotografia su un libro. 
Ecco: sono convinto che "Il Nilo a Pompei" sia una di quelle Grandi Mostre che vorrei. Una mostra "necessaria". Perché "Il Nilo a Pompei" è un'idea: un progetto originale, maturato da chi sa e ha voglia di raccontare.
Andateci, e mi ringrazierete. E se vi avanzano 22 euro, prendetevi pure il catalogo. Vale molto più del suo prezzo.

Commenti

  1. Tutte giustissime e condivisibili osservazioni, tranne per quel "No, ragazzi: non sono i soldi che mancano. Mancano i cervelli. Mancano i curatori veri".
    I soldi invece mancano, magari non tanto quanto vogliono farci credere ma mancano eccome; non tutti i musei possono sognare ingressi e incassi come il Museo Egizio, che in Italia è più l'eccezione che la regola. Il problema vero è che i (pochi) soldi che ci sono vengono spesso destinati a “capitoli di spesa” quantomeno opinabili invece di investirli nella creazione di vere mostre – grandi o piccole che siano.
    Sul fatto che nel Paese manchino i cervelli non ci piove, ma forse scarseggiano più in altri ambiti che in quello curatoriale. Come può un curatore vero lavorare con scarse risorse e con limitata autonomia sia organizzativa sia scientifica, mentre a chi decide davvero interessa solo incrementare il dato quantitativo degli ingressi e non la qualità/serietà/originalità dell'offerta?
    I problemi stanno nei gradini superiori del processo decisionale, parola di curatore. Se curatore vero non ho modo di saperlo, ma frustrato di sicuro.

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