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MANUALE PER TAFAZZI: COME FARE MALE AL SALONE

L'abbraccio finale fra il presidente del Salone Bray e il direttore Lagioia
Questo è un post molto lungo, molto noioso, e pure vagamente iettatorio. Se non lo leggete avete tutta la mia umana comprensione e vi evitate un giramento. Però ho pensato che tanto valeva scrivere adesso, nel momento di maggior fulgore, quali sono i punti deboli del Salone del Libro. O meglio, quali sono le miopie e le meschinerie umane che potranno, in un futuro prossimo, riprecipitare l'intera baracca nella crisi più nera, vanificando il lavoro appassionato di tante brave persone, e l'entusiasmo e l'amore di tantissimi torinesi. 

Il referendum non si tocca

Nic Lagioia lo ha messo in chiaro al momento di annunciare le date dell'edizione 2018: "Che il Salone si debba fare, che si debba fare a Torino, e che si debba fare a maggio, non lo decidiamo noi, non lo decidono le case editrici, non lo decide la politica. Lo ha deciso l’enorme popolo di fratelli e sorelle che ha invaso pacificamente questa città negli ultimi giorni".  Nel discorso del direttore Lagioia che ha chiuso il trentesimo Salone del Libro ricorre spesso l'accenno all'investitura popolare, alla mobilitazione dei torinesi che sono scesi in campo per difendere il loro Salone. Lagioia non manca di ricordare alla politica che il popolo ha scelto. Come in un referendum, ha detto "sì" al Salone di Torino. E di conseguenza ogni altra discussione è superflua. 
Uno pseudo Wittgenstein affermerebbe a questo punto che "delle cose di cui non è necessario parlare, di solito non si parla"; quindi, se Lagioia tratta alcuni argomenti, significa che essi non sono ancora pacifici, e le parole del direttore rivelano quali pericoli incombano ancora sul Salone, e quali pressioni la coppia Bray-Lagioia abbia subìto, o tema di subire. E quali siano le priorità da proteggere.

Garanzie per gli editori fedeli

"Questo risultato non sarebbe mai stato possibile senza gli Amici del Salone, e senza gli altri editori che ci hanno sostenuto; per cui nessun tavolo istituzionale che si voglia fare sul futuro del Salone, a cui siano invitati degli editori, potrà più fare a meno di loro"
Lagioia blandisce i piccoli editori, suoi primi alleati, e subito dopo tende la mano a Mondazzoli e complici perché ritornino a Torino, rinunciando però alle pretese egemoniche: "Vi aspettiamo a braccia aperte. Abbiamo bisogno delle vostre idee, della vostra competenza, della vostra capacità di coniugare cultura e spirito d'impresa. Ma aiutateci a tirare giù quel muro!".
Mi pare che a Torino nessuno abbia sofferto la mancanza di Mondazzoli e complici. Giuro che in cinque giorni, girando per gli stand, non ho sentito un singolo visitatore che fosse uno dire: "Miiii, non ci posso credere, non c'è Mondadori! Miiii, e adesso dove li compro i libri di Fabio Volo?". 
Lagioia comunque sprizza disponibilità e fraternità da tutti i pori, e l'atteggiamento è nobile, in un vincitore. 
Però Lagioia non è San Francesco: anche lui nel suo piccolo s'incazza. A proposito dell'Einaudi - che piegandosi al diktat mondazzoliano ha disertato anch'essa Torino - il vecchio Nic la tocca piano piano: "Come autore Einaudi, mi sono sentito mortificato per come la casa editrice i cui dirigenti e i cui autori un tempo morivano o andavano in esilio per le proprie idee, sia stata costretta nel 2017 a una lunga faticosa trattativa per ottenere un piccolo stand nella propria stessa città".
Per dire: pace sì, ma con dignità. Senza dimenticare chi ha vinto e chi ha perso.
Teniamo però presente che i milanesi hanno perso la battaglia, ma la guerra continua. Certamente rifaranno Tempo di Libri, e adesso che Torino ha annunciato le sue date sarà interessante scoprire le loro prossime mosse. Niente di più facile che insistano sulla strada idiota della contrapposizione frontale, scegliendo la concomitanza o quasi. Al che tutti i ramoscelli d'ulivo di Lagioia serviranno ad alimentare il falò delle vanità meneghine, e ricomincerà la guerra: ancor più difficile per noi, come ho già avuto modo di spiegare.
Intanto Lagioia pensa a rassicurare i suoi fidi alleati impegnandosi a non aprire "tavoli separati" con i grandi editori: se si discuterà, si discuterà tutti insieme. L'ombra di Mondazzoli e della pax ministeriale allarma i piccoli editori: tra l'altro, essi sanno bene che se quest'anno le vendite si sono moltiplicate è dovuto molto all'assenza dei megastand del duopolio Mondazzoli-Gems. Nei giorni scorsi i piccoli editori hanno detto a Lagioia che non accetteranno nuovi balletti e nuove trattative sul ruolo, la sede e gli assetti del Salone: a costo di disertare pure Torino, oltre che Milano. Lagioia ha dato la sua parola: non c'è nessuna trattativa in corso. E se la politica pretendesse di imbastirla, lo farebbe senza di lui. 

Vatti a fidare della politica...


Già, la politica. Adesso si vantano a favore di telecamera, si congratulano fra di loro, e cavalcano la retorica del "tutti uniti per il Salone"
Lagioia conosce i suoi polli e li blandisce: "Ringrazio la sindaca Chiara Appendino, e il Presidente della Regione, Sergio Chiamparino, per come hanno creduto in questi mesi a questo magnifico progetto. Senza il loro coraggio, e senza la loro saggezza (per l'occasione sono stati saggi e coraggiosi), tutto questo non sarebbe neanche iniziato. Cara Chiara, caro Sergio: il fatto che apparteniate a due diversi, per certi versi opposti schieramenti politici, aumenta il valore della vostra impresa"
Ok, ok, ma mi preme ricordare che l'estate scorsa, quando scoppiò la crisi, nei palazzi del potere aleggiava una certa rassegnazione fatalistica. In quel momento, con l'inchiesta giudiziaria in corso e i conti in rosso, il Salone era una grana, e a qualcuno magari non sarebbe dispiaciuto di consegnarlo infiocchettato all'Aie, con il pelosissimo impegno di mantenerlo (almeno per un po'...) a Torino. Fu la rivolta dei piccoli editori a ricompattare la politica piemontese sul fronte della resistenza.
Ciò deve servirci per immaginare ogni futuro possibile. La politica persegue sempre il proprio tornaconto, e pertanto i politici sono alleati infidi. Se sarà conveniente assecondare le smanie di Franceschini, i nostri eroi riscopriranno i grandi valori della trattativa con Milano. 
Lagioia lo sa. E rivolgendosi con apparente deferenza ai ministri, parla a nuora perché suocera intenda.

Ministri, giù le mani dal Salone


"Per la portata straordinaria di quello che è successo, il Salone è un patrimonio nazionale, un laboratorio e un modello prezioso per l'intero paese: ci aspettiamo che questo modello sia difeso e sostenuto a livello nazionale, lasciando al Salone l'autonomia di cui ha goduto quest'anno e di cui avrà ancora più bisogno negli anni a venire. Ciò che è successo in questi giorni ha una tale portata, che non esiste strategia o calcolo politico che possa resistervi, se riteniamo che il bene comune sia l'obiettivo di noi tutti".  Questo vuol dire che già ora Franceschini sta scatenando l'inferno. Non demorde e non demorderà. Per mesi i giornali s'ingegneranno di scoprire quali stravaganti pensate frullano per la vasta cavità cranica del ministro: Salone itinerante, Salone a Torino o a Milano ad anni alterni, Saloni con "tematiche" diverse, spostamento di uno dei saloni in autunno (indovinate a quale Salone toccherebbe spostarsi?), saloni con governance unica... Ogni giorno ne gira una diversa. Di sicuro, Francis non la smette di lessare i cabasisi con la storia della "trattativa". Non si capisce a quale titolo e da quale posizione Milano potrebbe pretendere di "trattare" con Torino. L'unica cosa che realisticamente Mondazzoli e complici possono al momento trattare è la resa, e l'eventuale riammissione al Salone torinese: previo lo spostamento del fake milanese in periodo più consono, tipo il 2 novembre, e la recita di un atto di dolore inginocchiati sull'orrenda moquette fucsia del Lingotto. 
Ma a Lagioia basterebbe che Franceschini si facesse davvero mediatore fra le due città, anziché comportarsi come l'arbitro Moreno. Nic non chiede altro che ricucire lo strappo: "Ministro Franceschini, venga da questa parte e ci aiuti a buttare giù quel muro!", dice.
D'altra parte Francis ha in mano l'arma dei soldi. MiBACT e Miur non sono ancora entrati nella nuova compagine societaria del Salone, né sembrano ansiosi di farlo. Per ora hanno sganciato il contributo promesso per il 2017 (300 mila ciascuno), ma non è detto che lo facciano pure per il 2018. E il nuovo Statuto resta da approvare.

Il male oscuro del bilancio


Qui entra in gioco un'altra criticità: le finanze del Salone. Quest'anno, pur senza darlo a vedere, hanno risparmiato su tutto: hanno persino rinunciato a chiudere la manifestazione con il tradizionale taglio della torta. Pur di non spendere per la torta. Con molta dignità, devo dire: il vecchio e sempre affezionato patron Guido Accornero si è pure offerto di pagarla di tasca sua, ma gli hanno risposto no grazie, preferivano una sobria austerità francescana.
Tornando ai problemi economici davvero serii, ricordo che i ministeri tentennano a entrare nella nuova compagine del Salone anche perché temono di doversi sobbarcare i debiti pregressi. Cifre esatte non ci sono, a seconda delle fonti si va dai due milioni e mezzo ai quattro: bruscolini, insomma. L'intervento di ricapitalizzazione previsto dalla Regione (1,5 milioni) darebbe senz'altro un bell'aiuto.
Anche gli incassi della biglietteria - che dovrebbero aggirarsi sui 900 mila euro - sono un  bel risultato. Ma non dimentichiamo che questo trentesimo Salone è stato venduto a prezzi stracciati, e per quel motivo c'erano tanti espositori: ma prima o poi s'imporrà un ritorno al mercato. 
Un Salone debole sul piano finanziario tornerebbe ad essere un problema anziché una risorsa, i fautori dell'abbraccio mortale con Milano riacquisterebbero baldanza, e persino l'apparente unità d'intenti potrebbe incrinarsi. Lo so che Chiampa e Chiarabella tubano come piccioncini. Ma quando finisce lo champagne, finisce anche l'amore. 

Cafoni, desaparecidos e altri brutti segnali


Già oggi, sottotraccia, noto segnali strani e brutti. Segnali di nervosismo.
Vi faccio qualche esempio. Casi slegati, piccoli episodi, particolari. Ma nella vita ho imparato che è spesso dai particolari che si giudica un amministratore.
Esempio numero uno. C'è un Coboldo municipale che - stando a fonti attendibilissime - nel solo periodo del Salone del Libro è riuscito a insolentire nell'ordine un vicepresidente del Salone, un presidente del Salone e una giornalista del Salone. E già questo... 
Tuttavia una delle tre insolenze mi interessa perché rivelatrice delle gelosie generate dall'impresa del Salone: quando il piatto è ricco, tutti vogliono ficcarcisi. Non vi racconterò la storia, è troppo miserabile. Diciamo che un galantuomo s'è preso una lavato di capo da un dipendente pubblico insolente per essersi lasciato sfuggire una confidenza che rischiava d'appannare il ruolo di un'alta autorità nel trionfo del Salone. 
Insomma: ora che la scommessa è vinta bisogna sfruttare i benefici politici della vittoria, e quindi cresce l'ansia di non finire in ombra. Una preoccupazione di cui s'è accorto a sue spese pure Bray: per cui ieri, raccontando come ingaggiò Lagioia, s'è affrettato a precisare che "non appena Nicola mi disse sì, io l'ho comunicato mandando contemporaneamente un messaggio a tutti i miei interlocutori". Come dire: tutti sapevano tutto, e tutti hanno identico merito e identico peso. E' una precisazione ridicola, tra persone normali. Ma Bray sa di aver a che fare con persone non  normali, e si adegua per non calpestare nessuna suscettibilità. 
Difatti Bray diplomaticamente elogia Chiampa e Chiarabella: "In questi dieci mesi non hanno mai chiesto nulla al Salone del Libro, ma invece hanno fatto tutto perché fosse un successo". Ecco, vorrei mai che adesso qualcuno pensasse di passare all'incasso. Oh, voi due, carini: guardate che, con quel che vi pago, avete fatto soltanto il vostro dovere. Niente vi è dovuto, se non un bravo grazie e continua così. Non facciamo scherzi, e chi ha qualche amichetto o cuginetto da sistemare se lo assuma come giardiniere. 
Esempio numero due. Un altro fenomeno curioso che ho registrato man mano che il successo del Salone si faceva clamoroso è l'eclisse del vicepresidente Mario Montalcini. Ieri non volevano neppure farlo parlare alla conferenza finale. Lui s'è incaponito, per principio, dato che per il Salone ha sputato sangue per mesi. Alla fine ha parlato, ma lo scazzo è notevole. Altro brutto segno, quando la gratitudine passa di moda.
Esempio numero tre. Il segretario generale della Fondazione per il Libro Giuseppe Ferrari ha concluso l'incarico ed è tornato al suo posto di dirigente in Comune. Chiunque abbia seguito da vicino la resurrezione del Salone sa che Ferrari ne è stato tra gli artefici maggiori. E con il nuovo Statuto il ruolo del segretario generale sarà forse il più importante nella governance del Salone. Poiché è indispensabile cominciare subito a preparare l'edizione 2018, è altrettanto indispensabile che la Fondazione abbia subito un segretario generale. Chi lo sceglierà? E come? Magari con uno dei soliti bandi farlocchi? O salteranno quella banale formalità e cominceranno subito a litigare? Lo scopriremo solo vivendo.
Se poi si dovrà pure mettere mano alla struttura stessa della Fondazione, prevedo guai e un aumento geometrico della conflittualità fra enti locali. 
Sono fiducioso: riusciremo a farci del male anche stavolta.

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