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TORINO, GLI SPONSOR E IL PECCATO DI UBRIS


E non sembravi più nemmeno quello
che dalle porte Scee guardando il cielo
gridava a Dio con tutta la sua voce
"Sterminaci se vuoi, ma nella luce..."
Dovevi vincer tu, lo sanno tutti
tu andavi per nemici e lui per gatti
ma il popolo è una pecora che bela
gli fai passar per fragola una mela







C'è una parola greca che spiega - meglio di quanto mai potranno commentatori, giornalisti e politici - l'esito imbarazzante degli "Avvisi pubblici di ricerca di mercato per l’individuazione di nuovi Soci Fondatori e di Sponsor" per il Salone del Libro.
E' la parola ὕβϱις.
Ubris - cito da Wikipedia, per mantenermi al livello generale della penosa vicenda - "significa letteralmente tracotanza, eccesso, superbia, orgoglio, prevaricazione (Ma io aggiungerei pure protervia e spocchia luciferina, NdG). Si riferisce in generale a un'azione ingiusta o empia avvenuta nel passato, che produce conseguenze negative su persone ed eventi del presente. E' un antefatto che vale come causa a monte che condurrà alla catastrofe della tragedia".

Andate e moltiplicatevi: precetto biblico e peccato di ubris

Ubris è la furia cieca di Aiace ingannato dalla propria follia. E' la iattanza di Capaneo che sfida gli dei e ne viene fulminato sulle mura di Tebe. E' il delirio d'onnipotenza di Serse che vuol frustare il mare perché non asseconda i suoi piani.
Torino ha peccato di ubris nelle politiche culturali. Nel pieno della crisi, anziché consolidare le grandi realtà costruite faticosamente in tanti anni, ci si è lanciati in avventure nuove, quando già le finanze pubbliche stentavano a mantenere l'esistente. Per farlo, si sono (ci siamo) aggrappati a una parola magica: "sponsor". I privati, ci siamo raccontati, sono lì, pronti: smaniosi di riversare fiumi di denaro sui nostri festival.
Ecco l'ubris: immaginare di poter estendere all'infinito il catalogo dell'offerta, affidandone il sostegno economico alla buona volontà di chi - come l'imprenditore davvero privato - non è istituzionalmente tenuto a farlo. E' l'interpretazione cattolica dell'andate e moltiplicatevi: mettiamo al mondo tanti figli perché ci fanno più belli e più santi, e a mantenerli ci pensarà il buon Dio (o il generoso benefattore).

Figli e figliastri

Poi, sapete, la voglia svanisce e il figlio rimane, e tanti ne uccide la fame. 
Ma anche nelle migliori famiglie ci sono figli e figliastri. In effetti, in una certa misura, per alcune manifestazioni gli sponsor si trovano. Combinazione, si trovano di più per le sei manifestazioni direttamente organizzate dal Comune tramite la Fondazione per la Cultura. Fondazione che si incarica anche di rastrellare gli sponsor. E mai il termine "rastrellare" fu più perspicuo.
Diciamo che gli altri - gli organizzatori privati soprattutto - stentano un po', mentre, chissà perché, le manifestazioni comunali possono sempre contare sull'entusiastico supporto finanziario di importanti aziende, spesso legate al settore pubblico. Spicca il mirabile esempio dell'Iren, ognora presente e con il portafogli in mano. Iren di sicuro sponsorizza Natale coi fiocchi e le altre meraviglie municipali perché imprenditorialmente convinta delle loro potenzialità artistiche e di comunicazione; non certo perché sollecitata dal sindaco di Torino, il suo maggiore azionista che ne ha testé nominato il presidente.
Chiaro che Iren e le sue sorelle non possono pensare a tutti: pasciute le manifestazioni municipali, in cassa restano pochi danari per altre elargizioni.

La guerra dei poveri: Oliver chiede un po' di zuppa

Così al "bando" del Salone (preclaro esempio di ubris) rispondono sparuti gli sponsor medi, quelli che semmai potrebbero e dovrebbero interessarsi a tanti festival e rassegne di grande qualità ma di dimensioni (e quindi esigenze economiche) minori. A catena, i festival e le rassegne minori saranno costretti a pescare nelle riserve dei piccoli e piccolissimi. La guerra tra i poveri divampa: se il grosso sponsor se l'è già pappato l'impresario comunale, il piccolo sponsor fa gola al grosso postulantone, che lo strappa al piccolo postulantino. Una scena nel complesso penosa: trattandosi di robe kulturali, sembra una brutta via di mezzo fra la corte dei miracoli di "Notre Dame de Paris" e Oliver Twist quando chiede ancora un po' di zuppa.

Facile fare i bandi, se ti chiami Brad Pitt

Prossimamente un bando per bombare con costui
In questo sconsolante panorama, arriva bel bello il Salone e fa il bando (pardon: "avviso pubblico di ricerca", si dice così) per scegliere gli sponsor. Gli altri gli sponsor se li penano, vanno a cercarli sotto casa, li supplicano e li blandiscono. Questi no: questi fanno il bando. Data la situazione, è come se uno che non si chiama Brad Pitt facesse un bando per individuare quella che gliela dà.
Il risultato è noto. Solo tre "aspiranti sponsor" hanno risposto: trattasi di Pontevecchio (acque minerali), Gobino (cioccolata) e Yakult (yoghurt). Spiace dirlo, ma non è cambiato un gran che rispetto al vituperato passato: Gobino è sponsor del Salone da sempre, Yakult da due anni, e Pontevecchio fa parte della galassia Sparea (come dire Damilano), altro sostenitore storico della manifestazione. Rispetto al passato, anzi, qualche sponsor s'è perso per strada.
Insomma: la narrazione è che Picchioni andava a bussare a soldi soltanto agli usci della politica, ma anche adesso... Nelle casse del rinato Salone al momento mi risultano soltanto stanziamenti di Comune, Regione, ministeri e fondazioni bancarie. E quanto alle banche, se ben ricordo Picchioni una volta almeno Unicredit l'ha avuta come sponsor, senza tante storie e tanti bandi.

Quanto può dare un volonteroso?

Comunque, i tre volonterosi si sono ri-fatti avanti, candidandosi a sponsorizzare il Salone del Libro pure dal 2016 al 2018. Le cifre offerte dagli "aspiranti sponsor" sono segretissime per scongiurare grave reato di "turbativa d'asta". Ma faccio appello al buon senso di un lamellibranchio: quanto potranno investire sul Salone del Libro un'azienda non enorme di acque minerali, una cioccolateria artigiana d'alta qualità e un medio produttore di yogurt e affini? Il contributo di partenza, la cifra minima prevista dal bando, era 5000 mila euro: e io, in concreto, non mi azzarderei a scommettere che almeno uno dei tre aspiranti sponsor abbia offerto una somma dieci volte superiore. Badate bene: 50 mila euro, quand'anche moltiplicati per tre aziende, rimarrebbero comunque noccioline a fronte degli 825 mila dichiarati dalla Fondazione per la Cultura come contributo al Torino Jazz Festival degli sponsor Poste Italiane, Pagine Gialle, Toyota nonché dell'immancabile Iren. Per non dire dei 100 mila euro di sponsorizzazioni raccattati in proprio dal Fringe, sezione "off" del medesimo Festival.

Dalla padella nella brace

By the way: c'è poi quell'altra scienziata che vuole abolire la Fondazione per la Cultura e affidare la ricerca degli sponsor a 'sti nuovi talenti del fundraising. Che immagino procederebbero a colpi di bandi, come piace a lorsignori.
Stiamo freschi.

L'unica è trasferirsi a Lagos.

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