Grandi momenti del cinema italiano: Alvaro Vitali in "Giggi er Bullo". Un modello pericoloso per un Festival che vuole crescere |
Bello il weekend, ma dieci giorni sono un'enormità
Prima però vorrei dire due parole sul Festival. Al netto delle fanfaronate propagandistiche (tipo "il 70 per cento dei turisti del ponte è venuto a Torino per il jazz"...) il weekend lungo dal 22 al 25 aprile ha sciorinato un Festival vero, con alcune proposte molto interessanti, ottima risposta del pubblico e una struttura credibile, sia nella parte "main" - concentrata in pochi concerti di qualità medio-alta - sia nel Fringe, che è diventato una festa di piazza divertente e abbastanza dignitosa, con qualche eccellenza che avrebbe magari meritato un ascolto meno caotico.Mi è invece sembrato pleonastico il prolungamento accanito, pensato per collegare il ponte della Liberazione alla festa del Primo Maggio. Dieci giorni di Festival sono un'enormità: difficile mantenere alto l'interesse del pubblico, impossibile coprire con una programmazione di livello un periodo così lungo, restando nel budget.
Vorrei ma non posso: la strada maestra del ridicolo
Solo per fare un confronto: Torino spende circa un milione di euro per dieci giorni di festival. Umbria Jazz ha la stessa durata, ma un budget triplo: circa tre milioni. E a fronte di 450 mila presenze (in massima parte paganti) Umbria Jazz incassa circa un milione e mezzo di euro con la biglietteria, più 100 mila euro di solo merchandising, il che va a coprire più di metà dei costi. Sicché può permettersi di sborsare un cachet da 350 mila euro per il duetto di Lady Gaga con Tony Bennett.
Con tutto rispetto, è un altro pianeta. Ma noi no, duri, facciamo lo stesso dieci giorni, per non essere da meno. E ovviamente li riempiamo come consente il convento. Vabbè che è i concerti sono quasi tutti gratis, e allora non puoi pretendere...
Insomma, vogliamo renderci conto di che cosa vogliamo e possiamo permetterci veramente? Stefano Zenni e Furio Di Castri sono bravi e competenti, lavorano bene, onore al merito. Ma il Comune vuole dieci giorni di Festival, e loro fanno del loro meglio, con i soldi a disposizione.
Lì sta il problema: le ambizioni devono essere proporzionate alle possibilità. Il "vorrei ma non posso" è inutile e sfocia nel ridicolo. Sembriamo Alvaro Vitali quando fa Giggi er Bullo che minaccia sfracelli e si becca una paccata di sganassoni.
Se vincerà Chiara Appendino, mi pare di aver capito che l'esperienza del Tjf si chiuderà qui: la candidata del Movimento 5 Stelle ha dichiarato chiaro e tondo che lo considera un esempio dei "grandi eventi senza adeguata ricaduta sul territorio". Questo adesso. Poi, si sa, le cose cambiano.
Se invece sarà confermato Fassino, è certo che il Festival andrà avanti. Su quello, almeno, non ci piove. Anche se non mi sembra l'espressione più adatta, visto il tempo.
Resto convinto di ciò, l'ho detto e ridetto fino alla noia.
Ma ho anche riconosciuto che in questi anni il Festival è migliorato, e ha cominciato a funzionare anche sul piano della promozione della città.
Non credo, e non crederò finché non avrò visto dei dati statisticamente attendibili, che attiri da solo il 70 per cento del flusso turistico del ponte del 25 aprile: queste sono smargiassate che non stanno né in cielo né in terra. Però un suo pubblico da fuori città ho l'impressione (ripeto: impressione) che adesso cominci a richiamarlo. E un po' di visibilità a Torino la procura, anche se i riscontri sui media, al di fuori della cinta daziaria, non mi paiono sconvolgenti: specie se paragonati al forsennato impegno promozionale del Comune, che quest'anno costa alle casse pubbliche 120 mila euro (e in passato erano 200 mila).
Più che altro, il Festival offre ai visitatori quel "qualcosa in più" che certo contribuisce alla loro soddisfazione finale. Per cui ho scritto di recente che, a questo punto, tanto vale tenercelo, dato che ci abbiamo investito una montagna di denaro: un milione all'anno per cinque anni fanno cinque milioni. Pur se in gran parte sono soldi degli sponsor (e quest'anno sono arrivati i privati veri, tipo Toyota, Seat e Poste Italiane) sono una cifra notevole, che andrebbe sprecata se decidessimo di chiudere bottega.
Ovviamente, sono parole al vento. Chiunque vinca, farà la cosa sbagliata.
Segue: Crisi al Jazz Festival, Giggi er Bullo ammette: "Ho perso pubblico"
E dopo queste considerazioni di moderato ottimismo, ecco a voi il programma dell'ultimo giorno dei dieci che hanno jazzato Torino.
Insomma, vogliamo renderci conto di che cosa vogliamo e possiamo permetterci veramente? Stefano Zenni e Furio Di Castri sono bravi e competenti, lavorano bene, onore al merito. Ma il Comune vuole dieci giorni di Festival, e loro fanno del loro meglio, con i soldi a disposizione.
Lì sta il problema: le ambizioni devono essere proporzionate alle possibilità. Il "vorrei ma non posso" è inutile e sfocia nel ridicolo. Sembriamo Alvaro Vitali quando fa Giggi er Bullo che minaccia sfracelli e si becca una paccata di sganassoni.
Vive o muore? Dipende dal voto
Quanto al futuro del Festival, al momento è incerto. Dipenderà dall'esito delle elezioni.Se vincerà Chiara Appendino, mi pare di aver capito che l'esperienza del Tjf si chiuderà qui: la candidata del Movimento 5 Stelle ha dichiarato chiaro e tondo che lo considera un esempio dei "grandi eventi senza adeguata ricaduta sul territorio". Questo adesso. Poi, si sa, le cose cambiano.
Se invece sarà confermato Fassino, è certo che il Festival andrà avanti. Su quello, almeno, non ci piove. Anche se non mi sembra l'espressione più adatta, visto il tempo.
Ok, me ne faccio una ragione
Io sono stato fin dall'inizio, cinque anni fa, nettamente contrario al Tjf perché lo consideravo, stanti le condizioni economiche del Comune, un lusso che avrebbe sottratto risorse - fossero pure sponsorizzazioni private - ad altre iniziative importanti e in difficoltà.Resto convinto di ciò, l'ho detto e ridetto fino alla noia.
Ma ho anche riconosciuto che in questi anni il Festival è migliorato, e ha cominciato a funzionare anche sul piano della promozione della città.
Non credo, e non crederò finché non avrò visto dei dati statisticamente attendibili, che attiri da solo il 70 per cento del flusso turistico del ponte del 25 aprile: queste sono smargiassate che non stanno né in cielo né in terra. Però un suo pubblico da fuori città ho l'impressione (ripeto: impressione) che adesso cominci a richiamarlo. E un po' di visibilità a Torino la procura, anche se i riscontri sui media, al di fuori della cinta daziaria, non mi paiono sconvolgenti: specie se paragonati al forsennato impegno promozionale del Comune, che quest'anno costa alle casse pubbliche 120 mila euro (e in passato erano 200 mila).
Più che altro, il Festival offre ai visitatori quel "qualcosa in più" che certo contribuisce alla loro soddisfazione finale. Per cui ho scritto di recente che, a questo punto, tanto vale tenercelo, dato che ci abbiamo investito una montagna di denaro: un milione all'anno per cinque anni fanno cinque milioni. Pur se in gran parte sono soldi degli sponsor (e quest'anno sono arrivati i privati veri, tipo Toyota, Seat e Poste Italiane) sono una cifra notevole, che andrebbe sprecata se decidessimo di chiudere bottega.
Cinque giorni possono bastare
Però, almeno, rinunciamo ai gigantismi inutili. Il buon senso vorrebbe che si costruisse una manifestazione compatta, quattro o cinque giorni attorno alla festività del 25 aprile, e pazienza per il Primo Maggio: semmai riparleremo di un Tjf "extended" nel 2019, quando il calendario (con il 25 aprile di giovedì e il 1° maggio di mercoledì) ci autorizzerà a immaginare un megaponte da riempire di musica.Ovviamente, sono parole al vento. Chiunque vinca, farà la cosa sbagliata.
Segue: Crisi al Jazz Festival, Giggi er Bullo ammette: "Ho perso pubblico"
E dopo queste considerazioni di moderato ottimismo, ecco a voi il programma dell'ultimo giorno dei dieci che hanno jazzato Torino.
PIAZZA CASTELLO
ORE 17
GONZALO BERGARA QUARTET
Gonzalo Bergara, chitarra solista - Leah Zeger, violino - Max O'Rourke, chitarra ritmica - Jérémie Arranger, contrabbasso -
In collaborazione con Associazione Jazz Manouche Django Reinhardt
Per la prima volta in Italia e in una delle rare esibizioni in Europa, seconda solo alle due precedenti al Festival Django Reinhardt di Samois-sur-Seine, il Gonzalo Bergara Quartet porta a Torino i suoi ritmi gipsy jazz contaminati dai suoni della terra natia del leader e compositore del gruppo, l’argentino Gonzalo Bergara, accompagnato dalla violinista Lea Zeger, dal chitarrista Max O’Rourke e dal contrabbassista Jérémie Arranger. Il quartetto acustico di Gonzalo Bergara nasce a Los Angeles dal connubio di diverse influenze musicali ma con un chiaro orientamento gipsy jazz, e un denominatore comune che è l’ispirazione al famoso chitarrista francese anni 30 Django Reinhardt.
Ore 18.00
JUILLIARD JAZZ SCHOOL A TORINO
Rodney Jones, chitarra, direzione e la Artist Diploma Band: Emanuele Cisi, sassofono tenore - David Neves, tromba - Eric Miller, trombone - Sam Dillon, sassofoni - David Meder, pianoforte - Martin Jaffe, contrabbasso - Douglas Marriner, batteria –
In collaborazione con il Conservatorio Verdi di TorinoProduzione originale Torino Jazz Festival
Come ogni anno sul palco del festival insieme ai docenti della Juilliard si esibisce una selezione di studenti italiani e americani che hanno frequentato la Masterclass. Nel gruppo si esibiscono come ospiti il sassofonista Emanuele Cisi, ideatore e organizzatore del workshop, e il chitarrista Rodney Jones, già docente nella masterclass del 2014 e anche allora presente sul palco. Con loro la Artist Diploma Band, cioè l’ensemble degli studenti Juilliard prossimi al diploma finale.
Ore 19.00
FERDINANDO FARAÒ & ARTCHIPEL ORCHESTRA "PLAY SOFT MACHINE"
Ferdinando Faraò, direzione, arrangiamenti - Marco Mariani, Marco Fior, Gianni Sansone, trombe - Andrea Baronchelli, Alberto Bolettieri, tromboni
Felice Clemente, sassofono soprano - Alex Sabina, sassofono alto - Germano Zenga, sassofono tenore - Massimo Falascone, sassofono baritono - Alberto Zappalà, clarinetto basso - Carlo Nicita, flauto - Eloisa Manera, violino - Stefano Montaldo, viola - Massimo Giuntoli, pianoforte e tastiera - Mariangela Tandoi, fisarmonica - Giampiero Spina, chitarra elettrica - Gianluca Alberti, basso elettrico - Stefano Lecchi, batteria - Naima Faraò, Giusy Lupis, Serena Ferrara, voci - In collaborazione con Area M - Il Ritmo delle Città, Milano e con Musicamorfosi
La Artchipel Orchestra è un organico nato da un’idea del batterista, compositore e direttore d’orchestra Ferdinando Faraò, pluripremiata nei referendum delle riviste specializzate italiane e accolta con calore dalla critica internazionale. Da un repertorio di brani originali, la band è passata ad arrangiamenti propri di composizioni scritte negli anni settanta, ottanta e novanta da Mike Westbrook, Alan Gowen, Fred Frith e Dave Stewart. Il secondo cd dell’Artchipel, pubblicato nel 2014, è dedicato ad arrangiamenti per big band di brani scritti da Hugh Hopper e Robert Wyatt per i Soft Machine.
Ore 20.00
YILIAN CAÑIZARES “INVOCACIÓN”
Yilian Cañizares, violino e voce - Daniel Stawinski, pianoforte - David Brito, contrabbasso - Cyril Regamey, batteria e percussioni - Inor Sotolongo, percussioni.
Yilian Cañizares, nata a L’Avana, studia in casa, poi parte per Caracas: qui si confronta con lo studio del violino e contemporaneamente si avvicina alle percussioni, approfondendo i ritmi intricati di un’Africa filtrata dalle influenze della sua Cuba. Dopo essersi trasferita in Europa ha fondato un proprio gruppo che, dopo appena sei mesi di attività, si è imposto nel 2008 al prestigioso Montreux Jazz Festival Competition. Invocación è soprattutto un omaggio alle radici culturali e religiose della Cañizares. Come ha scritto Jane Cornwell: prima di salire sul palco l’artista prega perché la musica e i suoi antenati possano fluire attraverso di lei per raggiungere tutto il
pubblico, anche quello che non parla la sua lingua o conosce la sua cultura, ma intuisce l’esperienza mistica che la attraversa sul palco.
Ore 21.15
GIOVANNI FALZONE CONTEMPORARY ORCHESTRA/ LED ZEPPELIN SUITE
Giovanni Falzone, tromba, arrangiamenti e direzione - Jacopo Soler, flauto - Massimo Marcer, tromba - Massimiliano Milesi, sax tenore e soprano
Marco Taraddei, fagotto - Andrea Baronchelli, trombone - Rudi Manzoli, sax baritono - Valerio Scrignoli, chitarra elettrica - Danilo Gallo, basso elettrico
Riccardo Tosi, batteria.
Led Zeppelin Suite è un viaggio sul più famoso dirigibile del rock. Dopo il fortunato incontro con Jimi Hendrix, Giovanni Falzone rinnova la sua esplorazione attorno all’universo rock proponendo una rilettura dei Led Zeppelin con una nuova creatura: la Giovanni Falzone Contemporary Orchestra, in una lunga suite capace di intrecciare, rileggere, trasfigurare e intercalare i primi quattro album della band di Jimmy Page e Robert Plant. Le nuove composizioni di Falzone pescano da quel materiale amalgamandolo in un patchwork che integra arrangiamenti per orchestra, episodi solistici e riff originali.
Ore 22.30
INCOGNITO “AMPLIFIED SOUL TOUR”
Jean-Paul 'Bluey' Maunick, chitarra elettrica, voce - Vanessa Haynes, Mo Brandis, Katie Leone, voci - Sid Gauld, tromba - Alistair White, trombone
Paul Booth, sassofoni - Graham Harvey, tastiere - Francisco Sales, chitarra elettrica - Francis Hylton, basso elettrico - Francesco Mendolia, batteria
João Caetano, percussioni.
Gli Incognito sono dal 1981 i pionieri della scena britannica dell’acid jazz. Con oltre cinque milioni di dischi venduti nel mondo e l’influenza esercitata su Jamiroquai e Brand New Heavies, il gruppo capitanato da Jean-Paul “Bluey” Maunick vanta oltre 35 anni di carriera con collaborazioni illustri, da Chaka Khan a quella recente con Mario Biondi. Il loro sound ha segnato gli anni Novanta, con la cover di Don’t You Worry ‘Bout a Thing, vecchia hit di Stevie Wonder riportata al successo e brani notissimi come I Hear Your Name e Everyday. Dal vivo gli Incognito suonano anche i pezzi dell’ultimo lavoro del 2014, Amplified Soul.
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